Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3188 del 09/02/2018


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Civile Ord. Sez. 5 Num. 3188 Anno 2018
Presidente: DI IASI CAMILLA
Relatore: DE MASI ORONZO

ORDINANZA

sul ricorso 22717-2014 proposto da:
COMUNE DI PALERMO, domiciliato in ROMA PIAZZA
CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato
CARMELO LAURIA (avviso postale ex art. 135);
– ricorrente contro

CASA DI CURA LATTERI SRL;

2017
3114

intimato

Nonché da:
CASA

DI

CURA

LATTERI

SRL,

elettivamente

Data pubblicazione: 09/02/2018

domiciliato in ROMA VIA EMILIO FAA’ DI BRUNO 52,
presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO ZACCO,
rappresentato e difeso dall’avvocato DANIELE
ZUMMO;

contro

COMUNE DI PALERMO;
– intimato –

avverso

la

COMM.TRIB.REG.

sentenza
di

n.

PALERMO,

414/2014
depositata

della
il

12/02/2014;
udita la relazione della causa svolta nella
camera di consiglio del 19/12/2017 dal
Consigliere Dott. ORONZO DE MASI.

– controricorrente incidentale –

RILEVATO

che il Comune di Palermo propone ricorso, affidato ad un motivo, per la cassazione
della sentenza n. 414/30/14 della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia,
che ha accolto, compensando le spese del giudizio, l’appello proposto dalla Casa di
Cura Latteri s.r.I., avverso la decisione di primo grado, avente ad oggetto
l’impugnazione degli avvisi di accertamento per la tassa per lo smaltimento dei rifiuti

atti impositivi ha rideterminato il tributo, “nella misura risultante dall’applicazione
delle tariffe stabilite per le abitazioni, esclusa la riduzione per smaltimento in proprio
dei rifiuti speciali”;
che, secondo il Giudice di appello, non è condivisibile l’orientamento giurisprudenziale
per il quale non è richiesta dall’art. 3, comma 2, L. n. 241 del 1990, la motivazione
per gli atti a contenuto generale come il regolamento e le delibere comunali di
determinazione delle tariffe Tarsu, per cui la differenziazione delle tariffe tra
abitazioni private e strutture alberghiere non può basarsi soltanto su dati di comune
esperienza, non è consentita l’equiparazione tra strutture alberghiere e case di cura
operata a fini impositivi dal Comune di Palermo, in assenza di una specifica previsione
regolamentare, stante il divieto dell’analogia che discende dalla circostanza che l’art.
68, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 507 del 1993, ricomprende in un’unica categoria
“locali ed aree ad uso abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze,
esercizi alberghieri”, ed infine la contribuente non ha assolto l’onere di provare la
sussistenza delle condizioni per poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento del
tributo in relazione ai rifiuti speciali, tossici e nocivi asseritamente smaltiti in
proprio;
che l’intimata società resiste con controricorso e propone ricorso incidentale cui la
ricorrente resiste con controricorso;

CONSIDERATO

che il ricorrente

deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e

falsa applicazione dell’art. 68, D.Lgs. n. 507 del 1993, giacché la CTR ha ritenuto
che la disposizione contempli in un’unica categoria locali ed aree ad uso abitativo
per nuclei familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri, laddove il
Regolamento del Comune di Palermo, approvato con deliberazione del Consiglio
i

solidi urbani (Tarsu), relativamente alle annualità dal 2006 al 2010, ed annullati gli

Comunale n. 37 del 26/2/1997, sulla base del quale è stato predisposto il ruolo Tarsu
per cui è causa, del tutto legittimamente ha determinato la tassa dovuta da ciascuna
classe di contribuenza, nella misura determinata con deliberazione n. 41 del
13/3/2002, tenendo conto della maggiore capacità di produrre rifiuti che hanno gli
alberghi rispetto alle civili abitazioni, inserendo i primi in una categoria distinta e
tassabile con una diversa misura tariffaria, essendo da assimilare ad essi anche le
case di cura;

