Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31777 del 05/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 05/12/2019, (ud. 19/09/2019, dep. 05/12/2019), n.31777

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto proposto da:

MG ADVERTISING s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Gregorio VII n. 186

presso lo studio dell’Avv. Sabrina Mariani che la rappresenta e

difende per procura a margine del ricorso.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore generale pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12 presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende.

– resistente –

per la revocazione della sentenza n. 17173/2018 della Corte Suprema

di Cassazione, depositata il 28/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19.09.2019 dal Consigliere Roberta Crucitti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Umberto De Augustinis che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso;

udita per la ricorrente l’Avv. Sabrina Mariani;

udito per la resistente l’Avv. Carlo Maria Pisana.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 17173/2018, pubblicata il 28 giugno 2018, in accoglimento dei motivi di ricorso primo, secondo e quarto, proposti dall’Agenzia delle entrate e, assorbito, il terzo, cassava la sentenza resa dalla C.T.R. del Lazio e, decidendo, nel merito, rigettava il ricorso proposto dalla MG Advertising s.r.l. e dai soci M.G., M.S. e A.M.L. avverso l’avviso di accertamento relativo a indebita deduzioni di costi, a seguito di fatture d’acquisto per operazioni inesistenti dell’anno 2004.

La Corte, per quello che qui rileva, ribadito che, con riferimento alla deducibilità dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti ai fini delle imposte sui redditi, era intervenuto del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. nella L. 26 aprile 2012, n. 44, ai sensi del quale era consentita la deduzione dei costui utilizzati per prestazioni di servizio direttamente utilizzate per atti dai quali era scaturito un procedimento penale, conclusosi con sentenza definitiva di assoluzione o di non luogo a procedere- evidenziava che, tuttavia, “nella fattispecie vi è implicitamente, prova, che il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale, come desumibile dalla deposizione dei terzi resa in sede penale” con la conseguenza che “non sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, fatto salvo, qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione, il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione dei costi e dei relativi interessi”.

La Società ha proposto ricorso per revocazione della suddetta sentenza, senza articolare motivo specifico, deducendo l’esistenza di un errore percettivo nel quale sarebbe incorsa la Corte, nel non considerare che, nel corso della pubblica udienza tenutasi il 5 giugno 2018, il difensore dell’Agenzia delle entrate aveva rappresentato che, in altro procedimento pendente tra le stesse parti ed avente ad oggetto diverse annualità di imposta (dal 2000 al 2003), definito con sentenza n. 20564/2017, era stata emessa pronuncia di cassazione della sentenza impugnata, con rinvio al giudice di merito. Dal canto suo, nella medesima discussione orale, il difensore della Società, controricorrente in quel giudizio, aveva precisato che il Tribunale di Roma, con sentenza definitiva resa nel 2012, aveva assolto i rappresentanti della società contribuente con la formula “perchè il fatto non sussiste”.

Nessuno degli intimati (Equitalia Gerit S.p.a., A.M.L., M.S. e eredi di M.G., deceduto in corso di giudizio) ha svolto attività difensiva ad eccezione dell’Agenzia delle Entrate che ha depositato atto al fine di partecipare alla pubblica udienza.

A seguito di fissazione del ricorso in camera di consiglio e previo deposito da parte della Società di memoria, la Sesta Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza del 15 marzo 2019 n. 7532, ha sospeso l’esecuzione della sentenza oggetto di ricorso per revocazione, e, non ravvisando la sussistenza dei presupposti per la decisione ai sensi dell’art. 375 c.p.c., ha rimesso gli atti a questa Sezione.

All’approssimarsi della pubblica udienza la Società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

La ricorrente, pur non articolando uno specifico motivo, i deduce l’errore revocatorio in cui sarebbe incorsa la Corte di cassazione nel non valutare che le parti avevano rassegnato, in pubblica udienza, conclusioni congiunte e rappresentato l’intervenuta assoluzione penale definitiva dei rappresentanti della Società nonchè la precedente decisione resa dalla stessa Corte (n. 30564/17), per annualità diverse, quale sentenza passata in giudicato, chiedendo, quindi, al Collegio di adeguarsi a tale giudicato, disponendo il rinvio al giudice di merito.

