Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31968 del 06/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 06/12/2019, (ud. 12/09/2019, dep. 06/12/2019), n.31968

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16796/2018 R.G. proposto da:

Soc. Coop. Federcoopesca, rappresentata e difesa dall’Avv. Pietro

Romano;

– ricorrente –

contro

Regione Calabria;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, n. 2097/2017,

depositata il 24 novembre 2017;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 12 settembre

2019 dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Corte d’appello di Catanzaro ha rigettato l’appello proposto dalla Federcoopesca confermando la sentenza di primo grado che ne aveva rigettato la domanda di condanna della Regione Calabria al risarcimento dei danni (quantificati in Euro 92.195,11) asseritamente subiti a causa della ritardata erogazione di contributi regionali (contributi POR parte SFOP, misura 4.21, sul capitolo n. 5311214 del bilancio regionale 2003, relativamente ai progetti “(OMISSIS)”, “(OMISSIS)”, “(OMISSIS)” e “(OMISSIS)”).

Ha infatti ritenuto che:

– nè il bando nè i decreti dirigenziali indicavano un preciso termine entro il quale la Regione avrebbe dovuto erogare il saldo dei contributi;

– era insussistente l’inadempimento della amministrazione (pur ritenuto dal primo giudice), avendo questa, con nota del 3/4/2006, richiesto l’invio di ulteriori documenti necessari per il completamento della pratica, con ciò significando che la documentazione prima trasmessa non era completa;

– l’amministrazione ha quindi proceduto al collaudo tra il 02.05.2006 e il 07.07.2006 ed il lasso di tempo intercorso tra il collaudo finale e l’erogazione dei contributi (avvenuta in diverse tranches tra il 29/06 e il 28/08/2006) non era tale da fondare una responsabilità dell’amministrazione per ritardo nella loro erogazione e in ogni caso nessun inadempimento poteva essere imputato alla stessa, avendo la Regione correttamente seguito la procedura indicata in bando;

– la documentazione prodotta a riprova del danno sofferto non consentiva di individuare le spese sopportate per far fronte alla realizzazione dei progetti, nè di affermarne la riconducibilità al budget autorizzato dalla Regione; l’importo richiesto era in ogni caso esorbitante.

2. Avverso tale decisione la società cooperativa propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

L’intimata non svolge difese nella presente sede.

4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte d’appello, in maniera irriducibilmente contraddittoria, da un lato, affermato che “il bando, così come i decreti dirigenziali prodotti, non indicano un preciso termine entro il quale la Regione avrebbe dovuto erogare il saldo dei contributo” e, dall’altro, riportato il testo del bando che prevedeva un termine di adempimento.

1.1. La censura è inammissibile e comunque infondata.

La ricorrente mostra di non comprendere l’effettiva motivazione sul punto espressa nella sentenza impugnata e con essa, di conseguenza, omette di confrontarsi.

La Corte d’appello, invero, nel riportare bensì testualmente il contenuto del punto 16.6D del bando, evidenzia che da esso non si trae un preciso termine entro il quale la Regione avrebbe dovuto erogare il saldo del contributo, ma piuttosto una serie di regole e di procedure da rispettare per ottenerlo. In altri termini essa rimarca che tale disposizione contiene l’indicazione di un termine (solo) per procedere all’accertamento della regolare esecuzione del progetto, comprendente la verifica tecnica amministrativa, non anche per provvedere alla susseguente erogazione del contributo.

La sentenza impugnata si fa subito dopo carico della diversa ricostruzione accolta dal primo giudice (che aveva ritenuto sussistente un inadempimento dell’amministrazione), evidenziando che essa muove (non dalla previsione di un termine per l’erogazione del contributo bensì) dall’assunto (evidentemente non condiviso dai giudici d’appello) che all’accertamento di regolare esecuzione delle opere (unico adempimento per il quale era previsto un termine) era comunque correlata la predisposizione del verbale di collaudo e il saldo della somma impegnata.

In ragione degli esposti rilievi è comunque evidente l’infondatezza della censura, atteso che la motivazione della sentenza impugnata, alla luce della esposta lettura, non palesa alcuna insanabile contraddittorietà intrinseca.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia “omesso esame e motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5” per avere la Corte d’appello ritenuto insussistente l’inadempimento dell’amministrazione e/o la sua responsabilità per ritardo nell’erogazione dei contributi, omettendo l’esame e la valutazione di un fatto decisivo costituito dalla richiesta inoltrata dalla odierna ricorrente e contenuta nella missiva del 09.03.2005, da cui scaturiva l’obbligo di adempimento entro i termini previsti per l’accertamento di regolare esecuzione e collaudo.

