Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3173 del 11/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 11/02/2010, (ud. 20/01/2010, dep. 11/02/2010), n.3173

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

La Società Elettronica Medica S.a.s. di Alessandro Soldo, in

liquidazione, in persona del liquidatore S.A.,

elettivamente domiciliata in Roma alla via Claudio Monteverdi 16

presso lo studio dell’avv. Ferrara Fierro Antonio e rappresentata e

difesa giusta procura speciale a margine del ricorso dallo stesso

nonchè dall’avv. Nicotera Pietro;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rapp.to

e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici

domicilia in Roma, via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

nonchè

Ministero dell’Economia e delle Finanze in persona del Ministro pro

tempore, domiciliato per legge presso gli uffici dell’Avvocatura

Generale dello Stato in Roma, via dei Portoghesi 12;

– intimato –

avverso la sentenza 54/21/01, depositata il 2 aprile 2001, della

Commissione tributaria regionale del Lazio;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21.4.09 dal Consigliere Dott. Giovanni Carleo;

Udito il P.G. in persona del Dr. Ennio Attilio Sepe che ha concluso

per il rigetto del ricorso con le pronunce consequenziali.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con avviso di accertamento parziale del 9 aprile 1992 l’Ufficio II.DD. di Roma recuperava a tassazione, ai fini ILOR per l’anno di imposta 1986, l’ammontare delle deduzioni di cui al D.P.R. n. 599 del 1973, art. 7, pari a L. 12 milioni nei confronti della Società Elettronica Medica S.a.s. di Alessandro Soldo in liquidazione.

L’avviso in questione si fondava sulla segnalazione del 29.10.91 del centro informativo Imposte dirette, dalla quale risultava che il socio amministratore aveva dichiarato nel mod. 440/87 redditi di lavoro autonomo pari a 63 milioni. L’Ufficio, traendo la conclusione che l’occupazione prevalente attestata dal socio in dichiarazione non era quella derivante dalla partecipazione in società, aveva determinato una maggiore imposta ILOR pari a L. 1.944.000 oltre sanzioni per 3.888.000, disconoscendo le deduzioni effettuate dalla società.

Avverso tale avviso la Società contestando la legittimità dell’avviso sia perchè mai notificatole sia per inesistenza dei presupposti impositivi presentava ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Roma, la quale lo rigettava. Proponeva appello ribadendo le tesi esposte in primo grado, vale a dire la mancata motivazione dell’accertamento con conseguente violazione del diritto di difesa del contribuente e l’inesistenza del presupposto impositivo in quanto la prevalenza della qualità di socio rispetto all’attività di lavoro autonomo non doveva essere commisurata ad un mero criterio economico fondato sul reddito percepito bensì sulla quantità di tempo dedicato all’attività produttiva di reddito. La Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava il gravame compensando le spese di giudizio.

Avverso la detta sentenza la Società Elettronica Medica proponeva ricorso per cassazione articolato in 5 motivi, depositando successivamente memoria ex art. 378 c.p.c.. Nell’udienza del 21 aprile 2009 la Corte, ritenuto che il ricorso fosse stato proposto, irritualmente nei soli confronti dell’Agenzia delle Entrate che non aveva partecipato a nessuna fase del giudizio di merito in quanto il procedimento di appello, introdotto il 9 novembre 2000, si era svolto correttamente nei soli confronti di un ufficio periferico del Ministero dell’Economia e delle Finanze, disponeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti del prefato Ministero. Provvedutosi a tale adempimento, si costituiva l’Agenzia delle Entrate resistendo con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La prima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, L. n. 212 del 2000, art. 7 e L. n. 241 del 1990, art. 3), si fonda sulla asserita carenza di motivazione dell’atto impositivo in quanto l’avviso di accertamento sarebbe stato motivato solo mediante il richiamo alla segnalazione del centro informativo, non allegata all’atto, con violazione e conseguente lesione del diritto di difesa del contribuente.

I giudici di merito, sia i giudici di primo grado che quelli di appello – ed in tale rilievo si sostanzia l’ultima doglianza, secondo l’ordine del ricorso, la cui trattazione viene anticipata per comodità di esposizione – avrebbero inoltre “omesso di indicare nella sentenza, sul motivo della illegittimità dell’avviso per mancanza di analisi e motivazione, gli elementi da cui hanno tratto il loro convincimento ovvero li hanno esaminati senza una approfondita disamina logica e giuridica”.

Entrambe le censure, che vanno trattate congiuntamente, proponendo profili di censura fondati sul comune presupposto della pretesa carenza motivazionale dell’atto impositivo, devono essere ritenute inammissibili, innanzitutto, per difetto di “autosufficienza”.

