Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31752 del 07/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 07/12/2018, (ud. 26/06/2018, dep. 07/12/2018), n.31752

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28131-2013 proposto da:

D.A., (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avv.

ROBERTO PIERELLI per procura speciale in calce al ricorso e

domiciliata come in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA UNICA REGIONALE DELLE MARCHE, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI, 87, presso lo studio

dell’avvocato MASSIMO COLARIZI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MARISA BARATTINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 299/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 17/05/2013 R.G.N. 282/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/06/2018 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO GIANFRANCO, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato MARISA BARATTINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza di primo grado, emessa dal Giudice del lavoro di Pesaro, con cui era stata rigettata la domanda proposta da D.A., dipendente dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche, diretta ad ottenere il risarcimento del danno da mobbing.

2. La dipendente, inquadrata in posizione BS, aveva dedotto di avere subito una condotta vessatoria a partire dall’anno 2002 quando, avendo chiesto di poter svolgere mansioni di operatore coordinatore del servizio autoambulanze, era stata giudicata idonea al servizio, ma non idonea alle mansioni di autista.

3. La Corte territoriale ha ritenuto di fare richiamo alla dettagliata esposizione dei fatti contenuta nella sentenza di primo grado, da intendersi trascritta nella sentenza di appello. Ha altresì ritenuto di condividere la ricostruzione e valutazione compiuta dal Giudice del lavoro di Pesaro che, oltre ad escludere un disegno persecutorio del datore di lavoro, aveva provveduto alla disamina dei singoli episodi, giudicando gli stessi, anche al di fuori di una considerazione unitaria, non lesivi della personalità e della dignità della lavoratrice.

3.1. Secondo la Corte di appello, occorreva considerare la vicenda nel contesto della delusione, da parte della D., dell’aspettativa di vedersi assegnare le funzioni di coordinatrice del servizio delle autoambulanze e, in tale contesto, i continui cambiamenti di mansione, richiesti dalla stessa lavoratrice, sia pure a motivo della situazione medica rilevata a suo carico (dopo l’adibizione al servizio di portineria e centralino era risultata controindicata un’attività costantemente stazionaria, occorrendo una certa alternanza con la possibilità di movimento), avevano effettivamente creato inefficienze organizzative e queste, a loro volta, si erano riverberate in danno della stessa ricorrente, in specie quando i cambiamenti venivano a sovrapporsi a processi di generale riorganizzazione dei servizi.

3.2. La Corte di appello ha altresì evidenziato che non erano state specificamente contraddette le risultanze degli atti richiamati dall’Azienda sanitaria, mentre le doglianze della ricorrente (la scarsa dotazione di mezzi, la collocazione in una stanza che i medici di turno utilizzavano per dormire e non sufficientemente aerata) costituivano allegazioni generiche e comunque non tali da configurare condotte dal connotato spregiativo.

4. Per la cassazione di tale sentenza la D. propone ricorso affidato a sette motivi. Resiste con controricorso l’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la D. denuncia la nullità della sentenza per omessa esposizione dei motivi in fatto e delle ragioni di diritto della decisione, in relazione all’art. 132 c.p.c., sostenendo di avere introdotto un elevato numero di circostanze del suo vissuto lavorativo nel periodo compreso tra il 2002 e il 2010, da ritenere sintomatiche, sia singolarmente sia unitariamente considerate, del mobbing a suo danno ovvero di demansionamento e/o dequalificazione professionale; che tale elenco di fatti era stato riproposto in appello e su molte circostanze aveva lamentato un omesso o viziato esame da parte del Giudice del lavoro di Pesaro; che, a fronte di tali allegazioni, la sentenza di appello aveva operato un richiamo del tutto generico alle vicende lavorative, senza chiarire le ragioni della decisione.

2. Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando la nullità della sentenza per omessa pronuncia sui motivi di gravame, in relazione all’art. 112 c.p.c., deduce di avere formulato una richiesta di risarcimento correlata anche alla responsabilità contrattuale ex art. 2103 c.c. per dequalificazione professionale, demansionamento, mancato incremento professionale, perdita di chances e che la Corte di appello non aveva dato alcuna motivazione in proposito.

3. Con il terzo motivo censura la sentenza per violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e/o dell’art. 2043 c.c., degli artt. 1,3,1531 della Carta di Nizza, degli artt. 2,3,4,21,29,32,35,36,38,39Cost. e art. 41 Cost., comma 2, della L. n. 300 del 1970, artt. 9 e 15 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7 nonchè per omesso esame di fatti decisivi della controversia oggetto di discussione tra le parti. Assume la D. che la Corte di appello aveva motivato unicamente in ordine all’insussistenza di una condotta sistematica e protratta nel tempo idonea ad assumere le forme della prevaricazione o della persecuzione psicologica, omettendo di considerare che anche singoli atti e comportamenti datoriali, pure se legittimi, possono rivelare l’intento di vessare, discriminare o ledere il dipendente e che le presunte “lagnanze” della ricorrente, genericamente richiamate dalla Corte, erano evocative del senso di costrittività e sintomo di un disagio vissuto dalla lavoratrice.

4. Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., in relazione all’art. 1175,1375,1218 e 1453 c.c., degli artt. 2697 e 2729 c.c. e/o violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2049 c.c. e il mancato esame di fatti decisivi per il giudizio, deduce che la Corte territoriale aveva escluso il mobbing senza avere esaminato i singoli episodi considerati nel loro complesso e nella cronologia temporale, i danni lamentati della ricorrente e la loro riconducibilità eziologica ai fatti denunciati, ampiamente documentata dai certificati medici, e non aveva neppure chiarito, in relazione ai principi applicabili alle obbligazioni contrattuali ex art. 1218 c.c., come le inadempienze non fossero imputabili alla parte datoriale e/o fossero giustificate da esigenze oggettivamente riscontrabili. In relazione all’art. 2697 c.c., denuncia l’omesso esame di circostanze quali il totale svuotamento delle mansioni derivante dal mancato affidamento di compiti lavorativi in determinati periodi lavorativi (gennaio/marzo 2002, aprile/giugno 2003, luglio/agosto 2004); l’inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, nonchè l’incertezza della sede lavorativa; l’esclusione dalla programmazione del personale; l’assegnazione di mansioni inferiori a quelle di inquadramento in BS e di predominante rilievo manuale, le molteplici altre circostanze indicate in ricorso (da pag. 42 a pag. 51), tra le quali l’assegnazione di un mansionario operativo incompatibile con le limitazioni psicofisiche dell’istante; i continui trasferimenti e spostamenti, tra l’altro imposti senza preavviso e senza motivazione dei presupposti di mobilità interna tra presidi, dipartimenti e uffici, con ciò ingenerando un senso di assoluta precarietà lavorativa e umana.

5. Con il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2103 c.c. per non avere la Corte di appello verificato le circostanze poste a fondamento della domanda di risarcimento in relazione alle singole condotte lesive dedotte, omettendo di valutare la loro riconducibilità a figure diverse dal mobbing (reformatio in peius, dequalificazione, demansionamento, perdita di chances, straining): la ricorrente, dal 2002 in poi, aveva subito circa dieci cambi di postazione lavorativa, tutti contestati nel dettaglio e quindi necessariamente valutabili uti singulis dal giudice di merito. Anche in relazione alle altre circostanze dedotte e solo genericamente richiamate dalla Corte territoriale (le “dotazioni di mezzi”, il “diniego di emolumenti”, l'”esclusione dalla selezione”, la “momentanea adibizione a mansioni superiori”), ritenute non imputabili a un intento discriminatorio, la sentenza non aveva chiarito come le stesse non fossero lesive delle prescrizioni di cui agli artt. 2087 e 2103 c.c..

