Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31960 del 06/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 06/12/2019, (ud. 12/09/2019, dep. 06/12/2019), n.31960

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Mario – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1292/2018 R.G. proposto da:

L.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Salvatore

Campanelli, con domicilio eletto in Roma, Via Federico Cesi, n. 21,

presso lo studio dell’Avv. Enrico Majo;

– ricorrente –

contro

UCI – Ufficio Centrale Italiano Soc. Consortile a r.l., rappresentata

e difesa dall’Avv. Vittorio Russi, con domicilio eletto in Roma,

corso del Rinascimento, n. 11, presso lo studio dell’Avv. Gianluigi

Pellegrino;

– controricorrente –

e nei confronti di

TI.BI. Ay Lizing Ad Bultrans 666 e R.S.R.;

– intimata –

avverso la sentenza del Tribunale di Bari n. 4005/2017, depositata il

7 agosto 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 settembre

2019 dal Consigliere Dott. Iannello Emilio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda risarcitoria proposta da L.D. contro l’U.C.I., la TI.BI. Ay Lizing Ad Bultrans 666 e R.S.R., per i danni subiti dal mezzo di sua proprietà a seguito del sinistro stradale verificatosi in data 17/6/2005, all’interno dell’area portuale di Bari, per lo scontro tra la bisarca di proprietà della società straniera odierna intimata, nell’occasione condotta dal R., e la propria autovettura, a seguito del quale il conducente di quest’ultima perdeva la vita.

Nel tragico occorso il conducente della bisarca, dovendo procedere all’imbarco, giungeva al varco carraio, ove è presente un segnale di stop, e attraversava l’incrocio allargandosi nella corsia opposta a causa delle dimensioni del mezzo e del passaggio del rimorchio.

Sulla scorta degli accertamenti espletati dalla polizia municipale nell’immediatezza dell’evento e tenuto conto della posizione dei mezzi, dei danni riportati, delle tracce sul manto stradale e delle dichiarazioni raccolte, il giudice d’appello ha ritenuto che la collisione si fosse verificata quando il conducente della bisarca aveva già impegnato l’incrocio e quasi terminato la svolta, mentre l’elevata velocità dell’autovettura ne aveva impedito l’altrimenti possibile tempestivo arresto, determinando l’urto tra la parte frontale della stessa e quella laterale posteriore della bisarca.

Ne ha pertanto dedotto l’esclusiva responsabilità del conducente dell’autovettura e, per contro, l’assenza di alcun motivo di addebito in capo al conducente della bisarca.

Ha rimarcato che convergenti erano in tal senso le conclusioni della consulenza tecnica disposta su incarico della Procura della Repubblica, e che andavano invece disattese le diverse conclusioni cui era giunto il consulente tecnico nominato nel giudizio di primo grado, essendosi questo “limitato in modo del tutto generico ed astratto a richiamare i risultati del crash test… senza fare alcun concreto riferimento ai dati empirici e certi risultanti dal verbale di accertamento della polizia municipale”.

2. Avverso tale decisione il L. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resiste l’U.C.I., Ufficio Centrale Italiano, con controricorso.

Gli altri intimati non svolgono difese nella presente sede.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

L’U.C.I. Soc. Cons. a r.l. ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2054 c.c., comma 2 e degli artt. 24 e 111 Cost., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che:

– la decisione è viziata dalla mancata considerazione dell’elaborato peritale del proprio consulente tecnico di parte, i cui rilievi, da un lato, integravano le conclusioni della c.t.u. espletata in primo grado, dall’altro, sconfessavano chiaramente le conclusioni del consulente tecnico della Procura di Bari;

– la relazione di quest’ultimo è stata valutata alla stregua di “elaborato terzo”, pur essendo a tutti gli effetti una consulenza di parte;

– il giudice d’appello, una volta ritenuto di non recepire l’elaborato dell’unico c.t.u. nominato nel corso del giudizio, avrebbe quantomeno dovuto disporre una rinnovazione della consulenza, in presenza di relazioni di parte contrastanti;

– la ricostruzione della dinamica dell’incidente è errata poichè tiene conto della dichiarazione di parte (quella del conducente della bisarca stessa) e di un rilievo fotografico (che ritrae il tachimetro dell’autovettura fermo all’indicazione di 130 km/h) che non può assurgere al ruolo di dato scientifico, mentre omette di considerare i rilievi del consulente di parte, secondo cui l’urto tra la vettura e le strutture laterali del carrello (della bisarca, n.d.r.) è avvenuto ad una velocità della prima prossima ai 60 km/h (essendo presumibile che, prima dell’avvistamento dell’ostacolo, il mezzo procedesse ad una velocità di ca. 75-80 km/h) e la collisione, pressochè ortogonale, è stata determinata dall’improvviso intralcio rappresentato dalla bisarca nella corsia di percorrenza dell’autovettura;

– l’assunto secondo cui la vettura procedesse invece ad una velocità di 130 km/h appare, alla luce delle osservazioni del c.t.p., irrealistico, in considerazione del tratto di strada percorso, caratterizzato dall’esistenza di curve a corto raggio e di dossi dissuasori, e viziato altresì della mancata considerazione delle indicazioni del contagiri nonchè della marcia inserita nel cambio della vettura.

Sostiene che la mancata considerazione di tali rilievi ha comportato l’errata e falsa applicazione dell’art. 2054 c.c. e delle altre norme indicate in rubrica.

2. Con il secondo motivo – intitolato in rubrica “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2054 c.c., comma 2, artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè degli artt. 24 e 111 Cost., in riferimento al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (“error in iudicando”)” – il ricorrente ripropone le medesime doglianze “anche sotto l’aspetto motivazionale”.

