Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31979 del 11/12/2018

Cassazione civile sez. II, 11/12/2018, (ud. 25/09/2018, dep. 11/12/2018), n.31979

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15282/2016 proposto da:

C.N., elettivamente domiciliato a Roma, via Aureliana 2,

presso lo studio dell’Avvocato ANTONIO PETRAGLIA e rappresentata e

difesa dall’Avvocato ZINA SCOTTI per procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E TRASPORTI e CAPITANERIA DI PORTO DI

VIBO VALENTIA, rappresentati e difesi dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso il cui uffici in Roma, via dei Portoghesi 12,

domicilia per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1607/2015 della CORTE D’APPELLO DI CATANZARO,

depositata il 21/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 25/9/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.N., con ricorso depositato in data 29/10/2009, ha proposto opposizione, a norma della L. n. 689 del 1981, art. 22 bis, avverso l’ordinanza n. 186/09 con la quale la Capitaneria di Porto – Guardia Costiera – di Vibo Valentia gli aveva ingiunto, nella qualità di comandante del motopeschereccio “(OMISSIS)”, di pagare la somma di Euro 4.500,00, a titolo di sanzione amministrativa, per avere, al comando della predetta unità di pesca, esercitato in data 8/6/2009, congiuntamente ad altro motopeschereccio, l’attività di pesca nelle acque marittime antistanti il porto di (OMISSIS), con rete a circuizione, catturando n. 203 esemplari di tonno rosso, senza l’autorizzazione richiesta dall’art. 19 del Reg. CEE 302/2009 per l’attività di pesca congiunta della predetta specie ittica tutelata, deducendo, per quanto ancora rileva, l’insussistenza della violazione dedotta, atteso il rilascio in data 15/4/2009 dell’autorizzazione richiesta per l’attività di pesca congiunta del tonno rosso, e chiedendo, per l’effetto, l’annullamento dell’ordinanza ingiunzione impugnata.

L’amministrazione competente si è costituita in giudizio, chiedendo il rigetto dell’opposizione.

Il tribunale di Paola, con sentenza del 22/3/2012, ha rigettato l’opposizione.

C.N., con citazione notificata il 22/3/2012, ha proposto appello.

Il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti e la Capitaneria di Porto di Vibo Valentia hanno chiesto il rigetto dell’appello.

La corte d’appello di Catanzaro, con la sentenza indicata in epigrafe, ha rigettato l’appello.

La corte, in particolare, ha rilevato che gli appellanti hanno esibito una copia del decreto ministeriale di permesso speciale di pesca ma, che, contrariamente a quanto dagli stessi dedotto, non è risultata esibita “l’autorizzazione speciale alla pesca congiunta del tonno rosso, la cui esistenza è stata smentita dai militari della Capitaneria di Porto dopo le accurate indagini di cui ha dato ampiamente atto la sentenza di primo grado”. E “tale lacuna probatoria – ha aggiunto la corte – non può ritenersi supplita da una fotocopia informe di una mail peraltro apparentemente inviata nell’anno 2010 e quindi nell’anno successivo a quello in cui è stata accertata la violazione per cui si procede – poichè trattasi di documento intrinsecamente inidoneo a dimostrare il possesso dell’autorizzazione in oggetto, perchè, tra l’altro, non specifica da quando, con riguardo all’anno 2009, la “(OMISSIS)” era stata autorizzata alla pesca congiunta del tonno rosso”. Nè rileva, ha rilevato ancora la corte, la richiesta di pesca congiunta ai sensi del regolamento comunitario 1559/2007 presentata dall’UNICI-Federazione Regionale della Campania al Ministero delle politiche agricole e forestali in data 2/6/2009 per ottenere l’autorizzazione alla pesca del tonno rosso per l’anno 2009 per determinate imbarcazioni, tra le quali figura una nave denominata “(OMISSIS)”: pur volendo ritenere che si tratti del medesimo motopeschereccio, ha osservato la corte, la richiesta di autorizzazione è stata inoltrata in data 3/6/2009, ossia appena cinque giorni prima della commissione della violazione accertata, per cui tale documento non consente di ritenere dimostrato che, alla data dell’8/6/2009, l’autorizzazione fosse stata rilasciata dal Ministero competente.

C.N., con ricorso notificato il 17/6/2016, ha chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente non notificata.

Il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti e la Capitaneria di Porto di Vibo hanno resistito con controricorso notificato il 20.21/7/2016.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare, la Corte dichiara l’inammissibilità del documento denominato “attestazione del Ministero delle Politiche Agricole in ordine all’autorizzazione alla pesca congiunta”, depositato dal ricorrente insieme al ricorso, in quanto non funzionale, come preteso dall’art. 372 c.p.c., a dimostrare la nullità della sentenza impugnata o l’ammissibilità del ricorso.

2. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 14 e 18, L. n. 689 del 1981, art. 23, in comb. disp. con l’art. 112 c.p.c., la violazione del giusto procedimento e conseguente violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., nonchè la violazione e la falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella partèvlàcorte d’appello non ha fatto buon governo delle norme vigenti in tema di sanzioni amministrative, peraltro di rilievo immediato e di ufficio, a fronte della mancanza del necessario collegamento tra il verbale di accertamento dell’8/7/2009, che ha contestato “l’assenza dell’autorizzazione ICCAT alla pesca congiunta”, e l’ordinanza ingiunzione emessa dalla Capitaneria di Porto in data 29/9/2009 per “difformità dall’autorizzazione alla pesca congiunta”, vale a dire in forza di rilievi avanzati per la prima volta nell’ordinanza stessa e del tutto estranei agli accertamenti condotti dai verbalizzanti. Sennonchè, ha aggiunto il ricorrente, in tema di sanzioni amministrative vige il principio della necessaria correlazione tra il fatto contestato e quello per il quale viene emessa la sanzione, con la conseguenza che l’autorità competente ad emanare l’ordinanza ingiunzione non può adottare un provvedimento sanzionatorio per una violazione diversa da quella oggetto dell’atto di contestazione, nè dal punto di vista del fatto commesso, nè sotto il profilo delle norme violate. Ne consegue, ha aggiunto il ricorrente, che, nel caso di specie, a fronte della contestazione di un illecito amministrativo ben determinato, quale l’assenza dell’autorizzazione, l’ordinanza in questione, pur richiamando in punto di fatto la vicenda oggetto del verbale di contestazione, risulta emessa per un titolo diverso da quello contestato e rispetto al quale i verbalizzati avevano organizzato le proprie difese, esibendo l’autorizzazione della quale si era ipotizzata la mancanza. Il giudice a quo, al quale tale evidenza era stata più volte segnalata, in luogo di annullare, come avrebbe dovuto, l’ordinanza, ha tentato, invece, un’improponibile ratifica dell’illegittimo operato del tribunale il quale, infatti, nonostante la palese ammissione nell’ordinanza in questione del titolo autorizzativo, ribadita dalla Capitaneria di Porto, ha perseverato nell’errore di ritenere non esistente l’autorizzazione, ritenendo per giunta provata la condotta illecita da parte dell’amministrazione. Peraltro, ha concluso il ricorrente, l’ordinanza è stata emessa oltre il termine di novanta giorni previsto dalla normativa relativa agli atti amministrativi.

3. Il motivo è infondato. Il giudizio d’appello, per come incontestatamente ricostruito nella sentenza impugnata, non risulta aver avuto ad oggetto nè la questione relativa alla mancanza della necessaria corrispondenza tra il fatto contestato e quello per il quale la sanzione risulta emessa, nè quella che riguarda l’emissione dell’ordinanza ingiunzione oltre il termine di novanta giorni previsto dalla normativa relativa agli atti amministrativi. Ed è noto, invece, che i motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti: in particolare, non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità (Cass. n. 16742 del 2005; Cass. n. 22154 del 2004; Cass. n. 2967 del 2001). Pertanto, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004), qualora una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nel caso di specie, non è accaduto. Il ricorrente, infatti, non ha specificamente indicato, con la riproduzione in ricorso dei corrispondenti passi dei suoi scritti difensivi, se e come abbia rappresentato le indicate questioni, sulle quali la sentenza impugnata non si esprime, al giudice dell’impugnazione della sentenza di primo grado.

4. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 19 reg. CE n. 302 del 2009, la violazione degli artt. 101 e 112 c.p.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che la mail inviata nel 2010 non sarebbe attinente alla campagna di pesca dell’anno 2009, laddove, in realtà, tale mail, proveniente dal Ministero e datata 2010, conferma il rilascio dell’autorizzazione alla pesca congiunta in favore del ricorrente. La corte, poi, ha aggiunto il ricorrente, non ha preso in considerazione o non ha compreso perchè redatto in lingua inglese, il documento recante l’autorizzazione alla pesca congiunta rilasciata all’impresa proprietaria dell’unità di pesca dalla ICCAT, recante il codice identificativo internazionale n. 023/09 3F0, del quale la stessa Capitaneria ammette l’esistenza, avendo contestato la difformità dall’autorizzazione, che presuppone l’esistenza del titolo. In definitiva, ha concluso il ricorrente, i giudici di merito hanno rigettato l’opposizione deliberatamente ignorando un documento decisivo ai fini della controversia, regolarmente depositato ma evidentemente travisato.

5.11 motivo è infondato. La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), del resto, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. (Cass. n. 11176 del 2017). In effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008). La sentenza impugnata, del resto, è stata depositata dopo l’11/9/2012, trovando, dunque, applicazione l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore successivamente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ed è noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 del 2014), la norma consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, un esito diverso della controversia (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 7472 del 2017): fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa (nella specie, la mancanza dell’autorizzazione), sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Non è, quindi, sindacabile, nella presente sede, il giudizio espresso dalla Corte di merito in ordine all’insufficienza degli elementi probatori offerti a dimostrare il fatto dedotto, vale a dire la sussistenza dell’autorizzazione.

6. Il ricorso è infondato e dev’essere, quindi, rigettato.

7. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

8. La Corte dà atto, con riguardo al ricorso n. 183 del 2014, della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese di lite, che liquida in Euro 1.500,00, oltre spese prenotate a debito; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2018

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