che la doglianza investe l’art. 68, comma 2, D.Lgs. n. 507 del 1993, in relazione alla
contestata applicazione, da parte del Comune di Palermo, agli immobili adibiti ad
alberghi, rispetto a quelli adibiti a civile abitazione, di differenti tariffe, alla idoneità
– contestata dalla contribuente – di una motivazione basata sul dato di comune
esperienza della maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto alle
civili abitazioni, alla assimilabilità – contestata anch’essa dalla contribuente – sotto il
profilo tariffario delle case di cura agli esercizi alberghieri;
che, invero, il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49, comma 8, sancisce che la tariffa è
determinata dagli enti locali e, secondo un ormai consolidato orientamento di questa
Corte, « In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), è
legittima la delibera comunale di approvazione del regolamento e delle relative tariffe,
in cui la categoria degli esercizi alberghieri venga distinta da quella delle civili
abitazioni, ed assoggettata ad una tariffa notevolmente superiore a quella applicabile
a queste ultime: la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto
ad una civile abitazione costituisce, infatti, un dato di comune esperienza, emergente
da un esame comparato dei regolamenti comunali in materia, ed assunto quale
criterio di classificazione e valutazione quantitativa della tariffa anche dal d.lgs. n. 22
del 1997, senza che assuma alcun rilievo il carattere stagionale dell’attività, il quale
può eventualmente dar luogo all’applicazione di speciali riduzioni d’imposta, rimesse
alla discrezionalità dell’ente impositore; i rapporti tra le tariffe, indicati dall’art. 69,
comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993, tra gli elementi di riscontro della legittimità della
delibera, non vanno d’altronde riferiti alla differenza tra le tariffe applicate a ciascuna
categoria classificata, ma alla relazione tra le tariffe ed i costi del servizio discriminati
in base alla loro classificazione economica. » (cfr. anche Cass. n. 16175/2016; n.
12859/2012; n. 302/2010; n. 13957/2008; n. 5722/2007);
che questa Corte, in ordine all’obbligo di motivazione della delibera comunale che
prevede una differenziazione tra civile abitazione ed esercizio alberghiero, ha altresì
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che il suesposto motivo è fondato e merita accoglimento;

affermato che « In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, non è
configurabile alcun obbligo di motivazione della delibera comunale di determinazione
della tariffa di cui all’art. 65 del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, poiché la stessa, al
pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, si rivolge ad
una pluralità indistinta, anche se determinabile “ex post”, di destinatari, occupanti o
detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili”. » (Cass. n. 11966/2016; n.
7044/2014; n. 26132/2011; n. 22804/2006);

tassa, i Comuni sono tenuti ad adottare apposito regolamento, il quale deve
contenere, tra l’altro, la classificazione delle categorie e delle eventuali sottocategorie
di locali ed aree con omogenea potenzialità di rifiuti e tassabili con la medesima
misura tariffaria (lett. a), ed al comma 2 l’art. 68 citato stabilisce che l’articolazione
delle categorie e delle eventuali sottocategorie è effettuata, ai fini della
determinazione comparativa delle tariffe, tenendo conto, in via di massima di gruppi
di attività o di utilizzazione tra cui sono compresi (lett. c) i “locali ed aree ad uso
abitativo per nuclei familiari, collettività e convivenze, esercizi alberghieri”;
che, peraltro, la norma non enuclea i rifiuti provenienti da ospedali e case di cura in
una categoria a sé, sottratta alla disciplina ordinaria, e sul punto si è anche osservato
che, nell’ambito della disciplina della Tarsu, la produzione da parte di una struttura
sanitaria di rifiuti speciali, pericolosi e non, non esclude per ciò solo la produzione
anche di rifiuti solidi urbani (Cass. n. 15469/2010; n. 13771/2009);
che, in merito alla avvenuta individuazione della tariffa da applicare agli immobili
destinati a casa di cura, è proprio la previsione legislativa che rende la decisione della
Commissione Tributaria Regionale non corretta laddove afferma che, in assenza di
una specifica previsione regolamentare, sarebbe illegittima una interpretazione volta
a tassare nella medesima misura case di cura ed esercizi alberghieri, considerato che
la tesi della contribuente, fatta propria dal giudice di appello, muove dalla non
condivisibile affermazione concernente l’illegittimità dei “coefficienti tariffari
differenziati” all’interno della medesima categoria di gruppi di attività o di
utilizzazione, ai fini qui considerati, con omogenea capacità di produzione di rifiuti;
che, infatti, l’art. 68, D.Lgs. n. 507 del 1993, ammette la possibilità di applicazione
di tariffe Tarsu differenziate poiché la norma di legge, per come costantemente
interpretata dalla sopra ricordata giurisprudenza, rispetto al quale i contrari
argomenti svolti nell’impugnata sentenza non presentano alcun aspetto di novità,
anche se non autorizza l’ente impositore a ignorare l’indice di produttività dei rifiuti,
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che, ai sensi dell’art. 68, comma 1, D.Lgs. n. 507 del 1993, per l’applicazione della

«gli consente di esercitare una potestà regolamentare differenziata per categorie
e sottocategorie di attività, in base a verificabili dati di comune esperienza. »
(Cass. n. 15050/2017);
che, inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla contribuente, l’assimilazione
delle case di cura agli esercizi alberghieri, piuttosto che alle abitazioni private, non si
scontra con alcun dovere di stretta interpretazione della norma applicabile, in
quanto la normativa regolamentare del Comune, cui è demandata la disciplina di

