Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31972 del 11/12/2018

Cassazione civile sez. II, 11/12/2018, (ud. 11/04/2018, dep. 11/12/2018), n.31972

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7131-2017 proposto da:

P.L., rappresentata e difesa dagli avvocati GUGLIELMO

GULOTTA e MARTA BUTI;

– ricorrente –

contro

ORDINE degli PSICOLOGI della LOMBARDIA, in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

VITTORIA COLONNA 40 presso lo studio dell’avvocato DAMIANO LIPANI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAGRA GINA

PASQUA CARTA;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. 513/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 14/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/04/2018 dal Consigliere CHIARA BESSO MARCHEIS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale CAPASSO

LUCIO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati GUGLIELMO GULOTTA e MARTA BUTI, difensori della

ricorrente, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato GIORGIO MAZZONI, con delega orale degli Avvocati

DAMJANO LIPANI e MAURA TINA PASQUA CARTA difensori del

controricorrente, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. P.L. ricorre in cassazione, nei confronti dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, contro l’ordinanza n. 513/2017 emessa il 14 febbraio 2017 dalla Corte d’appello di Milano, con cui la Corte ha confermato l’ordinanza del Tribunale di Milano del 27 gennaio 2015, rigettando il ricorso principale di P. e il ricorso incidentale (sulla misura della sanzione) del Consiglio dell’ordine degli psicologi.

2. Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., la dott.ssa P., psicologa, aveva impugnato la deliberazione dell’Ordine degli psicologi della Lombardia con la quale le era stata irrogata la sanzione disciplinare della sospensione di due mesi dall’esercizio della professione per violazione degli artt. 3, 11, 26 del codice deontologico degli psicologi. Questo era l’oggetto della contestazione disciplinare alla dott.ssa P.: la psicologa, dopo aver seguito per due anni B.G. ed R.E. in un percorso di coppia post-adozione e dopo che R. aveva denunciato il marito per violenza sessuale nei confronti della figlia adottiva (denuncia sfociata in un procedimento penale), aveva, senza aver informato e senza avere acquisito il consenso della moglie, visitato otto volte B., da dicembre 2012 alla fine di gennaio 2013, e, su sua richiesta, aveva redatto una relazione clinico-psicologica poi depositata nel procedimento civile sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale e in quello penale.

Il Tribunale aveva accolto parzialmente il ricorso, riconoscendo in parte fondata la censura relativa alla gravità della sanzione e, stante l’assenza di precedenti e di recidive, aveva limitato la sanzione a un mese di sospensione; aveva rigettato per il resto il ricorso.

3. L’Ordine degli psicologi resiste con controricorso e ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primi tre motivi del ricorso denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 violazione e falsa applicazione di disposizioni del codice deontologico degli psicologi. Tali disposizioni, va precisato, vanno comprese “nell’ambito della violazione di legge, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo, ma che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare” (Cass., sez. un., n. 5776/2004, cfr. anche Cass., sez. un., n. 1476/2007).

a) Il primo motivo contesta violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del codice: l’articolo avrebbe carattere più dichiarativo che prescrittivo, descrivendo la missione dello psicologo nell’accrescimento delle conoscenze sul comportamento umano e nell’impiego delle medesime per promuovere il benessere psichico dell’individuo, del gruppo e della comunità, missione pienamente rispettata dalla dott.ssa P. che ha anzitutto operato per tutelare la salute e la vita del paziente, soggetto fortemente a rischio di suicidio. La condotta professionale della ricorrente non avrebbe quindi, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale e dalla Corte d’appello, in alcun modo violato l’art. 3.