Rileva che “la Corte ha, infatti, evidenziato l’esistenza della richiesta di saldo della Federcopesca inoltrata in data 09.03.2005, ma ha completamente omesso di considerare tale circostanza, che ove adeguatamente valutata nella sua natura di atto finalizzato alla richiesta di collaudo finale, prodromico all’erogazione del saldo contributi, avrebbe determinato un esito diverso della controversia”.

2.1. In tali termini concepita, la doglianza si muove su di un piano – quello della valutazione degli elementi di prova e del giudizio di rilevanza degli stessi nel complesso di quelli acquisiti – estraneo a quello delineato dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ appena il caso al riguardo di rammentare che secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. U 22/09/2014, n. 19881; 07/04/2014, n. 8053).

Dovendo dunque ritenersi definitivamente confermato il principio, già del tutto consolidato, secondo cui non è consentito richiamare la corte di legittimità al riesame del merito della causa, l’odierna doglianza del ricorrente deve ritenersi inammissibile, siccome diretta a censurare, non già l’omissione rilevante ai fini dell’art. 360, n. 5 cit., bensì la congruità del complessivo risultato della valutazione operata nella sentenza impugnata con riguardo all’intero materiale probatorio, che, viceversa, il giudice a quo risulta aver elaborato in modo completo ed esauriente, sulla scorta di un discorso giustificativo dotato di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, senza incorrere in alcuno dei gravi vizi d’indole logico-giuridica unicamente rilevanti in questa sede.

La Corte, invero, diversamente da quanto postulato dalla ricorrente, fornisce anche espressa giustificazione della ragione per la quale ha ritenuto di non poter attribuire alla detta richiesta del 9/3/2005 il preteso rilievo di atto idoneo a far decorrere il termine previsto nel bando per l’accertamento di regolare esecuzione e collaudo evidenziando che la nota con la quale l’amministrazione, più di un anno dopo (3/4/2006), richiese l’inoltro di ulteriore documentazione, “stava a significare che la documentazione che avrebbe dovuto essere prodotta non era completa”.

La diversa prospettazione della ricorrente – che assume la rilevanza, anche in presenza di documentazione incompleta, del lungo lasso di tempo intercorso prima che l’amministrazione ne richiedesse l’integrazione, in quanto contrario “ai principi di buona fede nell’esecuzione del rapporto, di affidamento e certezza del diritto” -oltre a muoversi su di un piano diverso da quello del edotto vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non risulta proposta nel giudizio di merito e va considerata dunque questione nuova, inammissibile in questa sede.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia infine “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Lamenta in sostanza che la Corte d’appello, così come il primo giudice, ha ritenuto non provato il danno a causa di una errata valutazione delle prove offerte, costituite dagli estratti del conto corrente.

La censura è inammissibile.

3.1. Anzitutto per la palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione dei documenti cui si riferisce, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

La ricorrente si limita invero a richiamare i documenti su cui poggiano le svolte argomentazioni critiche (prospetto di interessi predisposto dalla banca ed estratti conto), senza debitamente riprodurne il contenuto nel ricorso e senza puntualmente indicare in quale sede processuale risultino prodotti, laddove è al riguardo necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937; ma v. già, con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, Cass. 25/05/2007, n. 12239), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. U 19/04/2016, n. 7701).

3.2. Viene inoltre dedotta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in modo inidoneo.

Occorre al riguardo rammentare che, come già più volte chiarito da questa Corte, “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Devesi altresì ricordare che “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra però nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 21238 del 2016; Cass. n. 2141 del 1970).

Allo stesso modo, sotto il profilo della pure dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., è appena il caso di rilevare che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non certo secondo la prospettazione evocata in ricorso (la quale si risolve infatti nella proposta di una diversa lettura delle risultanze istruttorie), ma solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892).

Un tale vizio non è certamente riscontrabile nella specie.

4. Il ricorso va in definitiva dichiarato inammissibile.

Non avendo l’amministrazione intimata svolto difese nella presente sede, non v’è luogo a provvedere sul regolamento delle spese.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 12 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2019

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