Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31936 del 06/12/2019

Cassazione civile sez. I, 06/12/2019, (ud. 17/10/2019, dep. 06/12/2019), n.31936

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22786/2015 proposto da:

Chimpex Industriale Spa, in persona del legale rappresentante pro

tempore, e R.G., elettivamente domiciliati in Roma Piazza

Adriana 4 presso lo studio dell’avvocato Ferdinando Barucco e

rappresentati e difesi dall’avvocato Mario Ciancio, in forza di

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Banco Napoli Spa;

– intimato –

e contro

Romana Chimici Spa, ora Brenntag s.p.a. in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via A.

Kircher 14 presso lo studio dell’avvocato Alessandro D’Ippolito che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Giuseppe Pistone in

forza di procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

M.F., Ma.Fe., Ma.Fi. quali eredi di

M.C. (deceduto), elettivamente domiciliati in Roma Via della

Conciliazione 44 presso lo studio dell’avvocato Michel Martone e

rappresentati e difesi dall’avvocato Marco Baldassarri in forza di

procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

M. Industriale Spa, in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliato in Roma Via della Conciliazione 44

presso lo studio dell’avvocato Michel Martone e rappresentato e

difeso dall’avvocato Marco Baldassarri in forza di procura speciale

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2470/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 30/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/10/2019 dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato l’11/5/1997 la Chimpex Industriale s.p.a. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli la Romana Chimici s.p.a. e la M. Industriale s.p.a. denunciando la commissione di atti di concorrenza sleale in suo pregiudizio e chiedendone l’inibitoria e la condanna delle società convenute, in solido, al risarcimento dei danni, indicati nella somma di Lire 1.600.000.000, oltre accessori.

L’attrice esponeva che la Chimpex, le cui azioni erano distribuite al 48% in capo a R.S., socio fondatore, amministratore delegato e poi Presidente del C.d.A, e al 52% in capo alla M. Industriale, operava nel settore chimico ed aveva assunto la veste di leader del mercato nel Centro-Sud; che a partire dal settembre – ottobre 1996 la M. Industriale, per mezzo del suo dominus, ing. M.C., aveva avviato un disegno di estromissione del socio di minoranza; che tale disegno, a fronte della resistenza del R., si era tradotto nella sua estromissione dalle cariche sociali, affidate a persone di fiducia della M. Industriale nonchè della Romana Chimica, principale competitore di Chimpex Industriale, con la quale la M. Industriale era evidentemente collegata e cointeressata in varie partecipazioni sociali; che la Chimpex Industriale era stata occupata dalla M. Industriale e dalla Romana Chimica; che in data 6/12/1996 la M. Industriale aveva venduto le proprie azioni al R. al prezzo esorbitante di Lire 2.500.000.000, da lui accettato perchè intimorito nella speranza di recuperare la Chimpex Industriale; che, a cessione avvenuta, Romana Chimica e M. Industriale, in possesso di tutti i segreti di lavorazione ed elementi di conoscenza di Chimpex Industriale avevano iniziato a effettuare imitazione servile o quantomeno confusoria dei prodotti di Chimpex Industriale, nonchè a denigrarla presso le banche, inducendone alcune ad interrompere i rapporti; che il Banco di Napoli, principale interlocutore bancario, era stato sommerso da allarmate richieste di informazioni riservate; che moltissimi fornitori, destinatari di una massiccia operazione di boicottaggio, avevano iniziato a sollecitare pagamenti non scaduti o a lesinare forniture; che tutto ciò aveva cagionato gravi danni, con brusca e ingente flessione del volume di affari, mancato lucro e perdita di avviamento; che tutti i dati riservati erano stati trasmessi via modem ad un ufficio costituito dalla M. Industriale.

Nel giudizio è intervenuto R.S., chiedendo il ristoro dei danni da lui patiti e chiamando in causa il Banco di Napoli per ottenere inibitoria del pagamento del prezzo del pacchetto di azioni Chimpex, o ottenere il sequestro conservativo mani proprie o ancora bloccare l’escussione della fideiussione. Tali misure cautelari non sono state peraltro concesse.

