Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31959 del 06/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 06/12/2019, (ud. 12/09/2019, dep. 06/12/2019), n.31959

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Mario – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 867/2018 R.G. proposto da:

Autolinee Eredi di P.G. di A.M. & C.

s.n.c., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Nicola Greco ed Antonio

Gorga;

– ricorrente –

contro

S.U., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Piero Petrocchi e

Massimo Scardigli, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, viale Angelico, n. 36/B;

– controricorrente –

e contro

UCI – Ufficio Centrale Italiano Soc. Consortile a r.l., rappresentata

e difesa dall’Avv. Michael Buse, con domicilio eletto in Roma, via

Gramsci n. 9, presso lo studio dell’Avv. Claudio Martino;

– controricorrente –

e nei confronti di

Unipol Assicurazioni S.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza del Tribunale di Firenze, n. 3557/2017,

depositata il 6 novembre 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 settembre

2019 dal Consigliere Dott. Iannello Emilio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Firenze ha rigettato l’appello interposto dalla Autolinee Eredi di P.G. di A.M. & C. s.n.c. confermando la sentenza con la quale il Giudice di pace di Firenze aveva rigettato la domanda risarcitoria dalla stessa proposta, in via riconvenzionale, per i danni subiti a seguito del sinistro stradale occorso in data 18/4/2011, per l’urto tra l’autobus di proprietà della società (assicurato per la r.c.a. dalla Unipol) e l’autovettura di proprietà di S.U. (assicurata dall’U.C.I.).

Secondo il giudice d’appello, infatti, correttamente il primo giudice aveva dichiarato inammissibili le richieste istruttorie formulate per la prima volta dalla società convenuta nella memoria autorizzata al termine della prima udienza e, nel merito, altrettanto correttamente, sulla base degli elementi acquisiti e della c.t.u., aveva ricondotto il sinistro a responsabilità prevalente del conducente dell’autobus (per avere iniziato una manovra di svolta a destra senza prima assicurarsi di non creare intralcio per i veicoli che sopraggiungevano sulla corsia di destra del viale percorso), ascrivendo alla conducente della vettura una responsabilità residuale nella misura del 20%, per non avere essa provato di aver posto in essere manovre emergenziali volte ad evitare la collisione.

2. Avverso tale decisione la società soccombente propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo.

S.U. e U.C.I., Ufficio Centrale Italiano, vi resistono, depositando controricorsi.

L’altra intimata non svolge difese nella presente sede.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

E’ pervenuta in cancelleria memoria inoltrata dalla ricorrente e mezzo posta.

La controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Occorre preliminarmente rilevare che la memoria fatta pervenire a mezzo posta nell’interesse di parte ricorrente è da considerarsi irrituale, giusta il consolidato principio di diritto secondo cui: “L’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5, a norma del quale il deposito del ricorso e del controricorso, nei casi in cui sono spediti a mezzo posta, si ha per avvenuto nel giorno della spedizione, non è applicabile per analogia al deposito delle memorie di cui all’art. 378, art. 380-bis, comma 2, e art. 380-bis.1 c.p.c., sia perchè tale previsione, per la sua natura speciale rispetto alle normali attività di deposito degli atti nel giudizio di cassazione, è da reputarsi insuscettibile di applicazione analogica, sia, gradatamente, perchè, essendo il detto deposito diretto esclusivamente ad assicurare al giudice ed alle altre parti la possibilità di prendere cognizione dell’atto con il congruo anticipo rispetto alla udienza di discussione e negli altri due rispetto all’adunanza della Corte, ritenuto necessario dal legislatore, l’applicazione del citato art. 134 disp. att. c.p.c., finirebbe con il ridurre, se non con l’annullare detto scopo” (v. in termini, ex multis, Cass. 22/10/2018, n. 26551; e anteriormente Cass. 10/04/2018, n. 8835; 19/04/2016 n. 7704; 04/01/2011, n. 182; 04/08/2006, n. 17726).

2. Con l’unico motivo la ricorrente denuncia “violazione del combinato disposto degli artt. 115,116 c.p.c. e dell’art. 2054 c.c.”.