Lamenta l’insufficienza e illogicità della motivazione “rispetto agli atti di causa” e la disparità di trattamento per il mancato esame della consulenza tecnica di parte.

3. I motivi, congiuntamente esaminabili, in quanto pienamente sovrapponibili, sono inammissibili.

3.1. Il primo motivo viola anzitutto l’art. 366 c.p.c., n. 6 quanto alla localizzazione della produzione nel giudizio di merito ed in questa sede della richiamata consulenza tecnica di parte (la quale dal fascicoletto del ricorrente risulta essere stata redatta nel processo penale).

3.2. E’ poi evidente l’improprietà del riferimento al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (errore di diritto o error in iudicando).

Il ricorrente invero, lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, delle fattispecie astratte recate dalle norme di legge richiamate, allega un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione e nei limiti in cui lo consente il relativo paradigma censorio (cfr. ex plurimis Cass. 26/03/2010, n. 7394; 30/12/2015, n. 26110).

Nè si prospetta l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente il ricorrente nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo.

3.3. Al di là dunque del formale richiamo, nelle rubriche, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure deve individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti.

Si tratta, come appare manifesto, di un’argomentazione critica diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato.

Nemmeno di tale diversa prospettiva censoria, in qualche modo evocata dalla rubrica del secondo motivo, possono però ritenersi soddisfatti i requisiti minimi, previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti.

Occorre in proposito rammentare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione (introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012), applicabile ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (tra le molte, Cass., S.U., n. 8053/2014).

Nella specie, le censure mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, il cui esame sia stato omesso, poichè non può ricondursi, di per sè, alla nozione di “fatto storico” (principale o secondario) la “consulenza tecnica di parte” in quanto tale.

Giova, infatti, precisare che il “fatto storico” di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti e di attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare la diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. (v. Cass. 09/07/2019, n. 18328).

E’, pertanto, evidente che, avendo il giudice d’appello motivato specificamente le ragioni per le quali ha ritenuto di non poter recepire le conclusioni del c.t.u. nominato in primo grado e gli elementi fattuali ritenuti indicativi di una diversa dinamica e di un diverso comportamento nell’occorso dei conducenti dei veicoli coinvolti, e non avendo il ricorrente evidenziato quale “fatto storico”, decisivo, egli abbia omesso di esaminare, la doglianza che lamenta una omessa e/o insufficiente motivazione si risolve nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma di cui all’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma semmai evocante quello della previgente disposizione processuale.

3.4. Mette conto al riguardo rammentare, peraltro, che, già sotto il vigore della precedente formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., questa Corte aveva evidenziato che, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito che abbia basato il proprio convincimento disattendendo le risultanze degli accertamenti tecnici eseguiti, non può limitarsi a censure apodittiche di erroneità o di inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle alle quali è pervenuto il giudice a quo, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed il carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, è per contro tenuta ad indicare, riportandole per esteso, le pertinenti parti della consulenza ritenute erroneamente disattese, ed a svolgere concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione, condizione di ammissibilità del motivo essendo che il medesimo consenta al giudice di legittimità (cui non è dato l’esame diretto degli atti se non in presenza di errores in procedendo) di effettuare, preliminarmente, al fine di pervenire ad una soluzione della controversia differente da quella adottata dal giudice di merito, il controllo della decisività della risultanza non valutata, delle risultanze dedotte come erroneamente od insufficientemente valutate, e un’adeguata disamina del dedotto vizio della sentenza impugnata; dovendosi escludere che la precisazione possa viceversa consistere in generici riferimenti ad alcuni elementi di giudizio, meri commenti, deduzioni o interpretazioni, traducentisi in una sostanziale prospettazione di tesi difformi da quelle recepite dal giudice di merito, di cui si chiede a tale stregua un riesame, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 30/08/2004, n. 17369).

Nel caso di specie, il ricorrente, da un lato, omette di indicare le parti della consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado da considerarsi, in tesi, erroneamente disattese e confutate dal giudice d’appello; dall’altro, trascrive interi passaggi della consulenza di parte e le conclusioni dalla stessa prospettate, impropriamente assumendone una diretta rilevanza nella prospettiva censoria di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e senza indicare, nel rispetto dei detti oneri di specificità ex art. 366 c.p.c., n. 6, come e quando gli elementi di fatto che la stessa pone a base della propria ricostruzione (es. curve e dossi artificiali nel percorso seguito dalla autovettura) siano stati acquisiti al giudizio, dove il dato attraverso il quale sono stati acquisiti al processo è localizzato nel fascicolo, le ragioni per le quali tali elementi dovrebbero considerarsi decisivi.

In tale contesto, l’insistito riferimento a tali valutazioni del consulente tecnico di parte non può dunque far obliterare che tali, appunto, esse sono (ossia valutazioni di parte) e non può assumere alcun rilievo censorio in questa sede.

4. La violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è poi dedotta in modo inidoneo.

E’ noto al riguardo che “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Devesi altresì ricordare che “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra però nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 21238 del 2016; Cass. n. 2141 del 1970).

Allo stesso modo, sotto il profilo della pure dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., è appena il caso di rilevare che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non certo secondo la prospettazione evocata in ricorso e nella memoria (la quale si risolve infatti in una diversa ricostruzione del fatto rispetto a quella affermata dalla sentenza impugnata, attraverso la proposta di una diversa lettura delle risultanze istruttorie), ma solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892).

Un tale vizio non è certamente riscontrabile nella specie.

5. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 12 settembre 2019.

Depositato in cancelleria il 6 dicembre 2019

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