Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31869 del 10/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 10/12/2018, (ud. 10/07/2018, dep. 10/12/2018), n.31869

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17891-2016 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA

DELL’OROLOGIO 7, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA PAZZAGLIA,

rappresentato e difeso dall’avvocato EMILIO BAGIANTI;

– ricorrente –

contro

TENUTE SILVIO NARRI S.S., in persona del legale rappresentante p.t.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio

dell’avvocato CARLA RIZZO, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato FABRIZIO DOMENICO MASTRANGELI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 136/2016 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 27/05/2016 R.G.N. 77/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/07/2018 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine

rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato STEFANIA PAZZAGLIA per delega verbale Avvocato

EMILIO BAGIANTI;

udito l’Avvocato ANNA RUSSO per delega verbale Avvocato CARLA RIZZO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza pubblicata in data 27 maggio 2016, in sede di reclamo ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha ritenuto la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato con comunicazione del 10 luglio 2014 a P.S. dalla Tenute Silvio Nardi società semplice, respingendo tutte le domande del lavoratore.

2. La Corte territoriale ha considerato “dimostrato in maniera documentale l’effettività della situazione di crisi economica finanziaria, sottesa alla decisione di riduzione dell’organico mediante la soppressione della posizione lavorativa occupata dal P.”, confermata anche dal “fatto che il lavoratore non è stato rimpiazzato con altro lavoratore a tempo indeterminato ed anzi, come è emerso chiaramente dall’istruttoria espletata in primo grado, le mansioni svolte dal predetto sono state distribuite tra altri due lavoratori, già dipendenti della società…, adibiti a mansioni promiscue, nell’ambito della riorganizzazione aziendale improntata all’esigenza di contenimento dei posti e di razionalizzazione della struttura determinata dalla situazione di crisi”.

Rilevato poi che il giudice di primo grado, “pur riscontrando la situazione di crisi aziendale posta a fondamento della riduzione di personale”, aveva ravvisato l’illegittimità del recesso “per la violazione dei principi di correttezza e buona fede previsti dalla L. n. 223 del 1991, art. 5 e, segnatamente, per non aver intimato il licenziamento ad almeno di uno dei 4 lavoratori, aventi minore anzianità di servizio del P.”, la Corte umbra ha accertato che questi si era “rifiutato di assumere formalmente una posizione professionale che lo obbligasse a svolgere mansioni promiscue ed indistintamente durante tutto l’anno” sia di guardacaccia sia di operaio agricolo, in ciò distinguendosi la posizione professionale del P. con quella dei lavoratori assunti dopo di lui, occupati in mansioni non fungibili o, comunque, promiscue”. Inoltre, secondo la Corte di Appello, la non fungibilità della posizione lavorativa occupata dal P., con quella degli altri lavoratori di più recente assunzione, emerge anche dallo svolgimento da parte di tali lavoratori di mansioni specifiche non rientranti nelle competenze professionali del P.”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso P.S. con 2 motivi, cui ha resistito la società con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) ed omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) anche con riferimento all’art. 16 del Disciplinare di autorizzazione per azienda faunistico venatoria”. Si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto dimostrata l’effettività della situazione di crisi economica finanziaria posta a giustificazione del licenziamento nonchè la soppressione del posto di lavoro.

Il motivo si palesa inammissibile.

Con esso, infatti, anche attraverso l’improprio riferimento alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (cfr. Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 25192 del 2016; Cass. n.21603 del 2013), solo formalmente si denuncia, in modo promiscuo, anche un error in iudicando, mentre nella sostanza si investe l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale circa la sussistenza di una crisi finanziaria ovvero della soppressione del posto di lavoro; sussistenza che costituisce interamente una quaestio facti appartenente al sovrano apprezzamento dei giudici del merito e sottratta al sindacato di legittimità, tanto più nel vigore del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentt. nn. 8053 e 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici) di cui parte ricorrente non tiene adeguato conto, piuttosto pretendendo un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie, anche con un pervasivo riferimento ai documenti acquisiti, senza enucleare un fatto realmente decisivo che sarebbe stato trascurato dalla Corte di Appello e che, invece, avrebbe condotto ad un diverso esito della lite con una prognosi di certezza e non di mera probabilità.

2. Il secondo motivo di impugnazione denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5), della L. n. 223 del 1991, art. 5 ed omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”.

Si eccepisce che, “in aperto contrasto con tutte le risultanze istruttorie”, la Corte territoriale avrebbe ritenuto accertato che il P. si sarebbe mostrato “sostanzialmente indisponibile a svolgere mansioni diverse da quelle di guardiacaccia nel periodo di apertura della caccia”; la “semplice lettura delle deposizioni testimoniali” smentirebbe quanto affermato dalla Corte di Perugia. Si sostiene che il P. “era diventato improvvisamente, quanto inspiegabilmente, sgradito al datore di lavoro”, per cui ci si troverebbe “innanzi ad una ipotesi di licenziamento per motivi oggettivi che simula un licenziamento per motivi soggettivi”. Si deduce poi che la Corte di Appello, “stravolgendo le risultanze istruttorie del tutto pacifiche e non suscettibili di diversa interpretazione e/o valutazione”, avrebbe affermato che tutti i lavoratori assunti in epoca successiva al P. erano “occupati in mansioni non fungibili o, comunque, promiscue”. Si contesta, infine, la valutazione della Corte circa il rispetto da parte della società dei principi di correttezza e buona fede nella scelta del P., in quanto la L. n. 223 del 1991, art. 5 farebbe riferimento all’anzianità aziendale e non a quella anagrafica.

L’illustrazione del motivo in esame rende manifesto come lo stesso presenti i medesimi profili di inammissibilità già evidenziati rispetto al primo mezzo di gravame.

Anche in tal caso, fermo l’erroneo riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., si critica l’accertamento dei fatti compiuto dai giudici del merito, senza considerare che, secondo le pronunce delle Sezioni unite di questa Corte innanzi richiamate, l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie.

Poichè il motivo in esame si traduce nella sostanza in un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito nella valutazione del materiale probatorio, lo stesso va disatteso perchè propone a questa Corte un sindacato estraneo al giudizio di legittimità.

3. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% ed accessori secondo legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2018

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