Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31923 del 10/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 10/12/2018, (ud. 20/09/2018, dep. 10/12/2018), n.31923

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10289-2017 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA (OMISSIS),

MINISTERO DELLA SALUTE (OMISSIS), MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE

FINANZE (OMISSIS), in persona dei Ministri pro tempore, PRESIDENZA

DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro tempore,

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELL’AQUILA, in persona del Rettore pro

Tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende;

– ricorrenti –

contro

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA E. MORDINI,

14, presso lo studio dell’avvocato MARIA LUDOVICA POLTRONIERI,

rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO SANTUCCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 320/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA

emessa il 10/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/09/2018 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO

MARIA CIRILLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.A. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di l’Aquila, l’Università di quella città, la Presidenza del Consiglio dei ministri ed i Ministeri della salute, dell’istruzione e università e dell’economia e finanze, chiedendo che fosse dichiarato il suo diritto a percepire un’adeguata remunerazione in relazione al periodo di specializzazione svolto presso l’Università convenuta.

A sostegno della domanda espose, tra l’altro, di aver svolto il corso di specializzazione di quattro anni a decorrere dall’anno accademico 2014-2005 e di avere diritto, quindi, a percepire l’aggiornamento degli emolumenti a lui già versati ai sensi del D.L. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6. Aggiunse che il legislatore nazionale aveva stabilito, con il D.L. 17 agosto 1999, n. 368 – di recepimento, tra l’altro, della dir. 93/16/CE – un incremento del compenso in favore dei medici specializzandi, incremento che aveva avuto effettiva attuazione, però solo con la L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1,comma 300, con decorrenza dall’anno accademico 2006-2007. Concluse, pertanto, nel senso che tale aggiornamento gli doveva essere riconosciuto, essendosi svolti i primi due anni del suo periodo di specializzazione in epoca antecedente l’anno accademico 2006-2007.

In subordine, l’attore chiese che gli venisse riconosciuto, ai sensi dell’art. 2043 c.c., il diritto al risarcimento del danno per il ritardo col quale era stata data attuazione all’incremento economico disposto dal D.Lgs. n. 368 del 1999.

Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva, la prescrizione del diritto e l’incompetenza per territorio del giudice adito, e chiedendo nel merito il rigetto della domanda.

Il Tribunale accolse la domanda e condannò tutte le amministrazioni convenute al pagamento delle spettanze richieste, con gli interessi ed il carico delle spese.

2. La sentenza è stata impugnata dalle Amministrazioni soccombenti e la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza del 21 marzo 2016, ha rigettato l’appello, ha confermato la sentenza di primo grado ed ha condannato gli appellanti alle ulteriori spese del grado.

La Corte territoriale ha osservato che il recepimento delle Direttive dell’Unione europea in materia di medici specializzandi non poteva ritenersi compiuto con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 257 del 1991, ma solo con il D.Lgs. n. 368 del 1999, la cui effettiva applicazione era avvenuta solo nove anni dopo; ritardo che dimostrava l’inadempimento dell’Italia rispetto alla normativa europea.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila propongono ricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero della salute, il Ministero dell’istruzione e università e quello dell’economia e delle finanze, con unico atto affidato a due motivi.

Resiste B.A. con controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375,376 e 380-bis c.p.c., e non sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente disattesa l’eccezione di tardività del ricorso, sollevata dalla parte controricorrente.

La sentenza impugnata è stata pubblicata in data 21 marzo 2016 ed il

ricorso è stato notificato a mezzo in data 20 aprile 2017. Nella specie, è certamente applicabile il termine lungo di impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c. (diversamente da quanto dedotto dalla controricorrente), in citiamo la sentenza mm risulta notificata alle Amministrazioni soccombenti.

Trattandosi di giudizio iniziato nel 2006, detto termine ha durata annuale, ed è soggetto alla sospensione feriale (pari a 31 giorni nell’anno 2016, dal 1 al 31 agosto). Ne consegue che il termine per impugnare scadeva il giorno 21 aprile 2017, per cui il ricorso è tempestivo.

2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione del D.L. 30 luglio 1999, n. 303, art. 3, in combinato disposto con l’art. 101 c.p.c., per difetto di legittimazione passiva dei Ministeri convenuti in giudizio.

3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione art. 11 preleggi, comma 1; del D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6; del D.Lgs. n. 368 del 1999, artt. 37,39,41 e 46; del D.Lgs. n. 517 del 1999, art. 8; della L. 23 dicembre 2003, n. 266, art. 1, comma 300; del Trattato CEE, artt. 234 e 249, delle dir. nn. 2/76; 75/363; 75/362, della dir. n. 82/76 art. 13, della dir. 93/16, art. 1, comma 1, dei principi enunciati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con le sentenze 25 febbraio 1999 – causa C-131/97 (CARBONARI) e 3 ottobre 2000 – causa C-371/97 (GOZZA); del D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 7, convertito, con modifiche, nella L. 14 novembre 1992, n. 438, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 3, comma 36, della L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 1, comma 33, della L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 32, comma 12, della L. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 22, della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 36.

