Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31840 del 05/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 05/12/2019, (ud. 23/10/2019, dep. 05/12/2019), n.31840

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23176/2014 proposto da:

DON V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIRSO

90, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI PATRIZI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ADOLFO BIOLE’;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO CENTRALE PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO, ISTITUTO DIOCESANO

PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO DI MONDOVI’, in persona dei legali

rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

GERMANICO 197, presso lo studio dell’avvocato MARIA CRISTINA

NAPOLEONI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ELIO

BOTTO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 181/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 18/04/2014, R.G.N. 58/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/10/2019 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ALESSANDRA GIOVANNETTI per delega avvocato ADOLFO

BIOLE’;

udito l’Avvocato ELIO BOTTO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenze rispettivamente dell’11.12.2012 e del 12.2.2014, la Corte d’appello di Torino, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato che la pensione INPDAP percepita da Don V.G. era computabile nella misura di due terzi ai fini della integrazione dovutagli L. n. 222 del 1985, ex art. 34 e per l’effetto ha condannato il sacerdote a restituire all’Istituto per il sostentamento del clero le somme corrispostegli in eccedenza rispetto a quanto dovuto, quantificate come da CTU.

La Corte, per quanto qui rileva, ha ritenuto che anche le pensioni e non solo gli stipendi dovessero computarsi fra gli emolumenti percepiti dal clero al fine di calcolare l’importo dell’integrazione a carico dell’Istituto, così come stabilito da due delibere della Conferenza Episcopale Italiana in attuazione della disposizione di cui alla L. n. 222 del 1985, art. 34 e che, a detti fini, la pensione percepita dal prelato dovesse senz’altro computarsi fra i redditi da lui percepiti dal momento che non poteva ritenersi conseguita in virtù del versamento di una quota di contribuzione volontaria pari almeno al 33% del totale dei contributi versati.

Avverso tale pronuncia ha ricorso per cassazione Don V.G., deducendo sei motivi di censura, illustrati con memoria. L’Istituto centrale per il sostentamento del clero e l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero di Mondovì hanno resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 222 del 1985, artt. 24,33 e 34, in relazione all’art. 12 preleggi, per avere la Corte di merito ritenuto che anche le pensioni e non solo gli stipendi dovessero computarsi fra gli emolumenti utilmente percepiti dai sacerdoti al fine di calcolare l’integrazione a carico dell’Istituto per il sostentamento del clero.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 10 Cost., art. 13 del Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede ratificato con L. n. 121 del 1985 e L. n. 206 del 1985, artt. 33 e 34, in relazione alla Delib. CEI n. 44 del 1986 e Delib. CEI n. 58 del 1991, per avere la Corte territoriale ritenuto che queste ultime avessero validamente integrato il testo della L. n. 222 del 1985, art. 33, che invece, al fine di individuare i proventi dei prelati suscettibili di essere computati ai fini del calcolo dell’integrazione cit., menziona esclusivamente gli stipendi. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di omesso esame circa un fatto decisivo per non avere la Corte di merito debitamente vagliato le sue argomentazioni difensive circa la contrarietà delle Delib. della CEI dianzi menzionate rispetto alla legge italiana e aver reso sul punto motivazione insussistente.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 554 del 1988, art. 8,D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 47, cit. D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 14, in relazione all’art. 12 preleggi e L. n. 222 del 1985, artt. 33 e 34, in relazione alle Delibere CEI più volte cit., per avere la Corte territoriale ritenuto non riparametrabili, ai fini del calcolo dei contributi sui quali è commisurata la pensione, i periodi contributivi relativi all’attività di insegnamento da lui prestata, siccome inferiore a 18 ore settimanali.

Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta omesso esame circa un fatto decisivo, per non avere la Corte di merito considerato la necessità di riparametrazione delle settimane contributive derivanti da prestazione lavorativa effettuata per meno di 18 ore settimanali e la natura di contribuzione volontaria delle settimane contributive che erano stato oggetto, da parte sua, di ricongiunzione onerosa e di riscatto.

Con il sesto motivo, infine, il ricorrente rileva che, nella denegata ipotesi in cui non venissero accolti le anzidette censure, la sentenza impugnata meriterebbe conferma nella parte in cui ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 545 c.p.c., limitando la compensazione opposta dagli odierni controricorrenti al quinto dell’integrazione a loro carico.

Detto che tale ultimo motivo non propone all’evidenza censure di sorta nei confronti dell’impugnata sentenza, di talchè non ne è necessario l’esame, i primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante l’intima connessione delle rispettive doglianze, e sono infondati.