6. Il sesto motivo, denunciando omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., reitera, da pag. 55 a pag. 74 del ricorso, la censura di omesso o difettoso di esame di specifici fatti, analiticamente descritti, con riferimento al primo mutamento di mansioni (gennaio/luglio 2002), al periodo di reinquadramento in livello inferiore (luglio 2002/marzo 2003), al periodo di assegnazione all’U.O. Direzione Amministrativa (dicembre 2003/autunno 2004), all’assegnazione all’U.O. Trasporti programmati (autunno 2004/settembre 2006), all’assegnazione al Pronto soccorso dell’Ospedale di Fano (ottobre 2006/aprile 2007), all’assegnazione al front-office (da aprile 2008).

7. Il settimo ed ultimo motivo denuncia omesso esame delle istanze istruttorie e/o violazione dell’art. 420 c.p.c., commi 5 e 7, art. 421 c.p.c., comma 2, e dell’art. 437 c.p.c., comma 2, nonchè violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., anche in relazione all’art. 2697 c.c..

8. Il ricorso è inammissibile.

9. Quanto al primo motivo, vertente sulla nullità della sentenza per omessa esposizione dei motivi in fatto e delle ragioni di diritto della decisione, in relazione all’art. 132 c.p.c., va premesso che la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. n. 14786 del 2016; v. pure Cass. n. 2268 del 2006; conf. Cass. n. 7049 del 2007, n. 15483 del 2008, n. 18625 del 2010, n. 7347 del 2012; cfr pure Cass. n. 22022 del 2017).

9.1. Dunque, non rileva il grado di diffusione delle argomentazioni a supporto della decisione ove risulti che il giudice d’appello abbia espresso, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto.

9.2. In proposito, riguardo agli oneri che gravano sul ricorrente per cassazione, le Sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 7074 del 2017 hanno affermato che, ove la sentenza di appello sia motivata per relationem alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali.

9.3. Tanto premesso, occorre rilevare che l’odierna ricorrente, nel corposo atto di impugnazione, che consta di n. 92 pagine, ne dedica la maggior parte alla narrativa degli eventi e dei fatti allegati, mentre solo a pag. 24 riporta una breve sintesi della sentenza di primo grado, liberamente estratta dal provvedimento, cui fa seguito una lunga elencazione di atti o fatti asseritamente non esaminati dal giudice di primo grado. Tale forma espositiva non consente il collegamento delle parti motivazionali della sentenza di primo grado alle censure svolte nell’atto di appello, in relazione – a loro volta – alla motivazione della sentenza di appello e al vizio denunciato con il ricorso per cassazione. Il ricorso si limita, sostanzialmente, a enucleare le tematiche oggetto di causa, ma non fornisce le indicazioni e le allegazioni che gravano sul ricorrente per cassazione in adempimento degli oneri di cui alla richiamata sentenza n. 7074 del 2017 delle Sezioni Unite. Nè tale onere può ritenersi assolto mediante il richiamo degli atti allegati al ricorso con tecnica redazionale equivalente, nella sostanza, al mero rinvio agli atti processuali, rimettendo al giudice di legittimità la ricerca del collegamento che invece è onere del ricorrente fornire (v. Cass. S.U. n. 16628 del 2009, conf. Cass. 15180 del 2010, 6279 del 2011; cfr. pure Cass. n. 18020 del 2013).

10. In ordine al secondo motivo, non risulta trascritto nel ricorso per cassazione il tenore dell’atto di appello, onde potere comprendere se la sentenza sia incorsa nel vizio di omessa pronuncia in ordine ad uno o più motivi di impugnazione (art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4). Se è vero che la Corte di cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, è anche giudice del fatto e ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa, è altresì vero che, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, in esatto adempimento degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 2771 del 2017, n. 1170 del 2004).