Si è costituita in giudizio la Romana Chimica, chiedendo il rigetto delle domande attoree, in quanto totalmente infondate, ed eccependo l’inammissibilità dell’intervento del R..

Si è costituita in giudizio la M. Industriale, eccependo l’incompetenza territoriale del Tribunale, indicando la competenza di quello di Firenze, chiedendo il rigetto delle domande attoree, in quanto totalmente infondate, ed eccependo l’inammissibilità dell’intervento del R.. La M. Industriale ha anche chiesto la condanna dell’attrice per lite temeraria ex art. 96 c.p.c..

Con separato atto di citazione, notificato l’11/3/1999 R.S. ha citato in giudizio M.C. in proprio, chiedendone la condanna ex art. 2043 c.c., al risarcimento dei danni provocati per averlo costretto all’acquisto delle azioni della Chimpex Industriale a un prezzo eccessivo in relazione al loro effettivo valore con condotta integrante violenza ex art. 1434 c.c..

M.C. si è costituito in giudizio, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo il rigetto della domanda.

I due giudizi sono stati riuniti e sono state espletate una complessa prova testimoniale e una consulenza tecnica di ufficio.

All’esito, con sentenza del 14/1/2013, il Tribunale di Napoli ha accertato la sussistenza di atti di concorrenza sleale da parte di M. Industriale e di Romana Chimica nei confronti di Chimpex Industriale e ha conseguentemente condannato le due società convenuta al risarcimento dei danni in favore della Chimpex Industriale con il pagamento della somma di Euro 1.500.000,00, oltre interessi e rivalutazione; ha condannato inoltre M.C. a risarcire il danno cagionato al R. con il pagamento della somma di Euro 516.457,00,oltre interessi e rivalutazione; ha infine condannato Romana Chimica, M. Industriale, e M.C. a rifondere le spese del giudizio a favore di Chimpex Industriale e R.S..

2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto appello sia la Romana Chimica, sia gli eredi di M.C., ossia Ma.Fe., Fi. e F., nonchè, in via incidentale, la M. Industriale.

Si sono costituiti Chimpex Industriale e R.S. chiedendo il rigetto delle impugnazioni proposte.

Dopo la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, con sentenza del 30/5/2015 la Corte di appello di Napoli ha accolto gli appelli, per l’effetto rigettando le domande proposte da Chimpex Industriale nei confronti di Romana Chimica e M. Industriale e da R.S. nei confronti di M.C., e, per esso, dei suoi eredi, e conseguentemente condannando Chimpex Industriale e R.S. alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio in favore dei soggetti rispettivamente convenuti.

3. Avverso la predetta sentenza del 30/5/2015, notificata il 25/6/2015, ha proposto ricorso per cassazione la Chimpex Industriale, con atto notificato il 23/9/2015, svolgendo quattro motivi.

Con distinti atti notificati rispettivamente il 26/10/2015 e il 2/11/2015 hanno proposto controricorso la Brenntag s.p.a., già Romana Chimica, fusa mediante incorporazione, la M. Industriale e gli eredi dell’ing. M.C. ( Ma.Fe., Fi. e F.), chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 4, come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 17, con riferimento al contenuto della sentenza di primo grado n. 466 del 2013 del Tribunale di Napoli.

1.1. La Corte di appello aveva ritenuto la sentenza di primo grado carente di motivazione, nonostante il dichiarato intendimento del primo Giudice di redigere la sentenza ai sensi della novella del 2009, applicabile in forza della disposizione transitoria ex art. 58, comma 2, in essa contenuta, anche ai giudici in corso in primo grado, con la conseguente possibilità di attenersi alla succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione.