Va premesso che la disciplina del sostentamento del clero che svolge in favore della diocesi l’esercizio del ministero di cui alle specifiche disposizioni emanate dalla CEI, e in specie la natura giuridica della remunerazione congrua e dignitosa spettante ai sacerdoti per il proprio sostentamento, giusta la disposizione della L. n. 222 del 1985, art. 24, comma 1, è stata oggetto di compiuta ricostruzione da parte di Cass. n. 4871 del 1996, in termini che il Collegio condivide appieno e che non hanno formato oggetto di critica da alcuna delle parti. Può pertanto dirsi acquisito che rapporto giuridico tra il sacerdote e l’istituto obbligato al pagamento della sua remunerazione è riconducibile a una forma di assistenza obbligatoria, che corrisponde ad un interesse dello Stato a tutelare il diritto dei propri cittadini sacerdoti alla remunerazione posta ex lege a carico dell’Istituto per il sostentamento del clero, e che, nondimeno, la nascita del diritto del sacerdote alla remunerazione non è collegata al fatto dello svolgimento dell’attività ministeriale, trattandosi viceversa di remuneratio meramente eventuale che spetta se ed in quanto egli non abbia raggiunto con gli altri cespiti reddituali previsti dalla L. n. 222 del 1985, art. 33, la misura congrua e dignitosa fissata dalla CEI a norma del precedente art. 24, comma 1.

Acclarato così che la remunerazione non costituisce il corrispettivo di un’attività lato sensu lavorativa, essendo quest’ultima fondata sull’autonomo dovere ministeriale, e che il collegamento tra l’art. 2 Cost. e art. 38 Cost., comma 1, depone in favore della natura stricto sensu assistenziale dell’integrazione, trattandosi di prestazione patrimoniale prevista dalla legge al fine di assicurare i mezzi necessari per vivere a cittadini che non prestano lavoro retribuito in senso stretto, ma svolgono comunque un’attività rivolta alla promozione della persona umana, il dissenso delle parti si appunta sui cespiti reddituali che possono concorrere a ridurre o anche ad escludere il diritto all’integrazione, sostenendosi da parte ricorrente che questi dovrebbero essere identificati esclusivamente negli “stipendi”, così come testualmente previsto dalla L. n. 222 del 1985, art. 33 e obiettandosi dalle parti controricorrenti che, avendo la L. n. 222 del 1985, art. 75, demandato (anche) alla CEI di dare attuazione al disposto legislativo, rileverebbero a tal fine anche le pensioni, avendo l’autorità ecclesiastica deciso in tal senso con le proprie Delib. n. 44 del 1986 e Delib. n. 58 del 1991, per come a sua volta modificata nel 1993.

Va rilevato, al riguardo, che, con la citata sentenza n. 4871 del 1996, questa Corte ha in effetti affermato che, trovando il diritto alla remunerazione la sua regolamentazione esclusiva direttamente nella L. n. 222 del 1985, alla Delib. CEI potrebbe essere riconosciuta solo l’efficacia di attuazione delle sue disposizioni, così come disposto dalla L. n. 222 del 1985, art. 75, di talchè una Delibera in contrasto con la legge italiana non sarebbe suscettibile di essere ricondotta al tipo di Delibera previsto dalla legge medesima e dovrebbe pertanto essere disapplicata.

Reputa tuttavia il Collegio che a tale condivisibile affermazione non possa attribuirsi il significato (voluto da parte ricorrente) di inibire al legislatore ecclesiastico di attribuire rilevanza, ai fini del calcolo della misura dell’integrazione, a cespiti reddituali ontologicamente differenti dagli stipendi come certamente sono le pensioni. Posto che un’attività di “attuazione” di un precetto normativo implica pur sempre un margine di discrezionalità, cioè di scelta fra più soluzioni possibili nell’ambito del perimetro letterale, logico e sistematico tracciato dal precetto stesso, la possibilità che una deliberazione dell’autorità ecclesiastica intervenuta in subiecta materia si ponga in contrasto con la legge italiana deve infatti ritenersi circoscritta – in disparte il caso remoto di un atto deliberato da un’autorità diversa dalla CEI, che sarebbe totalmente carente di attribuzione – all’eventualità che il suo contenuto impedisca in radice il conseguimento della ratio assistenziale che è propria della disposizione normativa, dovendo altrimenti ritenersi affatto insindacabile.

Confortano tale soluzione ulteriori argomenti di carattere letterale e sistematico, desumibili dalla L. n. 222 del 1985, art. 24, comma 1.

Da un punto di vista letterale, vale anzitutto ricordare che la disposizione cit. demanda alla stessa CEI la periodica determinazione della misura dell’integrazione spettante a ciascun sacerdote: e non pare revocabile in dubbio che l’individuazione dei cespiti che concorrono a formare il reddito eventualmente da integrare costituisca un modo indiretto di procedere alla medesima operazione, risultandone fissato a contrario il trattamento dovuto dagli istituti per il sostentamento del clero. “Stipendio”, del resto, è voce meno tecnica di “retribuzione” e, nel linguaggio corrente, vale a integrare qualunque emolumento in qualche modo connesso con l’avvenuta prestazione di un’attività lavorativa, al punto che, fino a tempi recenti, la stessa pensione è stata anche autorevolmente considerata come una forma di retribuzione differita (cfr. in tal senso Corte Cost. n. 501 del 1988).