4. Ragioni di economia processuale consigliano di esaminare il ricorso cominciando dal secondo motivo, con il quale si sostiene, nell’ambito di una complessa ed articolata censura, che la sentenza impugnata sarebbe frutto di un equivoco, avendo la Onte d’appello ritenuto che solo con il D.Lgs. n. 368 del 1999 e poi con la L. n. 266 del 2005 lo Stato italiano avesse dato compiuta attuazione alla normativa comunitaria. Sostiene l’avvocatura dello Stato, invece, che sarebbe pacifico, proprio in base alle menzionate sentenze Carbonari e Gozza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che le direttive europee erano state recepite dall’Italia già con il D.Lgs. n. 257 del 1991; per cui il successivo D.Lgs. n. 368 del 1999, reso operativo nel 2007, non sarebbe stato emanato in ottemperanza ad un obbligo comunitario, con la conseguenza che coloro i quali avevano frequentato i corsi di specializzazione tra il 1991 ed il 2006 non potevano vantare un diritto soggettivo all’applicazione della nuova disciplina.

4.1. Il motivo è fondato.

Con la recente sentenza 28 giugno 2018, n. 17051 (ed altre conformi) questa Corte ha affrontato un caso identico a quello in esame, pervenendo a conclusioni alle duali la pronuncia odierna intende dare piena e convinta continuità. Tali conclusioni, peraltro, sono in linea con un orientamento già assunto dalla Sezione Lavoro di questa Corte (v., tra le altre, le sentenze 16 gennaio 2014, n. 794, 4 giugno 2014, n. 15362, e, più di recente, la sentenza 23 febbraio 2018, n. 4449) e da questa stessa Sesta Sezione Civile.

4.2. Giova ricordare alcuni fondamentali passaggi normativi.

Con il D.L. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6, il legislatore italiano, dando attuazione, sia pure tardivamente, al disposto della dir. n. 82/76/CEE del Consiglio, stabilì in favore dei medici ammessi alle scuole di specializzazione una borsa di studio determinata per l’anno 1991 nella somma di Lire 21.500.000. Tale somma era destinata ad un incremento annuale, a decorrere dal 1 gennaio 1992, sulla base del tasso programmato di inflazione, incremento fissato ogni triennio con decreto interministeriale. Il meccanismo di adeguamento venne peraltro bloccato successivamente, con effetto retroattivo, dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, passata indenne al vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 432 del 1997), e da altre leggi successive (v. sul punto, ampiamente, la citata sentenza n. 4449 del 2018).

In seguito, dando attuazione alla dir. n. 93/16/CEE, il legislatore nazionale intervenne sulla materia con il D.L. 17 agosto 1999, n. 368, che raccolse in un testo unico le precedenti direttive n. 75/362 e n. 75/363 CEE, con le relative successive modificazioni. Tale decreto – in seguito ampiamente modificato dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 300, – riorganizzò l’ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, istituendo e disciplinando un vero e proprio contratto di formazione (inizialmente denominato “contratto) di formazione-lavoro” e poi “contratto di formazione-specialistica”, D.Lgs. cit., art. 37), da stipulare e rinnovare annualmente tra Università (e Regioni) e medici 2006-2007 (D.Lgs. cit., art. 46, comma 2, nel testo risultante dalle modifiche introdotte prima dal D.L. 21 dicembre 1999, n. 517, art. 8, e poi dalla L. n. 266 del 2005, già citato art. 1, comma 300); mentre le disposizioni del D.Lgs. n. 257 del 1991rimasero applicabili fino all’anno accademico 2005-2006. Il trattamento economico spettante ai medici specializzandi in base al contratto di formazione specialistica tu poi in concreto fissato con i D.P.C.M. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007.

4.3. Compiuta questa breve premessa normativa, il cuore della questione sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire 1) se la dir. n. 93/16/CEE. abbia avuto o meno una portata innovativa rispetto a citiamo stabilito dalle precedenti dir. n. 75/362/CEE, n. 75/363/CEE e n. 82/76/CEE; 2) se il concetto di retribuzione adeguata sia mutato nel passaggio dalle precedenti alla più recente direttiva; 3) se e quando lo Stato italiano abbia adempiuto all’obbligo di garantire ai medici specializzandi una retribuzione adeguata.

Le pronunce di questa Corte in precedenza richiamate hanno già risposto a tali domande nei termini che la sentenza odierna intende ulteriormente confermare.

Ed invero la dir. n. 93/16/CEE, come risulta dalla sua stessa formulazione (si veda, in proposito, il primo Considerando), non ha una portata innovativa, prefiggendosi soltanto l’obiettivo, “per motivi di razionalità e per maggiore chiarezza”, di procedere alla codificazione delle tre suindicate direttive “riunendole in un testo unico”; il che risulta ancor più evidente per il fatto che la direttiva in questione lascia “impregiudicati gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini per il recepimento delle direttive” di cui all’allegato 111, parte B (così l’ultimo dei Considerando).