Il Tribunale aveva affermato che dalla documentazione acquisita risultava l’appropriazione da parte dell’equipe dirigenziale al momento delle sue dimissioni da Chimpex Industriale e del rientro in massa in Romana Chimica di tutti i tabulati dell’amministrazione, dei dischi di computers e di ogni altro sistema di raccolta di notizie riservate afferente ai metodi di lavorazione, all’elenco completo dei clienti e al trattamento a ciascuno riservato, all’elenco completo dei fornitori e al trattamento da ciascuno ricevuto, ai rapporti e alle condizioni praticate dalle Banche; aveva valutato quindi la rilevanza giuridica di tali condotte in termini di illecito concorrenziale; aveva specificamente e dettagliatamente indicato gli effetti negativi di tale azione denigratoria nei confronti di banche, clienti e fornitori e aveva infine interpretato e valutato le risultanze probatorie.

1.2. Il motivo è inammissibile perchè non attiene alla ratio decidendi della sentenza impugnata della Corte partenopea.

Inoltre, sotto altro profilo, la questione della validità o meno della sentenza di primo grado (sotto il profilo, nella specie, della sussistenza di una motivazione) è del tutto irrilevante, in considerazione dei poteri sostitutivi del giudice di appello, il quale non deve arrestarsi (e nella specie non si è arrestato) al rilievo della nullità della decisione di primo grado, ma deve sostituire quest’ultima, appunto, con la sua decisione di merito (salvi i casi tassativi di regressione in primo grado previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c.): è il contenuto quindi questa decisione che può formare oggetto di ricorso per cassazione.

1.3. Inoltre, è pur vero che l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (come sostituito dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 17, con effetto a decorrere dal 4/7/2009 e applicabile ai sensi del successivo art. 58, comma 2, anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della legge) prescrive che la sentenza debba contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” e non più “la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione”; è anche vero che l’art. 118 disp. att. c.p.c., parimenti applicabile chiarisce che la motivazione della sentenza di cui all’art. 132, comma 2, n. 4), del codice consiste nella “succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”.

Tuttavia anche l’alleggerimento del contenuto della motivazione disegnato dalle norme citate nel perseguimento dell’obiettivo di una maggior rapidità del processo civile presuppone pur sempre che il giudice dia conto dei fatti, sostanziali e processuali, rilevanti e delle ragioni di fatto e di diritto che militano a sostegno della decisione.

Pertanto risulta meramente apparente la motivazione che non permetta di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da esse al risultato enunciato, sì che ne riesce integrata una sostanziale inosservanza dell’obbligo imposto al giudice dall’art. 132 c.p.c., n. 4, di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione (Sez. lav., 03/06/2016, n. 11508).

1.4. La Corte di appello, dopo aver riepilogato i motivi di gravame svolti dagli appellanti, ha ritenuto che la sentenza di primo grado non avesse dato adeguatamente conto dell’iter logico seguito nel ritenere accertati i fatti dedotti da parte attrice e soprattutto circa le prove ritenute sussistenti a loro fondamento; ha inoltre affermato che la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale era generica e parziale e non concordava con le risultanze processuali, in difetto di puntuali riscontri nell’acquisito materiale probatorio, che piuttosto confortava le tesi difensive dei convenuti (pag. 22 – 23); ha quindi successivamente analizzato le risultanze istruttorie, spiegando le ragioni, punto per punto, di tale valutazione.

Sono quindi siffatte ragioni che la ricorrente deve affrontare e confutare e non già il più generale rimprovero mosso dal Giudice di appello a quello di primo grado, che non era certo esonerato dal dovere di spiegare le ragioni per cui le prove acquisite dimostrassero il fondamento delle allegazioni attoree, solo in forza dell’invocato riferimento al parametro di concisione e concentrazione dei doveri motivazionali scaturente dalla Novella processuale del 2009.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2598 c.c., e alla asserita mancata prova dei fatti costituenti le ragioni della domanda da essa proposta verso Romana Chimica e M. Industriale.

