Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3180 del 07/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 07/02/2017, (ud. 10/11/2016, dep.07/02/2017),  n. 3180

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14883/2014 proposto da:

ASSOCIATION COLUMBUS, P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

COSSERIA 5, presso lo studio dell’avvocato PIETRO POZZAGLIA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONELLA FABI, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

A.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

CITTADINO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO CITTADINO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza non definitiva n. 10555/2013 della CORTE

D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/12/2013 R.G.N. 4567/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2016 dal Consigliere Dott. PIETRO VENUTI;

udito l’Avvocato FABI ANTONELLA;

udito l’Avvocato FASULLO RAFFAELE per delega verbale Avvocato

CITTADINO ANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità e in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Roma, con sentenza non definitiva depositata il 30 dicembre 2013, in riforma della pronuncia di rigetto di primo grado, ha dichiarato la natura subordinata del rapporto intercorso tra il Dott. A.R., specialista in oftalmologia, con la “Association Columbus”, casa di cura privata convenzionata, e il diritto del medesimo al pagamento del trattamento retributivo previsto dal CCNL per il personale medico dipendente da case di cura private; ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimatogli verbalmente, con conseguente reintegra nel posto di lavoro e condanna della casa di cura al pagamento delle differenze retributive dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegra, con gli accessori di legge, oltre al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali; ha disposto con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio in relazione alla domanda relativa al pagamento delle differenze retributive maturate nel corso del rapporto e alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la casa di cura sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste il Dott. A. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 2697 c.c., censura la sentenza impugnata per avere violato le norme sulla interpretazione dei contratti.

Rileva che le parti, come risultava dai quattro contratti susseguitisi nel corso del rapporto, avevano manifestato liberamente la volontà di voler costituire una collaborazione libero professionale.

Non avrebbe pertanto dovuto la Corte di merito ritenere non vincolante siffatta volontà, tenuto conto peraltro che era preciso onere del lavoratore fornire la prova rigorosa circa l’esistenza degli elementi caratterizzanti un rapporto di lavoro subordinato.

2. Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2222, 2230 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., “e sotto alcuni profili dell’art. 360 c.p.c., n. 5”, deduce che la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato attraverso un’indagine superficiale delle risultanze istruttorie, dalle quali non era emersa la prova che il Dott. A. fosse sottoposto al potere gerarchico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro; che era obbligato a giustificare le assenze o a chiedere permessi; che era tenuto a timbrare cartellini; che aveva l’obbligo di rispettare orari fissi e giorni obbligatori di lavoro; che era tenuto a fruire delle ferie nei periodi indicati dalla casa di cura.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Deduce che la Corte di merito, nel pervenire alla decisione impugnata, ha omesso di considerare una comunicazione interna della direzione sanitaria del 17 febbraio 2003, che forniva precise indicazioni sulla ripartizione dei compiti assegnati al personale medico dipendente e ai titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa – tra cui il Dott. A. – nonchè le dichiarazioni di taluni testi, da cui era erano emersi elementi che escludevano la natura subordinata del rapporto.

4. Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2 e della L. n. 300 del 1970, art. 18, rileva che erroneamente la Corte territoriale ha considerato quale licenziamento verbale la comunicazione con cui il direttore amministrativo ha invitato il Dott. A. ad allontanarsi definitivamente dai locali della casa di cura, essendo scaduto il suo contratto. Tale comunicazione, se fosse stata ritenuta veramente risolutiva del rapporto di lavoro, avrebbe dovuto essere impugnata nel termine di sessanta giorni.

Inoltre, la stessa Corte ha omesso di prendere in considerazione ai fini del quantum dell’indennità risarcitoria, le altre fonti di reddito percepite dal Dott. A. nel periodo intercorrente tra il licenziamento e la sua reintegrazione nel posto di lavoro.

In particolare nel periodo anzidetto il Dott. A. aveva percepito altri redditi per effetto di nuove occupazioni presso altre strutture, che avrebbero dovuto essere accertati d’ufficio e valutati dalla Corte territoriale ai fini della riduzione del risarcimento.