Il ricorso è inammissibile.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte ” in tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione la configurabilità dell’errore di fatto, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, presuppone che la decisione appaia fondata, in tutto o in parte, esplicitandone e rappresentandone la decisività, sull’affermazione di esistenza o inesistenza di un fatto che, per converso, la realtà effettiva (quale documentata in atti) induce rispettivamente, ad escludere o affermare, cosi che esso sia percepito e portato ad emersione nello stesso giudizio di cassazione, nonchè posto a fondamento dell’argomentazione logico giuridica conseguentemente adottata dal giudice di legittimità senza coinvolgere l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività” (Cass. N. 7778/2017).

Si ha, quindi, errore di fatto, riconducibile all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, quando lo stesso è di percezione, o consiste in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo che risulti invece in modo incontestabilmente escluso (o accertato), in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il Giudice si sia pronunciato. L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio (cfr. Cass. Sez. U. n. 9882/2001; Cass. n. 13915/2005; Cass. n. 2425/2006; id. n. 27570/2018).

E’, in definitiva, necessario il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purchè, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia contestata dalle parti (Cass. Sez.U n. 23856/2008; id. n. 4413/2016).

Orbene, nel caso di specie, l’elemento che la Corte avrebbe omesso di considerare ai fini della decisione (e che, nella prospettazione della ricorrente, avrebbe dovuto determinare un esito diverso del giudizio) è costituito dalla definitività della sentenza assolutoria nei confronti dei legali rappresentanti della società e nel conseguente riconoscimento della possibilità di ottenere la detrazione dei costi maturati nell’ambito di operazioni soggettivamente inesistenti; definitività, invece, esclusa dalla sentenza impugnata sul presupposto che tale sentenza non fosse intervenuta.

Tale prospettazione non trova conforto negli atti e nei documenti all’esame della Corte, ma trarrebbe fondamento nelle conclusioni orali svolte dai difensori delle parti che, stando a quanto dedotto dalla ricorrente, avrebbero fatto riferimento tanto alla sentenza assolutoria, quanto ad altra pronunzia precedentemente resa da questa Corte che, proprio sul presupposto dell’intervenuta sentenza di assoluzione, aveva disposto la cassazione della sentenza impugnata con rinvio del giudizio al Giudice di merito.

Tuttavia, di tali ultime affermazioni non vi è traccia nel verbale di causa del procedimento n. r.g. 16970/2011 definito con la sentenza oggetto di revocazione. Risulta, infatti, come da intestazione della sentenza che, nel corso dell’udienza il P.G. ebbe a concludere per l’accoglimento del ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, l’Avvocato dello Stato ebbe a riportarsi agli atti e, per converso, il difensore dei ricorrenti chiese il rigetto del ricorso.

E’, dunque, da escludersi che, dai documenti e dagli atti all’esame della Corte nonchè nel corso della stessa pubblica udienza, fosse emersa l’esistenza della sentenza assolutoria che, al contrario, il Collegio ritenne insussistente, al punto da affermare che, in caso di sopravvenienza della sentenza assolutoria, la parte privata avrebbe potuto richiedere il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione dei costi e dei relativi interessi.

Egualmente è da dirsi in ordine alla circostanza, anche essa dedotta dalla ricorrente, che l’esistenza del giudicato assolutorio (formatosi dopo la proposizione del ricorso per cassazione) emergesse, comunque, da altra sentenza resa, tra le stesse parti, da questa Corte (n. 30564/17) a definizione di altro giudizio revocatorio instaurato nei confronti della sentenza n. 2198/14 (che aveva, anch’essa, omesso di valutare l’intervenuta assoluzione penale e l’applicazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis).

Ed invero, oltre che, come già detto, è rimasta priva di riscontro la circostanza dedotta per cui l’Avvocato dello Stato ebbe a rassegnare alla Corte, nel corso della pubblica udienza, l’esistenza della sentenza n. 30564/17, non può neppure accedersi alla tesi difensiva, prospettata nelle memorie, poggiante sul potere della Corte di cassazione di rilevare d’ufficio, anche senza eccezione di parte, il giudicato esterno nelle ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla sentenza impugnata.