2.1. La Corte di appello aveva escluso l’ipotizzabilità, con riferimento all’attività di società commerciali dedite alla rivendita di prodotti chimici, di una ipotesi di imitazione servile dei prodotti o di altra attività concorrenziale confusoria: in ciò avrebbe errato perchè l’espressione “prodotto” utilizzata nella sentenza di primo grado andava letta come metodi di commercializzazione e sistemi innovativi diretti allo sviluppo e alla diffusione dei prodotti commercializzati.

2.2. La Corte di appello ha rilevato che non poteva configurarsi la pretesa imitazione servile di prodotti e così la forma di concorrenza confusoria (di cui all’art. 2598, n. 1, c.c.) perchè le parti in causa, Chimpex e Romana Chimici, erano mere imprese commerciali che si limitavano a commercializzare prodotti chimici, evidentemente da altri realizzati.

Nell’articolare la propria censura, peraltro riversata in fatto e quindi anche sotto questo profilo ex se inammissibile, la ricorrente non indica quando, come e dove nelle proprie difese avesse specificamente lamentato l’imitazione servile di metodi di commercializzazione e sistemi innovativi diretti allo sviluppo e alla diffusione dei prodotti commercializzati (attività questa asseritamente contraddistinta in modo semplificato e improprio come “imitazione servile di prodotti”).

Inoltre la ricorrente, viziando ulteriormente la propria censura di genericità, non indica quali sarebbero questi metodi di commercializzazione e sistemi innovativi e con quali specifici comportamenti le controparti li avrebbero imitati, inducendo in confusione consumatori e acquirenti.

2.3. La ricorrente aggiunge che la Corte territoriale aveva ritenuto ammissibile la configurazione di atti slealmente concorrenziali nelle forme dello sviamento di clientela, del boicottaggio, della sottrazione di segreti aziendali e della diffusione di notizie screditanti; riconosciutane implicitamente l’esistenza, la Corte di appello avrebbe dovuto rinvenire elementi più che sufficienti per far ritenere i presupposti della concorrenza sleale denunciata.

2.4. La censura fraintende completamente la portata dell’affermazione compiuta dalla Corte napoletana a pagina 24, primo capoverso, osservando, dopo aver escluso l’ammissibilità di una concorrenza confusoria quanto ai “prodotti”, che era ipotizzabile – ma solo astrattamente, ovviamente – la commissione di atti di concorrenza sleale nelle forme sintomatiche dello sviamento di clientela, del boicottaggio, della sottrazione di segreti aziendali e della diffusione di notizie screditanti, tuttavia esclusa, in concreto, con i successivi passaggi motivazionali.

2.5. Secondo la ricorrente, l’esclusione della segretezza delle informazioni acquisite da Romana Chimica e M. Industriale era meramente congetturale; si trattava (quanto alle informazioni contenute nei tabulati dei clienti e alle relazioni bancarie) di informazioni segrete, o almeno riservate, proprio perchè la loro conoscenza e il loro utilizzo poteva favorire lo sviamento di clientela.

2.6. La Corte di appello ha escluso sulla base della valutazione delle prove acquisite che i dati informativi acquisiti dai componenti del Consiglio di amministrazione nominati il 25/11/1996 presentassero una forte connotazione in termini di segretezza, poichè tali elementi attenevano solo alla contabilità aziendale, agli elenchi dei clienti e dei fornitori, ai rapporti e alle condizioni praticate dalla banche, ossia a dati sensibili ma non erano riconducibili alla nozione di “informazioni riservate” di cui agli artt. 98 e 99 cod.propr.ind., nel testo applicabile ratione temporis (ora “segreti commerciali”, in seguito alle modifiche apportate dal D.Lgs. 11 maggio 2018, n. 63, emanato in attuazione della direttiva (UE) 2016/943 del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’8/6/2016, sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti).

L’art. 98 del Codice della proprietà industriale (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) in tema di know how aziendale, tutela infatti come diritto di proprietà industriale le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, purchè concorrano tre requisiti.