Il motivo è infondato. Per espressa previsione dell’art. 3, lo psicologo “è consapevole della responsabilità sociale derivante dal

fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire

significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali (..); è responsabile dei propri atti professionali”. Alla luce dei fatti accertati dalla Corte d’appello – ossia che la psicologa ha, senza che l’ex paziente ne fosse a conoscenza e avesse dato il proprio consenso, assunto un incarico nell’esclusivo interesse di un soggetto con essa in conflitto, che nella relazione sono state di fatto utilizzate informazioni sui problemi della coppia e della famiglia e sono state enunciate valutazioni che si sostanziano in un giudizio fortemente critico della condotta dell’ex paziente – risulta corretto ravvisare la violazione dell’obbligo di consapevolezza e di responsabilità di cui al richiamato art. 3.

b) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 11 del codice: la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che P. abbia violato il segreto professionale contattando i legali e un’amica di R. e redigendo la relazione, in quanto da un lato si trattava di soggetti già edotti del rapporto professionale intercorso con R. e dall’altro i contenuti riportati nella relazione sono riconducibili ai soli colloqui avuti con B..

Il motivo è infondato. Secondo l’art. 11 “lo psicologo è tenuto al segreto professionale; pertanto non rivela notizie, fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, nè informa circa le prestazioni professionali effettuate o programmate”. Il fatto, accertato dal giudice di merito, di avere contattato soggetti estranei alla coppia (amica e avvocati della R.), rivelando di avere intrattenuto rapporti professionali con quest’ultima, nonchè la predisposizione di una relazione di parte nella quale – afferma la Corte d’appello – sono state utilizzate informazioni sui problemi della coppia e della famiglia sono circostanze idonee a integrare la violazione del segreto professionale così come descritto dalla disposizione del codice deontologico.

c) Il terzo motivo contesta violazione e falsa applicazione dell’art. 26 del codice: la Corte d’appello avrebbe posto in essere “un vero e proprio travisamento semantico”, non avendo considerato che la deliberazione dell’Ordine che ha irrogato la sanzione ha sostituito l’avverbio “qualora” con l’avverbio “nonostante” nel testo del richiamato art. 26.

Il motivo è infondato. La Corte d’appello, nel rigettare la censura di distorsione del contenuto della norma, ha infatti richiamato il testo dell’art. 26 – secondo cui “lo psicologo evita di assumere ruoli professionali e di compiere interventi nei confronti dell’utenza (..) qualora la natura di precedenti rapporti possa comprometterne la credibilità e l’efficacia” – e ha analizzato il significato dell’avverbio “qualora”, attribuendogli quello di “quando”, “nei casi in cui”, con corretto percorso argomentativo.

2. Il quarto motivo fa valere, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 omesso esame di elementi di fatto decisivi nella controversia e omessa motivazione: la Corte d’appello non avrebbe valutato un fatto decisivo, ossia che B. aveva chiesto alla dott.ssa P. due relazioni, una relativa al percorso post-adottivo svolto con la moglie e l’altra relativa al successivo percorso di sostegno psicologico individuale e che la prima non è stata redatta. Il motivo non può essere accolto in quanto il fatto che si assume non esaminato – ossia la richiesta di due relazioni – è privo di decisività, avendo la Corte d’appello valutato la relazione effettivamente predisposta da P..

3. Il quinto motivo lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 omesso esame e omessa motivazione sulla domanda subordinata circa la proporzionalità e l’adeguatezza della sanzione: la Corte d’appello avrebbe omesso qualsivoglia argomentazione circa la proporzionalità e adeguatezza della sanzione della sospensione dall’esercizio della professione, limitandosi “a valutare il quantum, senza aver mai vagliato l’an della pena”.

Il motivo è infondato. Dal complesso della motivazione del provvedimento impugnato emerge la valutazione operata dalla Corte di gravità delle violazioni dei precetti stabiliti dal codice deontologico poste in essere da P., violazioni che rendono proporzionata e adeguata la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione; la sanzione, poi, viene confermata dalla Corte nella durata stabilita dal Tribunale sulla base della considerazione dell’assenza di precedenti e recidive, con giudizio che sottende la valutazione della correttezza della sanzione stessa.

4. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore del controricorrente che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda Sezione Civile, il 11 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2018

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