A riguardo, torna utile sottolineare preliminarmente che i giudici di seconde cure hanno già disatteso la censura di analogo contenuto, proposta in appello, affermando che l’eccezione non avesse pregio giuridico in quanto “nell’impugnato provvedimento impositivo sono indicati, sia pure in modo succinto, ma tale da consentire all’appellante di apprestare una adeguata difesa nei confronti della pretesa tributaria, tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali l’Ufficio ha fondato il suo accertamento”.

Come è evidente, pertanto, i giudici d’appello hanno proceduto a verificare e valutare il contenuto dell’avviso compiendo un accertamento in fatto che può essere censurato in questa sede solo sul piano motivazionale, circostanza non ricorrente nel caso di specie, ed inoltre sempre che la censura sia specifica e autosufficiente. La censura proposta in questa sede non risponde invece ai suddetti requisiti perchè, nel caso di specie, la ricorrente, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, avrebbe dovuto assolvere l’onere di riportare – mediante l’integrale trascrizione, occorrendo – il contenuto dell’avviso in quanto il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza impugnata ed a consentire l’apprezzamento da parte del giudice di legittimità della fondatezza di tali ragioni.

Il controllo deve essere infatti svolto sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, mediante l’accesso a fonti esterne e l’esame diretto degli atti di causa, che resta precluso alla Corte di cassazione.

Nessun rilievo merita inoltre il riferimento fatto dalla ricorrente allo Statuto del contribuente ed all’art. 7 in esso contenuto, trattandosi di prescrizione successiva ai fatti di causa e quindi inapplicabile ratione temporis.

La seconda doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2097 c.c. nonchè della motivazione omessa insufficiente e contraddittoria, si fonda sulla considerazione che la C.T.R. avrebbe sbagliato là dove ha ritenuto che l’onere di provare la legittimità della deduzione spettasse alla contribuente, trascurando che compete all’Ufficio dimostrare la fondatezza della pretesa tributaria.

La doglianza è infondata. Ed invero, premesso che possono essere dedotte le quote di reddito derivanti dalla partecipazione agli utili del socio, in quanto al medesimo imputate ai fini Irpef come reddito proprio del contribuente e non della società e ciò, perchè la previsione della deduzione persegue l’intento di “eliminare dall’imponibile la parte che si può considerare formata dal lavoro del soggetto – deve sottolinearsi che questa Corte con orientamento ormai consolidato ha già avuto modo di affermare il principio secondo cui, “l’onere di provare, in presenza di contestazione, che il socio presta la sua opera nella società e che tale opera costituisce la sua occupazione prevalente è – come in genere l’onere di dimostrare le componenti negative del reddito, tanto riguardo alla loro esistenza che all’inerenza – a carico della società contribuente, atteso che dette circostanze, in quanto legittimanti la deduzione, rappresentano gli elementi costitutivi del diritto della società alla deduzione stessa. (Cass. n. 24075/06).

Passando all’esame della doglianza successiva, secondo la quale la CTR avrebbe altresì sbagliato nel ritenere che il concetto di “occupazione prevalente” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 120 sia correlabile al risultato in termini reddituali dell’attività svolta e non in base al concreto impegno del tempo dedicato allo specifico lavoro svolto, la considerazione merita attenzione nella sua premessa in quanto effettivamente, così come hanno statuito le Sezioni Unite di questa Corte la “prevalenza deve essere intesa in senso sia qualitativo che quantitativo, e quindi rapportata all’impegno di tempo e di energie fisiche e mentali che l’attività richiede in concreto per essere espletata, rispetto ai quali il corrispettivo economico rappresenta soltanto uno degli elementi di valutazione” (Sez. Un. n. 5786/08).

Ma se la premessa deve essere condivisa, non possono essere condivise le conclusioni cui perviene la ricorrente, secondo cui il suo originario ricorso avrebbe dovuto essere accolto, non potendo trascurarsi che, quanto ai parametri in base ai quali deve essere misurata la prevalenza dell’occupazione, nella logica del profitto cui è ispirata l’attività d’impresa, le stesse Sezioni Unite hanno avvertito in motivazione che vale la presunzione, iuris tantum, per cui alla maggiore retribuzione corrisponde maggiore impegno di lavoro.

E ciò, anche se pur potendosi presumere, secondo l'”id quod plerumque accidit”, che ad una maggiore remunerazione corrisponda un maggior impegno lavorativo, deve ritenersi sempre ammessa da parte del contribuente la prova contraria che alla prevalenza del corrispettivo riconosciutogli per l’attività di amministratore non corrisponde una sostanziale prevalenza d’impegno, in quanto ai fini della spettanza della deduzione assume rilievo decisivo l’effettiva prevalenza dell’attività di socio e non già la valutazione economica che ad esso viene attribuita (Sez. Un. n. 5786/08).

