Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3190 del 12/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3190 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: PETITTI STEFANO

equa riparazione

SENTENZA
senten:a con motivazione
seinplificata

sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA,
tempore,

in persona del Ministro

pro

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale

dello Stato, presso cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
– ricorrente
contro
VERNILLO Nicola (VRN NCL 59B24 1016E), elettivamente
domiciliato in Roma, via Marianna Dionigi n. 57, presso lo
studio dell’Avvocato Claudia De Curtis, rappresentato e
difeso, per procura speciale in calce al controricorso,
dall’Avvocato Antonio Paglia;
– controricorrente –

1616)

Data pubblicazione: 12/02/2014

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato
il 19 maggio 2011.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di

consiglio del 4 ottobre 2013 dal Consigliere relatore Dott.

sentito l’Avvocato Carlo Paglia per delega;
sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Ignazio Patrone, che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso.
Ritenuto che, con ricorso depositato il 10 aprile 2009

presso la Corte d’appello di Roma, Vernillo Nicola ha
chiesto la condanna del Ministero della giustizia al
pagamento dell’indennizzo per la irragionevole durata di
una procedura fallimentare, iniziata con sentenza del 1°
dicembre 1995 e nella quale si era insinuato al passivo con
istanza depositata il 4 giugno 1996, ammessa il 28 giugno
1999 ed ancora pendente alla data di presentazione della
domanda di equa riparazione;
che l’adita Corte d’appello, stimata in anni cinque la
durata ragionevole della procedura, ha rilevato che la
procedura aveva avuto una durata irragionevole di circa
undici anni, per i quali liquidava un indennizzo di
8.250,00 euro, sulla base del criterio di 750,00 euro per
ciascuno degli anni di ritardo, oltre agli interessi legali
dalla domanda al saldo;

Stefano Petitti;

che il Ministero della giustizia ha proposto ricorso
per la cassazione di questo decreto, affidato a cinque
motivi, cui l’intimato ha resistito con controricorso.
Considerato

che il collegio ha deliberato l’adozione

sentenza;
che deve preliminarmente essere disattesa la richiesta
di dichiarazione di inammissibilità del ricorso per
violazione dell’art. 366 cod. proc. civ., formulata dalla
Procura generale sul rilievo che il ricorso è stato
confezionato con la tecnica della spillatura;
che, in contrario, è sufficiente rilevare che il
ricorso presenta una tecnica di redazione complessa, che
non si risolve nella mera spillatura di tutti gli atti del
giudizio presupposto, ma si articola nella ricostruzione
della vicenda processuale, nell’inserimento del testo del
decreto impugnato e nella esposizione di singoli motivi di
censura calibrati sulle questioni esaminate nel decreto
impugnato, sicché deve ritenersi che il ricorso stesso
superi il preliminare vaglio di ammissibilità formale;
che con il primo motivo di ricorso, il Ministero
ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, sostenendo che la
Corte d’appello avrebbe errato nel determinare in cinque
anni la durata ragionevole della procedura fallimentare

3

della motivazione semplificata nella redazione della

presupposta, atteso che lo stato passivo era stato
depositato ad oltre quattro anni dalla dichiarazione di
fallimento e la stessa istanza di ammissione del Vernillo
era stata accolta dopo tre anni dalla sua presentazione;

d’appello a determinare in almeno sette anni la durata
ragionevole, secondo l’orientamento espresso da questa
Corte;
che con il secondo motivo l’amministrazione ricorrente
deduce vizio di motivazione in ordine alla durata
ragionevole della procedura fallimentare presupposta;
che il primo e il secondo motivo, all’esame dei quali
può procedersi congiuntamente per evidenti ragioni di
connessione, sono fondati;
che questa Corte ha avuto modo di affermare che «in
tema di equa riparazione per la violazione del termine di
durata ragionevole del processo, a norma dell’art. 2, comma
secondo, della legge n. 89 del 2001, la durata delle
procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile
dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, è
di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni
caso, per quelle notevolmente complesse – a causa del
numero dei creditori, la particolare natura o situazione
giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie,
beni indivisi, ecc.), la proliferazione di giudizi connessi