5. Il primo motivo non è fondato.

La Corte di merito, richiamando i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia, ha affermato, sulla premessa che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, che l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti rapporti è la subordinazione, intesa quale vincolo di soggezione del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale.

Ha aggiunto che, in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra lavoro subordinato ed autonomo, è necessario in talune ipotesi – specie nelle prestazioni che richiedono per il loro esercizio un titolo abilitativo nonchè l’iscrizione ad un ordine professionale – ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali l’osservanza di un orario predeterminato, l’assenza, in capo al lavoratore, di una pur minima struttura imprenditoriale, l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario di lavoro, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni, elementi questi che, benchè privi di valore decisivo se considerati individualmente, ben possono essere valutati globalmente ai fini della qualificazione del rapporto.

Ha inoltre precisato che se da un lato non si può prescindere dalla volontà delle parti contraenti, dall’altro il nomen iuris utilizzato dalle stesse non ha un rilievo assorbente, perchè deve tenersi conto, sul piano della interpretazione della volontà dei contraenti, del loro comportamento complessivo, con la conseguenza che in caso di contrasto tra dati formali e dati fattuali relativi alle modalità della prestazione, occorre dare prevalenza ai secondi.

In altre parole, la pur preliminare indagine sull’effettiva volontà negoziale non può essere disgiunta da una verifica dei relativi risultati con riguardo alle caratteristiche e modalità concretamente assunte dalla prestazione nel corso del suo svolgimento.

Tutto ciò premesso, la Corte territoriale ha ritenuto che dall’istruttoria svolta fossero emersi elementi sufficienti a comprovare la natura subordinata del rapporto.

Tale essendo il percorso argomentativo della Corte di merito, non è dato cogliere in quali violazioni di legge – nello specifico quelle in tema di interpretazione dei contratti – sia incorsa la sentenza impugnata, la quale, nell’escludere la natura autonoma del rapporto, ha applicato i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, con motivazione coerente, logica ed immune da vizi, sottratta, in quanto tale, al sindacato di legittimità.

6. Anche il secondo e il terzo motivo, che in ragione della loro connessione vanno trattati congiuntamente, non possono trovare accoglimento.

Pur denunciando violazione di plurime disposizioni di legge nonchè violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, essi in realtà censurano la sentenza impugnata sotto tale ultimo profilo, lamentando un superficiale esame delle risultanze istruttorie, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ed erronea valutazione delle dichiarazioni dei testi.

Senonchè, in proposito deve osservarsi che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 8053/14), la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (v., in conformità, Cass. n. 12928/14, nonchè Cass. n. 16330/14, che ha pure precisato che deve escludersi la sindacabilità in sede di legittimità della correttezza logica della motivazione di idoneità probatoria di una determinata risultanza processuale, non avendo più autonoma rilevanza il vizio di motivazione).

Inoltre, con la sentenza sopra citata, le Sezioni Unite hanno evidenziato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sopra riformulato, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Nella specie, non è ravvisabile alcuna anomalia nella motivazione della sentenza nè, tanto meno, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio nei sensi sopra prospettati.

7. Infondato è pure il quarto motivo, avendo la Corte di merito, una volta affermata la natura subordinata del rapporto, ritenuto con accertamento non sindacabile in questa sede – che il rapporto di lavoro, come era emerso dalle dichiarazioni dei testi, era stato risolto per iniziativa del datore di lavoro, che verbalmente ebbe ad intimare al Dott. A. di lasciare il servizio.

Inammissibile è la censura con la quale la ricorrente deduce che il licenziamento, ancorchè verbale, avrebbe dovuto essere impugnato entro il termine di sessanta giorni. Trattasi infatti di questione nuova, di cui la Corte di merito non si occupa e che la ricorrente non deduce di avere proposto in precedenza, precisandone i termini.

Analogamente, è inammissibile, perchè nuova, la questione relativa all’aliunde perceptum: la sentenza impugnata non se ne occupa e la ricorrente non deduce di averla sottoposta al giudice del gravame.

8. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

La ricorrente è tenuta al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2017

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