E’ opportuno ricordare, del resto, che il termine adeguata rimunerazione compare per la prima volta nell’allegato alla dir. n. 82/76/CEE e si ritrova, senza alcuna modificazione, nell’Allegato 1 alla dir. n. 93/16/CEE, per cui e dalla scadenza del termine di adempimento della direttiva del 1982 che l’esigenza di tale adeguatezza divenne regola di obbligatorio recepimento nel diritto interno. Tuttavia – e questo e il punto fondamentale che la Corte d’appello di L’Aquila non ha colto – lo Stato italiano aveva adempiuto al proprio obbligo di fissazione di una adeguata rimunerazione già con il D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 8; la normativa dell’Unione europea, infatti, non contiene, ne potrebbè essere diversamente, alcuna definizione di quale sia la rimunerazione adeguata, la cui soglia deve essere fissata dagli Stati membri nell’esercizio della propria discrezionalità, la quale trova un inevitabile limite anche nelle esigenze di contenimento della spesa pubblica.

Come ha efficacemente spiegato la sentenza n. 4449 del 2018 della Sezione Lavoro, il legislatore, “nel disporre il differimento dell’applicazione delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 368 del 1999, artt. da 37 a 42, e la sostanziale conferma del contenuto del D.Lgs. n. 257 del 1991, ha esercitato legittimamente la sua potestà legislativa (Cass. 15362/2014), non essendo vincolato a disciplinare il rapporto dei medici specializzandi secondo un particolare schema giuridico nè ad attribuire una remunerazione di ammontare preindicato (cfr. punti nn. 23 e 24 di questa sentenza). Nè vale argomentare che lo stesso legislatore italiano, intervenendo in materia, ha modificato la legislazione del 1991 con l’introduzione di una nuova normativa nel 1999 incentrata sullo schema della formazione-lavoro; anche ammettendo che il nuovo sistema sia più congeniale a disciplinare la specifica condizione dei medici specializzandi, non può desumersi dalla sola successione di leggi diverse che la precedente disciplina non fosse idonea in ordine al recepimento delle direttive ed a dare effettiva tutela al diritto ivi affermato dell’adeguata retribuzione”. In altri termini, in conformità all’ordinanza n. 6355 del 2018, va affermato che il “nuovo ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia introdotto con il D.Lgs. n. 368 del 1999 (a decorrere dall’anno accademico 2006/2007, in base alla L. n. 266 del 2005), e il relativo meccanismo di retribuzione, non possono pertanto ritenersi il primo atto di effettivo recepimento ed adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalle direttive comunitarie, in particolare per quanto riguarda la misura della remunerazione spettante ai medici specializzandi, ma costituiscono il frutto di una successiva scelta discrezionale del legislatore nazionale, non vincolata O condizionata dai suddetti obblighi”.

Ragione per cui l’inadempimento dell’Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in esame, è cessato con l’emanazione del D.Lgs n. 257 del 1991, come del resto la Corte di giustizia dell’Unione europea ha già da tempo affermato (v. le sentenze 25 febbraio 1999 – causa L-131/97, Carbonari, e 3 ottobre 2000 – causa C-371/97, Cozza); e il D.Lgs. n. 368 del 1999 è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità per il legislatore nazionale.

4.4. Alla luce di quanto detto fin qui, pare evidente che non c’è alcuno spazio per invocare ipotetiche violazioni del diritto dell’Unione europea e che la causa promossa dall’odierna controricorrente, come correttamente ha osservato l’Avvocatura di Stato, è finalizzata in realtà ad ottenere l’applicazione retroattiva del D.Lgs. n. 368 del 1999. Ne consegue che ogni questione non può che riguardare “esclusivamente l’ordinamento interno” (ordinanza n. 6355 del 2018). Ma, a prescindere dal fatto che nessuna doglianza risulta essere stata avanzata sotto tale profilo in sede di merito, osserva il Collegio che il differimento dell’entrata in vigore della normativa di cui al D.Lgs. n. 368 del 1999 – che è una normativa più favorevole – rientrava nella discrezionalità del legislatore, sicchè il farla scattare dal 2007 non solo non ha potuto determinare alcuna situazione di tardivo recepimento del diritto comunitario, ma nemmeno ha violato l’art. 3 Cost. sul versante della ragionevolezza, in quanto una normativa di favore e migliorativa rispetto ad una vigente può essere fatta entrare in vigore dal legislatore nazionale nel momento in cui, secondo la discrezionalità che gli appartiene, egli lo reputi opportuno.

Non si pone, perciò, alcuna questione di rinvio pregiudiziale e nemmeno alcuna questione di costituzionalità di diritto interno.

5. In conclusione, è accolto il secondo motivo di ricorso con assorbimento del primo.

La sentenza impugnata è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto della domanda originariamente proposta.

In considerazione della novità e dell’obiettiva complessità delle questioni affrontate e dell’esito dei due giudizi di merito, la Corte ritiene equo compensare fra le parti le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso con assorbimento del primo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da B.A.; compensa fra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 20 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2018

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