elementi, questi, che avrebbero dovuto indurre la Corte

o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti non può superare la durata complessiva di sette anni.
(Nella specie, è stata cassata la pronuncia della corte
d’appello, che aveva determinato la durata ragionevole del

rilevante numero di creditori, la laboriosità della
liquidazione dell’attivo concernente l’affitto dei locali
dell’azienda protrattosi per undici anni, la
ristrutturazione dell’impresa fallita, la vendita
dell’immobile, delle attrezzature e delle merci)» (Cass. n.
8468 del 2012; Cass. n. 9254 del 2012);
che, nel caso di specie, l’amministrazione ricorrente
sin dall’atto della sua costituzione in giudizio
(contrariamente a quanto affermato dalla controricorrente),
aveva eccepito che la procedura fallimentare presentava
evidenti ragioni di complessità, risultanti dal fatto che
anche solo per l’approvazione dello stato passivo erano
occorsi circa quattro anni;
che in proposito si appalesa, dunque, necessario un
nuovo esame della durata ragionevole della procedura
fallimentare presupposta alla luce delle indicazioni
offerte dalla relazione del curatore fallimentare;
che con il terzo motivo il Ministero deduce ulteriore
vizio di motivazione in ordine alla determinazione del dies
a quo,

individuato dalla Corte d’appello nella data di

fallimento in cinque anni, anziché in sette, nonostante il

dichiarazione del fallimento (dicembre 1995) anziché in
quella di presentazione dell’istanza di ammissione al
passivo (giugno 1996);
che con il quarto motivo il Ministero denuncia

riferimento alla erronea determinazione del

dies a quo

della procedura rilevante ai fini della domanda di equa
riparazione;
che il terzo e il quarto motivo, da trattare anch’essi
congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati,
alla luce del principio per cui «in tema di equa
riparazione, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, ove
il processo presupposto sia un procedimento fallimentare,
la sua durata, ai fini dell’accertamento in ordine alla
violazione del termine ragionevole, deve essere
commisurata, per il creditore insinuato, al periodo
compreso tra la proposizione della domanda di ammissione al
passivo e la distribuzione finale del ricavato» (Cass. n.
2207 del 2010);
che al contrario, la Corte d’appello ha assunto quale
dies a quo

della durata della procedura fallimentare la

dichiarazione di fallimento e non già la data successiva
della domanda di ammissione al passivo;
che con il quinto motivo il ministero denuncia
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc.

6

violazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, con

civ. e dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, dolendosi
del fatto che la Corte d’appello abbia riconosciuto gli
interessi dalla domanda pur in mancanza di esplicita
domanda in tal senso;

avente ad oggetto l’equa riparazione si configura, non già
come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege,
riconducibile, in base all’art. 1173 cod. civ., ad ogni
altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di
obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico e dal
suo carattere indennitario discende che gli interessi
legali possono decorrere, sempreché richiesti, dalla data
della domanda di equa riparazione, in base al principio
secondo cui gli effetti della pronuncia retroagiscono alla
data della domanda, nonostante il carattere d’incertezza e
illiquidità del credito prima della pronuncia giudiziaria,
mentre, in considerazione del carattere indennitario
dell’obbligazione, nessuna rivalutazione può essere
accordata» (Cass. n. 18150 del 2011; Cass. n. 24962 del
2011);
che, nella specie, dall’esame degli atti, consentito in
considerazione della natura del vizio denunciato, emerge
che la detta domanda non era stata formulata dal
ricorrente;

che il motivo è fondato, atteso che «l’obbligazione

che, dunque, il ricorso va accolto, con conseguente
cassazione del decreto impugnato e con rinvio, per nuovo
esame, alla luce degli indicati principi di diritto e al
fine di colmare le evidenziate lacune motivazionali, alla

che al giudice di rinvio è demandata altresì la
regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto
impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di
legittimità, alla Corte d’appello di Roma, in diversa
composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
Sesta Sezione Civile – 2 della Corte suprema di Cassazione,
il 4 ottobre 2013.

Corte d’appello di Roma, in diversa composizione;

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