11. Quanto ai successivi motivi dal terzo al sesto, va osservato che, seppure prospettati come vizi giuridici, in realtà essi contengono una inammissibile rivalutazione in fatto dell’intera vicenda. La Corte territoriale, alla stregua della condivisa ricostruzione e valutazione dei fatti compiuta dal Giudice del lavoro di Pesaro, ha escluso, da un lato, qualsiasi prova di un intento persecutorio e, dall’altro, il carattere lesivo dei singoli episodi denunciati; ha inoltre evidenziato come la complessiva vicenda andasse interpretata nel contesto della mancata assegnazione alla D. delle mansioni di coordinatrice del servizio delle autoambulanze e come i continui cambiamenti di mansione richiesti dalla stessa lavoratrice potessero avere creato inefficienze organizzative e queste avessero potuto portare qualche pregiudizio alla stessa dipendente, tanto più quando i cambiamenti andavano a sovrapporsi a processi di generale riorganizzazione dei servizi. La Corte di appello ha altresì evidenziato che non erano state specificamente contraddette le risultanze degli atti richiamati dall’Azienda sanitaria, mentre alcune doglianze della ricorrente costituivano allegazioni generiche.

11.1. A fronte di tale complesso argomentativo, il mezzo di gravame è privo di sufficienti caratteri di specificità e completezza, nonchè di concreta riferibilità alla decisione impugnata, in quanto non è dato comprendere sulla base di quale errata interpretazione giuridica sia censurata la decisione. Il vizio di violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a dimostrare motivatamente in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (in termini, da ultimo, Cass. n. 287 del 2016, n. 25419 del 2014, n. 16760 del 2015, n. 16038 del 2013; conformi: Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 1063 del 2005; Cass. n. 8106 del 2006).

12. Nel caso in esame, sub specie violazione di legge l’odierna ricorrente sostanzialmente censura l’esito cui è pervenuta la Corte territoriale nell’esame delle risultanze di causa. Va ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

13. Quanto ai presunti vizi motivazionali concernenti l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, va osservato che la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012. Trova dunque applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 2, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134. L’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 8053 del 2014), comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Con la medesima sentenza, le Sezioni Unite hanno chiarito, con riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una quaestio facti, che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 consente tale denuncia nei limiti dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In proposito, è stato, altresì, affermato che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. 8053/14 cit.).

13.1. Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame, atteso che la sentenza ha dato conto delle ragioni poste a base del decisum. La motivazione non è assente o meramente apparente, nè gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale appaiono manifestamente illogici o contraddittori. La censura di omesso esame di fatti decisivi si risolve, invece, in una inammissibile richiesta di rivalutazione del merito della causa.

14. Del tutto generico è poi il richiamo alla lesione dei diritti fondamentali della dipendente per ipotesi di c.d. “straining”. Non risulta prospettata un’omessa pronuncia in grado di appello su censure in tal senso formulate alla sentenza di primo grado, in relazione a specifiche allegazioni contenute nel ricorso introduttivo. Al contrario, la sentenza impugnata ha dato conto, anche se succintamente, che i fatti erano stati vagliati anche isolatamente e singolarmente dal giudice di primo grado, per cui spettava alla ricorrente prospettare di avere formulato specifici motivi di gravame, non esaminati dalla Corte di appello.

15. Infine, quanto alla denuncia di mancata ammissione di mezzi istruttori, va ribadito che il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, , si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. n. 6715 del 2013, n. 13716 del 2016, n. 24830 del 2017). Inoltre, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, parte ricorrente ha l’onere, non solo di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, ma anche di dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sì che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (v. Cass. n. 23194 del 2017).

15.1. Nel caso in esame, il vizio è stato denunciato impropriamente come error in procedendo e, comunque, non è stato fornito alcun elemento atto a consentire il controllo sulla decisività delle prove, nel senso sopra chiarito.

16. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

17. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, inammissibilità del ricorso) per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2018

Sommario

IntestazioneFattoDirittoP.Q.M.

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