In definitiva, sulla scorta dell’insegnamento delle Sezioni Unite, considerato che il parametro retributivo deve essere il punto di partenza del ragionamento del giudice del merito, il quale in assenza di prova contraria, deve giudicare sulla base della presunzione:

maggiore retribuzione = maggiore lavoro; considerato che la contribuente, nel caso di specie non ha fornito la prova contraria, cui era onerata ai sensi dell’art. 2697 c.c.; tutto ciò premesso e considerato, deve ritenersi conclusivamente che la sentenza impugnata, la quale si è attenuta al principio espresso, non merita la censura in esame, la quale deve essere pertanto rigettata.

Resta da esaminare la quarta doglianza con cui la ricorrente ha dedotto la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 sul principio del favor rei nel sistema sanzionatorio tributario nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 49 in ordine alla previsione di sanzioni di entità diversa in quanto l’art. 3 citato avrebbe reso non più punibile l’indebita deduzione Ilor D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 120 (TUIR) per effetto dell’abolizione del tributo operata dalla legge istitutiva dell’IRAP. Inoltre, nel caso di specie, essendo stata la deduzione indebita punita con l’irrogazione della sanzione pari al minimo edittale fissato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 49 due volte la maggiore imposta dovuta mentre ai sensi del sopravvenuto arti del D.Lgs. n. 471 del 1997 per la medesima violazione è prevista la sanzione minima del cento per cento la maggiore imposta dovuta, la CTR vertendosi in un caso di procedimento in corso alla data dell’1.4.98 avrebbe dovuto, alla luce del principio del favor rei, rideterminare l’importo e non confermare gli importi precedentemente irrogati.

Il primo profilo di censura è infondato in quanto la violazione contestata con l’avviso di accertamento fa riferimento ad una condotta, quale l’indebita deduzione, tuttora sanzionata dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, n. 2, ad onta dell’abrogazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 49, sicchè deve ritenersi del tutto estranea alla vicenda de qua l’invocata applicabilità della disciplina dell’abolitio criminis ex art. 2 c.p., comma 2 al caso della cd.

abrogazione mediata. Merita invece attenzione il secondo profilo. A riguardo, è utile premettere che in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, il principio del “favor rei”, introdotto dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, non può trovare applicazione generalizzata, diretta ed immediata per la disciplina di fattispecie i cui antecedenti risalgano al tempo anteriore a quello che prende inizio dall’entrata in vigore del Decreto n. 472 del 1997 (1 aprile 1998), salvo che per le fattispecie medesime non torni applicabile, come nel caso di specie, la norma transitoria dell’art. 25, commi 1 e 2, stesso Decreto. Ed invero i procedimenti in corso di cui all’art. 25, comma 2, nei quali si applicano gli artt. 3, 4, 5, 6, 8 e 12, medesimo Decreto, sono quelli in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del decreto, il provvedimento di contestazione o di irrogazione della sanzione non era ancora divenuto definitivo e quelli nei quali alla stessa data, in relazione all’avvenuta impugnazione in via amministrativa o giurisdizionale del provvedimento sanzionatorio, non era intervenuta una pronuncia definitiva, (cfr. Cass. n. 26292/05), ipotesi che ricorre nella vicenda in esame.

Giova aggiungere che questa Corte di recente ha ribadito che il principio del “favor rei” introdotto dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3 è applicabile alle violazioni commesse anteriormente al 1 aprile 1998 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 472 cit.), anche d’ufficio ed in ogni stato e grado di giudizio, a condizione che vi sia un procedimento ancora in corso e che il provvedimento impugnato non sia definitivo. (Cass. 17069/09).

Ciò premesso, si deve sottolineare che la Corte di merito ha irrogato una sanzione pari a due volte la maggiore imposta dovuta, nei limiti fissati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 49, mentre ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, sopravvenuto art. 1 per la medesima violazione è prevista la sanzione minima del cento per cento la maggiore imposta dovuta.

Ne consegue che in applicazione del principio del favor rei il quarto motivo di ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata, che ha fatto riferimento, in modo non corretto, ad una regula iuris diversa, deve essere cassata, nei limiti del motivo accolto.

Con l’ulteriore conseguenza che, occorrendo un rinnovato esame da condursi nell’osservanza del principio richiamato, la causa va rinviata ad altra Sezione della CTR Lazio, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta tutti gli altri, cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto, con rinvio della causa ad altra Sezione della CTR Lazio, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2010

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