Tali informazioni devono: a) essere segrete, nel senso che non siano, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; b) possedere valore economico in quanto segrete; c) essere sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

2.7. E’ pur vero che non vi è necessaria coincidenza fra la nozione di informazioni segrete aziendali ex art. 98 cod.propr.ind. e le notizie di rilevanza industriale destinate a rimanere segrete ex art. 623 c.p., come dimostra, del resto l’anteriorità della norma del codice penale rispetto alla tutela del know-how introdotta nel 2005 dal Codice della proprietà industriale.

D’altra parte, secondo la prevalente dottrina e la giurisprudenza, le informazioni segrete ex art. 98 cod.propr.ind. non esauriscono l’ambito di tutela delle informazioni riservate in ambito industriale, pur sempre esperibile anche attraverso la disciplina della concorrenza sleale contro gli atti contrari alla correttezza professionale ex art. 2598 c.c., n. 3, nei confronti della scorretta acquisizione di informazioni riservate, ancorchè non caratterizzate dai requisiti di segretezza e segretazione dell’art. 98 cod.propr.ind. sopra ricordati.

Tant’è che questa Corte, in sede di regolazione della competenza civile, su questi presupposti, ha affermato che appartiene al Tribunale ordinario, e non alle Sezioni specializzate in materia di impresa, ai sensi del D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, (cui è attribuita la competenza sul diritto di cui agli artt. 98 e 99 cod.propr.ind.) la competenza a decidere sulla domanda di accertamento di un’ipotesi di concorrenza sleale in cui la prospettata lesione degli interessi della società danneggiata riguardi l’appropriazione, mediante storno di dirigenti, di informazioni aziendali, di processi produttivi e di esperienze tecnico-industriali e commerciali (cd. know how aziendale, in senso ampio), ma non sia ipotizzata la sussistenza di privative o altri diritti di proprietà intellettuale, direttamente o indirettamente risultanti quali elementi costitutivi, o relativi all’accertamento, dell’illecito concorrenziale (Sez.6, 09/05/2017, n. 11309).

In altri e più chiari termini, un complesso di informazioni aziendali (nel caso commerciali) non costituenti oggetto di un vero e proprio diritto di proprietà industriale come “informazioni riservate” ed ora come “segreti commerciali” ex art. 2 e 98 cod.propr.ind., perchè privo dell’uno o dell’altro dei tre requisiti prescritti ex lege, può comunque essere tutelato contro l’abuso concorrenziale consumato mediante atti contrari alla correttezza professionale del concorrente.

2.8. E’ comunque necessario che si sia in presenza di un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, seppur non segretati e protetti, che superino la capacità mnemonica e l’esperienza del singolo normale individuo e che configurino così una banca dati che, arricchendo la conoscenza del concorrente, sia capace di fornirgli un vantaggio competitivo che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito.

Diversamente opinando, attraverso la disciplina dell’illecito concorrenziale si finirebbe con l’attribuire un monopolio all’ex datore di lavoro sulle conoscenze e sull’esperienza dell’ex dipendente, in assenza di diritti di proprietà industriale su informazioni segrete e soprattutto mortificando i diritti costituzionalmente tutelati del lavoratore ex artt. 4,35 e 36 Cost., a reperire sul mercato la miglior valorizzazione e remunerazione delle sue capacità professionali, senza che, nei limiti consentiti dalla legge per il contemperamento delle contrapposte esigenze, l’ex datore di lavoro si sia tutelato con la stipulazione di un patto di non concorrenza ex artt. 2125 e 2596 c.c., per la “fidelizzazione ultrattiva” del dipendente, assumendosi i costi necessari.

2.9. Nella fattispecie, tuttavia, la Corte di appello, ancora una volta con la formulazione di un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità, ha osservato che circa il contenuto delle informazioni aziendali acquisite dagli amministratori la Chimpex aveva fornito solo generiche indicazioni, di tal che non era possibile ricondurle al concetto di informazioni segrete o riservate (anche – e quindi non solo -nella nozione degli artt. 98 e 99 cod.propr.ind.).