Se, infatti, è vero, che, ormai, costituisce jus receptum che i principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata impongono al giudice di rilevare d’ufficio, anche in sede di legittimità, l’esistenza del giudicato esterno (al pari di quello interno), sia che questo risulti dagli atti comunque prodotti nel giudizio di merito sia nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, anche prescindendo da eventuali allegazioni in tal senso delle parti, rimane pur sempre il fatto che, per non snaturare l’ambito dell’istituto stesso della revocazione, come reso oggetto della consolidata interpretazione di questa corte, è indispensabile che l’errore revocatorio cada su di un fatto materiale, e per di più, quando oggetto della revocazione siano i provvedimenti di questa Corte, su un fatto materiale interno al giudizio di legittimità ed afferente ai suoi stessi atti.

In altri termini, in tema di revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione, non può ritenersi inficiata da errore di fatto la sentenza della quale si censuri l’omesso rilievo di un giudicato esterno, perchè in tal caso è dedotta un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto di ricorso (Cass., ord. 12 maggio 2011, n. 10466) e quindi un’attività valutativa e non percettiva, mentre, al contrario, solo il mancato rilievo dell’esistenza di una specifica doglianza della sua sussistenza, relativa ad un precedente di questa stessa Corte e, quindi, di un fatto materiale interno al giudizio di legittimità ed afferente ai suoi stessi atti, viene ad integrare l’errore revocatorio (cfr. Cass. n. 15608 del 24/07/2015: “Costituisce errore di fatto revocatorio, ai fini degli artt. 391 bis e 395 c.p.c., n. 4, la pretermissione, da parte della Corte di cassazione, di una doglianza di giudicato esterno fondata su una sentenza di legittimità intervenuta dopo la proposizione del ricorso, ove tale questione sia stata oggetto di specifica eccezione proposta nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c., e non presa in considerazione nella disamina del ricorso” e, in termini, la stessa Cass. n. 30564/17, citata, la quale ha ritenuto sussistente l’errore percettivo della Corte consistente nell’omesso rilievo dell’allegazione del giudicato esterno effettuata dalla parte nella memoria ex art. 378 c.p.c.).

Nè può rilevare, ai fini che qui occupano, l’asserito contrasto tra giudicati tra la sentenza oggi oggetto di revocazione e la sentenza n. 30564/2017 citata (che ebbe a decidere, a seguito di giudizio revocatorio, sulle annualità 2000-2003) entrambe rese tra le stesse parti da questa Corte, atteso il consolidato indirizzo di legittimità, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, secondo cui l’impugnazione per revocazione proposta ex art. 395 c.p.c., n. 5, avverso una sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione è inammissibile, risultando l’ipotesi ivi contemplata esclusa dalla previsione dei precedenti artt. 391 bis e ter, (Cass. S.U. n. 11508/2012; n. 17557/2013; n. 23833/2015 e, di recente, Cass. n. 8630 del 28/03/2019 la quale ha avuto modo di ribadire, anche, che l’inammissibilità della revocazione delle decisioni della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 5, non si pone in contrasto – oltre che con i principi di cui agli artt. 3,24 e 111 Cost., – con il diritto dell’Unione Europea, non recando alcun “vulnus” al principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti, atteso che la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia riconosce l’importanza del principio della cosa giudicata, rimettendone la concreta attuazione all’autonomia processuale dei singoli Stati membri.

In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

La ricorrente, soccombente, va condannata alla refusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese liquidate, sulla base del valore indeterminato della controversia e dell’attività difensiva spiegata (studio e discussione nella pubblica udienza), in complessivi Euro 2.500,00 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

dichiara il ricorso inammissibile;

condanna la ricorrente, in persona del legale rappresentante, alla refusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese processuali che si liquidano in complessivi Euro 2.500,00 oltre spese prenotate a debito;

da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis, comma 1 quater, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della V sezione Civile, il 19 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2019

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