Da un punto di vista sistematico, giova invece rilevare che l’attribuzione alla CEI della potestà di determinazione della misura dell’integrazione (e dunque, in ultima analisi, della misura della prestazione assistenziale dovuta ai sensi della legge italiana) evidenzia come l’ordinamento italiano abbia deciso in specie di autolimitarsi e di attribuire piuttosto rilevanza agli atti propri di un ordinamento straniero, come certamente debbono considerarsi le deliberazioni della CEI rispetto all’ordinamento interno dello Stato italiano. E se una scelta del genere appare del tutto logica, trattandosi di una prestazione che è dovuta in ultima analisi da un ordinamento straniero e condizionata ad un’attività liberamente svolta da un cittadino italiano in suo favore, ciò significa che il rinvio operato dalla L. n. 222 del 1985, art. 75, alle Delib. della CEI deve considerarsi alla stregua di un rinvio formale, che attribuisce rilevanza nel nostro ordinamento all’ordinamento canonico con l’unico limite, come anzidetto, che non risulti vanificata la ratio assistenziale della previsione della legge italiana. Di talchè, non avendo parte ricorrente nemmeno prospettato che, a causa del computo della pensione da lui percepita, l’integrazione dovutagli dalle parti odierne controricorrenti sia divenuta di un ammontare tale da frustrare le finalità per le quali è stata istituita, non residua spazio alcuno per ritenere la fondatezza delle sue censure.

Il terzo motivo è inammissibile: è sufficiente sul punto rilevare che non è deducibile nelle forme dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di argomentazioni difensive (Cass. n. 14802 del 2017) e che il vizio di inesistenza della motivazione dà luogo a nullità della sentenza, che dev’essere necessariamente invocata al fine di dar luogo ad una censura validamente sussumibile ex art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. S.U. n. 17931 del 2013), ciò che nella specie non è dato riscontrare nel ricorso per cassazione.

Del pari inammissibili sono, infine, il quarto e il quinto motivo, con i quali il ricorrente contesta il metodo di applicazione delle Delib. CEI ai fini del calcolo della pensione.

Giova premettere, al riguardo, che la Corte territoriale, nel dare atto che la Delib. CEI n. 58 del 1991, per come modificata nel 1993, esclude dal computo dei redditi rilevanti ai fini dell’integrazione le pensioni aventi decorrenza anteriore al 1.1.1994, ove costituite da contribuzione volontaria costituente almeno il 33% dei contributi versati, ha escluso che l’odierno ricorrente potesse rientrare nella disciplina di favore, non potendo riconoscersi nè ai contributi derivanti da ricongiunzione nè a quelli da riscatto natura assimilabile ad una contribuzione volontaria, in difetto di prova dell’onerosità della ricongiunzione e del riscatto, e ha ritenuto irrilevante la circostanza dell’avvenuta riduzione della pensione in funzione della ridotta prestazione lavorativa, dal momento che essa concernerebbe la misura della prestazione pensionistica, ma non comporterebbe anche la riparametrazione del periodo di servizio o del numero dei contributi settimanali derivanti dall’attività di insegnante che resterebbero sempre in numero tale da escludere che il 33% della contribuzione possa essere considerato frutto di contribuzione volontaria.

Benchè le anzidette conclusioni siano state avversate sia denunciando il vizio di violazione di legge che quello di omesso esame circa un fatto decisivo, dirimente appare al Collegio rilevare che i giudici di merito hanno accertato sia che i 76 contributi settimanali derivanti da riscatto non avevano comportato alcun onere finanziario a carico del ricorrente, sia che non è stata data prova del carattere oneroso della ricongiunzione dei 276 contributi settimanali effettuata ex L. n. 29 del 1979: trattasi infatti di accertamento che, da un lato, priva di interesse ex art. 100 c.p.c., la doglianza in diritto, dal momento che, in mancanza di prova di versamento di contributi volontari o assimilabili, l’eventuale riparametrazione delle settimane contributive di insegnamento resterebbe fine a se stesso, e che, per altro verso, è ormai intangibile in questa sede, non avendo parte ricorrente in alcun modo precisato quando e come la circostanza dell’onerosità della ricongiunzione, che pure sostiene non essere stata contestata, sarebbe stata veicolata nel corso del processo, e risultando pertanto la sua doglianza inammissibile (Cass. n. 20637 del 2016).

Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la soccombenza. Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2019

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