Quanto ai “tabulati clienti” trasmessi da M. Industriale a Romana Chimici, la Corte di appello (pag.26, primo capoverso) ha evidenziato che facevano difetto specifiche allegazioni in ordine al loro effettivo contenuto; al proposito la ricorrente si limita a richiamare il contenuto della sentenza di primo grado, senza dar conto del contenuto specifico di tali informazioni e soprattutto delle prove acquisite che lo attestavano.

2.10. La ricorrente sostiene che era stato ritenuto accertato e non contestato che il gruppo Copici, proprietario di Romana Chimica, era tra i principali clienti di Romana Chimica, che Romana Chimica fosse socia al 30% con M. Industriale in Tecnochimica, che Fe. M., consigliere di amministrazione di Chimpex Industriale ricoprisse la stessa carica anche in Tecnochimica, che S.M., consigliere di amministrazione di Chimpex Industriale fosse consulente di Tecnochimica.

L’esistenza di un accordo fra Romana Chimica e M. Industriale era stato affermato anche nella sentenza impugnata; risultava inoltre dalla lettera 21/10/1996 dell’avv.Pazzi e dagli avvenimenti del 25/11/1996, laddove Romana Chimica, avvalendosi della propria qualità di socio di maggioranza di Chimpex Industriale, aveva estromesso il R. e aveva insediato nell’organo amministrativo e sindacale persone che erano dipendenti o collaboravano con Romana Chimica, come emergeva da numerosi elementi di prova (prove testimoniali, trascrizione di registrazioni, corrispondenza intercorsa con le Banche e documenti di vario genere).

2.11. Le censure così articolate sono volte a dimostrare l’esistenza di un accordo fra Romana Chimica e M. Industriale, senza allegarne e specificarne il concreto contenuto e tantomeno evidenziarne la valenza slealmente concorrenziale ex art. 2598 c.c.; è quindi superfluo rilevare che con il profilo critico in questione la ricorrente richiede a questa Corte di ingerirsi inammissibilmente nel giudizio ricostruttivo del fatto formulato dalla Corte territoriale ed anzi a confrontarsi direttamente con la valutazione di fonti di prova, testimoniale e documentale, solo genericamente richiamate, oltretutto senza una sintesi del loro contenuto, sia pur concisa.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 2598,2600,2043,2056 e 1226 c.c., con riferimento alla individuazione e quantificazione dei danni subiti da Chimpex Industriale.

3.1. La sentenza di primo grado era pienamente esaustiva nel suo riferimento alla brusca e massiccia flessione del volume di affari verificatosi negli anni 1996-1997 e 1998.

Le critiche mosse alla c.t.u. (la cui difficoltà di accertamento era dipesa dalla mancata collaborazione di Romana Chimica) erano irrilevanti, stante l’autonomia del percorso argomentativo seguito dal Giudice.

Giustamente il Giudice di primo grado aveva formato il proprio convincimento sulla base della condotta processuale di Romana Chimica, che non aveva consegnato i propri documenti perchè ciò sarebbe stato ancor più pregiudizievole di quanto accertabile attraverso i bilanci e i documenti di Chimpex Industriale.

Vi erano tutti i presupposti perchè la Corte di appello facesse corretta applicazione degli artt. 2056 e 1226 c.c., a fronte della difficoltà di determinazione del danno nel caso concreto.

3.2. Il motivo – inerente al quantum – resta assorbito, poichè la ricorrente non riesce a confutare la decisione della Corte partenopea in punto an debeatur.