Lamenta che il giudice del gravame, confermando la decisione di primo grado, “dalla mancata indicazione dei mezzi di prova nell’atto di costituzione (nel giudizio di primo grado, n.d.r.) ha tratto ipso iure non soltanto l’inammissibilità dei mezzi di prova proposti successivamente, ma, addirittura, l’infondatezza della domanda, precludendo al convenuto l’accesso alle emergenze processuali”.

Deduce che in tal modo il giudice a quo ha violato il principio di disponibilità o di acquisizione delle prove nonchè quello di presunzione di colpa concorrente ex art. 2054 c.c., comma 2.

3. Il motivo è inammissibile.

Risulta anzitutto inosservato l’onere di specifica indicazione degli atti su cui il ricorso si fonda, imposto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., n. 6).

Il ricorso fa generico riferimento a risultanze processuali o acquisizioni probatorie che sarebbero state erroneamente obliterate, senza dar minimamente conto nè del loro specifico contenuto, nè della loro localizzazione nel fascicolo processuale.

Inconferente al riguardo il ferimento, a pag. 9 della memoria (a prescindere dalla sopra evidenziata irritualità della sua produzione), alle citazioni contenute in ricorso di alcuni passaggi della sentenza di primo grado e di quella d’appello, posto che gli atti cui si riferisce il superiore rilievo sono rappresentati non dalle sentenze di merito ma dalle “risultanze istruttorie” che, con l’unico motivo di ricorso, si dicono erroneamente obliterate.

4. La doglianze si appalesano comunque generiche.

Rimangono imprecisate le ragioni per le quali il giudice a quo sarebbe incorso nella dedotta violazione dell’art. 2054 c.c. e del principio di acquisizione della prova.

La censura, sul punto, non si confronta in alcun modo con il contenuto della sentenza che, per vero, in piena coerenza con la regola di giudizio dettata dalla citata norma, espone le ragioni per le quali ritiene dimostrato un più elevato grado di colpa del conducente del bus e nondimeno non superata la presunzione di colpa concorrente in capo al conducente della vettura antagonista, sia pure in misura minore.

La postulazione risulta, dunque, sotto tale profilo, del tutto generica e tale da impingere in inammissibilità per difetto di specificità alla stregua del consolidato principio di diritto di cui a Cass. n. 4741 del 2005, seguito da numerose conformi e avallato da Cass. Sez. U. n. 7074 del 2017 (“Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo”).

5. La violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è poi dedotta in modo inidoneo.

E’ noto al riguardo che “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Devesi altresì ricordare che “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra però nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 21238 del 2016; Cass. n. 2141 del 1970).

Allo stesso modo, sotto il profilo della pure dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., è appena il caso di rilevare che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360, comma 1, num. 4, c.p.c., non certo secondo la prospettazione evocata in ricorso e nella memoria (la quale si risolve infatti in una diversa ricostruzione del fatto rispetto a quella affermata dalla sentenza impugnata, attraverso la proposta di una diversa lettura delle risultanze istruttorie), ma solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892).

Un tale vizio non è certamente riscontrabile nella specie.

6. Non può infine non notarsi che la sentenza impugnata ha confermato il rigetto della domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento del danno derivato dal sinistro all’autobus, pur avendo affermato, come del resto anche il primo giudice, la responsabilità concorrente della vettura della parte appellata ( S.U., attrice in primo grado), nella misura del 20%.

Sarebbe sul punto predicabile, in astratto, un vizio di omessa pronuncia, ove si avesse contezza e fosse stato dedotto, nel rispetto degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dall’art. 366 n. 6. c.p.c., che il tribunale fosse stato investito di specifico motivo di gravame sul punto.

Tanto però, nella specie, non consta e in ogni caso l’unico motivo di ricorso non focalizza tale tipo di errore processuale, investendo piuttosto il merito della decisione adottata in punto di riparto delle responsabilità (tema sul quale la pronuncia, come visto, si sottrae alle generiche censure esposte).

7. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per ciascuna in Euro 900 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 12 settembre 2019.

Depositato in cancelleria il 6 dicembre 2019

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