Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3186 del 07/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 07/02/2017, (ud. 01/12/2016, dep.07/02/2017),  n. 3186

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25882/2013 proposto da:

B.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

V.LE REGINA MARGHERITA, 1, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO

DE STEFANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FRANCA PORTA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CEM S.R.L., P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso

lo studio dell’avvocato GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ENRICO GRAGNOLI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 730/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 09/07/2013 R.G.N. 1098/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato MAURIZIO DE STEFANO;

udito l’Avvocato ENRICO GRAGNOLI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Bologna, in riforma della sentenza di prime cure che aveva parzialmente accolto il ricorso, ha respinto tutte le domande proposte nei confronti della CEM s.r.l. da B.M., il quale aveva domandato l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatogli il 18 giugno 2009 e la condanna della società al pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione nonchè al risarcimento dei danni cagionati dalla condotta vessatoria subita nel corso del rapporto.

2 – La Corte territoriale, per quel che qui rileva, ha premesso che la CEM aveva contestato al B. di avere contattato dipendenti della s.r.l., alcuni dei quali occupati in ruoli strategici, per convincerli ad entrare in una società, operante nel medesimo settore produttivo, che egli stava costituendo unitamente all’ex presidente del consiglio di amministrazione della CEM. Era stato, inoltre, addebitato al B. di avere avviato trattative anche con alcuni clienti della azienda.

3 – Il giudice di appello, evidenziato che le condotte erano state provate attraverso le deposizioni testimoniali e la produzione delle dichiarazioni sottoscritte da altri dipendenti, ha ritenuto di dovere disattendere la diversa valutazione espressa dal Tribunale in merito alla sussistenza della giusta causa, in quanto la violazione dell’art. 2105 c.c., non richiede che la attività di concorrenza sleale sia in atto, essendo sufficiente che gli atti compiuti siano potenzialmente lesivi degli interessi del datore di lavoro. La Corte ha escluso la eccepita tardività della contestazione perchè la società aveva avviato l’iter disciplinare non appena aveva avuto contezza, all’esito di una preliminare verifica interna, della condotta illecita poste in essere dal B..

4 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso B.M. sulla base di due motivi. La CEM s.r.l. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, errata interpretazione dell’art. 2105 c.c.. Evidenzia che nessuna delle condotte vietate dalla norma richiamata in rubrica era stata posta in essere, perchè il dipendente non aveva trattato affari in concorrenza con la società, non aveva divulgato notizie attinenti alla organizzazione dell’impresa nè aveva fatto uso di dette informazioni, essendosi limitato a prospettare ad altri dipendenti la possibilità di costituire una nuova società, avente il medesimo oggetto, nella ipotesi, che all’epoca appariva probabile, se non certa, di dissesto della CEM. La particolarità della fattispecie era stata colta dal Tribunale che aveva appunto sottolineato che la condotta nasceva dalla convinzione del prossimo fallimento della s.r.l..

1.2 – La seconda censura denuncia “erronea interpretazione della norma circa la gravità del comportamento in relazione al licenziamento disciplinare”. Sostiene, in sintesi, il ricorrente che la valutazione sulla sussistenza della giusta causa deve essere condotta non in astratto bensì con riferimento al caso concreto ed occorre tener conto non della sola condotta, ma anche dei motivi e dell’intensità dell’elemento intenzionale. Nel caso di specie, al contrario, la Corte territoriale si è limitata ad una apodittica affermazione di sussistenza della violazione dell’obbligo di fedeltà, senza considerare in alcun modo gli ulteriori elementi che vanno apprezzati ai fini del giudizio di proporzionalità.

2 – Il ricorso è infondato, nella parte in cui denuncia l’errata interpretazione dell’art. 2105 c.c., ed è inammissibile per il resto.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio rispetto ai divieti espressamente previsti dall’art. 2105 c.c., perchè detta norma deve essere integrata con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi. E’ stato, quindi, evidenziato che il lavoratore è tenuto ad astenersi da qualsiasi condotta “che risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto” (Cass. 9 gennaio 2015 n. 144; Cass. 26 novembre 2014 n. 25161; Cass. 18 giugno 2009 n. 14176).

Da detto principio generale discende che, sebbene l’ipotesi espressamente prevista dall’art. 2105 c.c., postuli il compimento di atti, sia pure iniziali, di gestione di attività concorrente, tuttavia ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà nei termini più ampi sopra intesi, assume rilievo anche la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro (Cass. 1 febbraio 2008 n. 2474), ivi compresa “la attività del dipendente volta alla costituzione di una società o di una impresa individuale avente ad oggetto la medesima attività economica – commerciale svolta dal datore di lavoro” (Cass. 26 agosto 2003 n. 12489).

Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che fosse idonea a ledere il vincolo fiduciario la condotta tenuta dal B., il quale aveva avvicinato dipendenti, che rivestivano un ruolo determinante nella organizzazione aziendale, per convincerli a partecipare alla costituzione di una società che avrebbe operato nel medesimo settore produttivo della CEM s.r.l., ed aveva anche avviato trattative con clienti della azienda, in vista del successivo inizio della attività concorrenziale.

2.1 – La Corte territoriale, inoltre, ha valutato anche il profilo soggettivo della condotta, poichè la motivazione della sentenza impugnata, seppure estremamente sintetica, è chiara nell’affermare la fondatezza, sotto tutti i profili, del motivo di appello proposto dalla società, la quale, oltre a stigmatizzare la gravità della condotta, aveva anche evidenziato che non poteva essere attribuita alcuna rilevanza alle “motivazioni personali che stanno alla base del compimento di atti di slealtà nei confronti del datore di lavoro”.

Il ricorso, nella parte in cui lamenta la violazione del principio di proporzionalità e la mancata considerazione delle ragioni per le quali il B. aveva tenuto i comportamenti addebitatigli, sollecita una diversa valutazione di merito, inammissibile in sede di legittimità.

E’ ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. 21.11.2016 n. 24029 e Cass. 17.5.2016 n. 10057 Cass. 10.7.2015 n. 14468).

Da detto principio generale è stata tratta la conseguenza, in tema di licenziamento per giusta causa, della possibilità di configurare un vizio di sussunzione solo qualora “la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass. 23.9.2016 n. 18715).

Per le sentenze pubblicate, come nella fattispecie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è configurabile solo nella ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che l’omesso esame di elementi istruttori non rileva qualora il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Il motivo, quindi, è validamente formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, solo qualora il ricorrente indichi il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.

Dette condizioni non ricorrono nella fattispecie, poichè la Corte territoriale ha fatto esplicito riferimento alle motivazioni soggettive che avrebbero ispirato la condotta e ciò nonostante ha ritenuto integrata la giusta causa di licenziamento. Il ricorso, nella parte in cui insiste sulla mancata valorizzazione di detto aspetto, anche ai fini del giudizio di proporzionalità, si risolve in una inammissibile critica del ragionamento decisorio seguito dalla Corte territoriale quanto agli accertamenti di fatto e ne sollecita la revisione, non consentita in sede di legittimità.

3 – Il ricorso va, pertanto, rigettato con condanna del ricorrente al pagamento della spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2017

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