3.3. E’ quindi superfluo rilevare che la censura non si confronta con la specifica ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto che non fosse stata fornita la prova di un pregiudizio patrimoniale e della sua relazione causale con le condotte lamentate, sia perchè risultava che i bilanci di Chimpex degli anni 1996,1997 e 1998 avevano avuto un andamento positivo e migliore degli anni precedenti, che era stato possibile nel 1997 distribuire cospicui dividendi per Lire 722.000.000, che la temporanea flessione degli utili registrati dopo il 1996 non scaturiva da una diminuzione dei ricavi ma da un aumento dei costi, dovuto a una causa specifica che nulla aveva a che vedere con ipotetici comportamenti dei concorrenti, ma dall’ordine emesso il 2/12/1996 dal Comune di Caivano di immediata sospensione dell’attività per violazione delle disposizioni in tema di prevenzione incendi, con conseguente blocco per un periodo significativo dell’attività.

4. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, parte ricorrente (e in particolare il sig. R.S.) denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 2043 e 1226 c.c., con riferimento alla domanda avanzata da R.S. nei confronti di M.C..

4.1. Il ricorrente osserva che la Corte di appello si era esonerata dall’esatta ricostruzione della vicenda posta a base dell’accusa estorsiva avanzata dal R., sulla base del rilievo, ritenuto assorbente, che dagli atti non emergeva che questi avesse pagato un prezzo sperequato rispetto al valore reale delle azioni.

Così argomentando, la Corte di appello non aveva tenuto conto di tutta una serie di elementi, valutabili ex art. 1226 c.c., che lasciavano inferire l’esistenza del pregiudizio (attività di concorrenza sleale ai danni di Chimpex Industriale; chiusura dell’azienda; notevole ammanco subito; provvedimenti interdittivi che richiedevano investimenti importanti per superarli; carenza di un valido sistema informativo; scarso merito creditizio dovuto alla denigrazione subita).

4.2. La Corte di appello, a proposito dell’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. proposta dal R. nei confronti di M.C. – e quindi dei suoi eredi – sul presupposto del compimento di un’attività estorsiva ai suoi danni con riferimento all’acquisto da parte sua del pacchetto di maggioranza (52%) delle azioni Chimpex per un prezzo superiore di circa un miliardo di vecchie lire al loro reale valore, dopo aver sottolineato la carenza di motivazione della sentenza di primo grado in ordine alle ragioni del ritenuto fondamento della tesi dell’attore e alla sussistenza di adeguate prove a suo conforto, ha ritenuto di prescindere dal tema della sussistenza o meno dell’attività estorsiva (sul quale le parti erano in totale disaccordo e si accusavano a vicenda di estorsione), alla stregua del criterio della “ragion più liquida”.

Secondo la Corte napoletana mancava totalmente la prova che il prezzo pagato dal R. (Lire 2.500.000.000) per l’acquisto del 52% della società fosse sperequato rispetto al valore dell’epoca e quindi del preteso danno da questi subito.

Al contrario, il valore di libro delle azioni era molto superiore a quanto indicato dall’attore; il consulente tecnico d’ufficio sulla scorta del metodo reddituale aveva determinato il valore complessivo della società in Lire 10.666.000.000 nel 1996 e in Lire 7.000.000.000 nel 1997; nei primi mesi del 1997 l’assemblea dei soci di Chimpex aveva deliberato l’acquisto del 5% di azioni proprie sulla base di un valore unitario di gran lunga superiore a quello pagato poco prima dal R. per l’acquisto del suo 52%; in data 8/5/1997 l’assemblea dei soci di Chimpex aveva distribuito dividendi per Lire 722.000.000.

4.3. Il motivo proposto è quindi totalmente generico e non pertinente, poichè non si confronta con le specifiche osservazioni svolte dalla Corte di appello per escludere la sussistenza della prova del danno ed anzi per argomentarne l’inesistenza.

5. Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese in favore della controricorrente M. Industriale s.p.a., liquidate nella somma di Euro 15.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge, nonchè della controricorrente Romana Chimica s.p.a., liquidate nella somma di Euro 15.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge, nonchè dei controricorrenti Fe. M., Fi. M. e Federico M., quali eredi di M.C., liquidate nella somma di Euro 10.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2019

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