non costituisce affatto “eccezione rispetto alla regola generale”, ma ne costituisce
l’attuazione, dal momento che le tariffe, ai sensi dell’art. 65, D.Lgs. n. 507 del 1993,
sono determinate dal Comune “per ogni categoria o sottocategoria omogenea” e sono,
dunque, commisurate alla capacità dei locali tassabili a produrre rifiuti (oltre che ai
costi del servizio), ed è a tale criterio che l’ente impositore si è attenuto nella
applicazione, nel caso concreto, della tariffa prevista per gli esercizi alberghieri;
che la società contribuente, con il ricorso incidentale, deduce, ai sensi dell’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 62, comma 3, D.Lgs. n.
507 del 1993, omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la
sussistenza della prova documentale fornita, in punto di diritto all’esenzione dalla
tassa per la superficie che produce “rifiuti speciali tossici e nocivi smaltiti in proprio”,
nonostante l’intervenuto deposito in giudizio del contratto con una impresa
specializzata;
che la censura è infondata e non merita accoglimento;
che la sentenza della

Commissione Tributaria Regionale, quanto

all’invocata

esenzione, si fonda sull’affermazione che , costituendo “un’eccezione alla regola
generale del pagamento del tributo da parte di tutti coloro che occupano immobili nel
territorio comunale, grava, infatti, sul contribuente l’onere di provare la sussistenza
delle condizioni per poterne beneficiare”, e che il documento prodotto in giudizio non
dimostra che il contratto in questione “abbia avuto esecuzione, né la quantità dei
rifiuti speciali smaltiti, né il periodo di riferimento”;
che la decisione si appalesa in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo
cui, ai fini della applicazione della Tarsu, nella determinazione della superficie
tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche
strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali, per cui incombe
sull’impresa contribuente l’onere di fornire all’Amministrazione comunale i dati relativi
all’esistenza ed alla delimitazione delle aree che producendo (di regola) rifiuti speciali
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dettaglio per la determinazione delle tariffe, non è difforme da quella legislativa, e

non concorrono alla quantificazione della complessiva superficie imponibile, tanto più
che la produzione di questi ultimi non esclude quella dei rifiuti solidi urbani e neppure,
pertanto, può escludersi la coesistenza degli uni e degli altri

(ex multis, Cass. n.

21250/2017; n. 17622/2016; 16858/2014);
che giova ricordare che, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,
disposta dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012 applicabile alla sentenza impugnata in quanto pubblicata successivamente alla data

sindacato di legittimità della Corte il vizio di mera insufficienza o incompletezza logica
dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze probatorie,
qualora dalla sentenza sia evincibile una

“regula juris” che non risulti totalmente

avulsa dalla relazione logica tra premessa (in fatto) e conseguenza (in diritto) che
deve giustificare il

“decisum”,

per cui rimane estranea al “riformato” vizio di

legittimità, tanto la censura di “contraddittorietà” della motivazione, quanto la censura
di “insufficienza” dello svolgimento argomentativo che, anteriormente alla modifica
della norma processuale, veicolava il vizio con il quale veniva imputato al giudice di
merito un sostanziale malgoverno dal materiale probatorio esaminato;
che la nuova formulazione del vizio di legittimità in oggetto, infatti, ha limitato la
impugnazione delle sentenze in grado di appello, o in unico grado, per vizio di
motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori
dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola
verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo
costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuato “in negativo” dalla
consolidata giurisprudenza della Corte formatasi in materia di ricorso straordinario, in
relazione alle ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del
provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile
contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella
violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., e che determinano la nullità della
sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità;
che, pertanto, rimane estranea al predetto vizio qualsiasi contestazione volta
semplicemente a criticare il “convincimento” che il giudice di merito si è formato, ex
art. 116 c.p.c., comma 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio, mediante la
valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, ed operando

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(11/9/2012) di entrata in vigore della norma modificativa -, non trova più accesso al

quindi il conseguente giudizio di prevalenza (Cass. n. 11892/2016), non essendo
inquadrabile nel paradigma dell’art. 36 0 c.p.c., comma 1, n. 5;
che, nella specie, non solo nel ricorso incidentale non è indicato il “fatto storico”
controverso e “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non esaminato, ma la
doglianza si sviluppa attorno al discorso argomentativo che ha condotto la CTR a
motivatamente dissentire dalla contribuente in punto di valenza probatoria del
contratto versato in atti;

c.p.c., comma 2, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa va
decisa nel merito, con il rigetto del ricorso originario della contribuente;
che l’evolversi della vicenda processuale giustifica la compensazione delle spese
processuali dei gradi di merito, mentre quelle del giudizio di legittimità, secondo
soccombenza, sono poste a carico della intimata e liquidate in dispositivo;

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza
impugnata e, decidendo la causa nel merito, rigetta il ricorso originario della
contribuente. Compensa integralmente le spese del giudizio di merito e condanna la
Casa di Cura Latteri s.r.l. al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida
in C 5.300,00, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del quindici per cento ed
accessori di legge.
Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1,
D.P.R. n. 115 del 2002.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 dicembre 2017.

che, in conclusione, la sentenza impugnata va cassata e, in applicazione dell’art. 384

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