Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31720 del 07/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 07/12/2018, (ud. 12/11/2018, dep. 07/12/2018), n.31720

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. MUCCI Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 20056 del ruolo generale dell’anno

2011, proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, si

domicilia.

– ricorrente –

contro

s.p.a. Impresa C.T. in concordato preventivo, in persona

del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso,

giusta procura speciale a margine del controricorso, dagli avvocati

Stefano Fruttarolo e Bruno Cossu, elettivamente domiciliatosi presso

lo studio del secondo in Roma, alla via Crescenzio, n. 58.

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Friuli Venezia Giulia, depositata in data 48 aprile

2011, n. 87/01/11;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data

12 novembre 2018 dal consigliere Perrino Angelina-Maria;

udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore

generale Federico Sorrentino, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso per quanto di ragione, rimettendosi alla Corte quanto alla

richiesta di rinvio a nuovo ruolo formulata dal difensore della

contribuente;

sentiti per l’Agenzia delle entrate l’avvocato dello Stato Barbara

Tidore e per la società l’avv. Bruno Cossu.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate notificò alla Impresa C.T. otto avvisi di accertamento, con i quali, in relazione agli anni d’imposta dal 2000 al 2003, recuperò iva, irap e ritenute irpef.

Gli avvisi erano scaturiti, nella prospettazione dell’Agenzia, dalla ricostruzione dei rapporti intercorsi tra la società in questione e le imprese Effe s.r.l., Dieffe s.r.l., Cooperativa sociale Edilcoop, Uliks d.o.o., Ena-M d.o.o. e Terra Istriae non già come riconducibili a contratti di appalto, bensì come intermediazioni vietate di manodopera; sicchè si escluse la detraibilità dell’iva portata dalle fatture emesse dalle sedicenti appaltatrici, e si affermò l’inosservanza dell’obbligo di versamento delle ritenute irpef sui compensi corrisposti dagli imprenditori interposti ai lavoratori che, in realtà, erano da considerare alle dipendenze dell’interponente, ossia, appunto, della Impresa C.. Per l’anno d’imposta 2003, inoltre, l’Agenzia recuperò a tassazione, ai fini irap, le somme figuranti come compensi corrisposti per taluni dei contratti denominati di appalto (quelli intercorsi con le imprese croate Terra Istriae e Uliks) e dedotti dalla contribuente.

La contribuente impugnò gli avvisi ottenendone, previa riunione, l’annullamento totale di sei e parziale dei restanti due, quanto all’irpef e all’irap, con riguardo alle società croate, alla cooperativa sociale Edilcoop alla 2Effe s.r.l. e alla Dieffe s.r.l.; in particolare, in relazione ai casi in cui escluse la sussistenza di appalti, comunque la Commissione tributaria provinciale di Udine respinse i ricorsi con riferimento all’iva.

Quella regionale del Friuli Venezia-Giulia ha respinto il successivo appello proposto dall’Agenzia.

Al riguardo il giudice d’appello ha preliminarmente condiviso la qualificazione operata dal giudice di primo grado dei rapporti intercorsi, convenendo che, ad eccezione di quelli con le s.r.l. 2Effe e Dieffe, gli altri rispondano alla sostanza dell’appalto. Anche per i rapporti riconducibili al mero affitto di manodopera, ha peraltro soggiunto, l’Impresa C.T. non può rispondere delle ritenute d’acconto, poichè non è stata essa a corrispondere le retribuzioni ai lavoratori. Quanto all’iva, invece, ha sottolineato che non può essere detratta un’imposta non dovuta, soltanto perchè indicata in fattura.

Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia delle entrate per ottenerne la cassazione, che affida a dodici motivi, cui la società replica con controricorso, che illustra con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Va respinta l’istanza di rinvio a nuovo ruolo proposta dal difensore della contribuente al fine di consentire alla propria assistita, ammessa alla procedura di concordato preventivo, di valutare la possibilità di accedere alla definizione agevolata prevista dal D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6.

E ciò sia perchè il comma 10 di questa norma stabilisce che “Le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di volersi avvalere delle disposizioni del presente articolo”, laddove nel caso in esame nessuna richiesta è stata avanzata; sia perchè dalla stessa documentazione esibita dal difensore emerge che la società è stata ammessa alla procedura di concordato preventivo sin dall’ottobre 2011, di modo che la circostanza di per sè non integra una ragione speciale di rinvio.

2.- Vanno altresì respinte le eccezioni d’inammissibilità e d’improcedibilità proposte dalla contribuente, in quanto, contrariamente a quanto sostenuto in controricorso, l’Agenzia ha adeguatamente indicato i fatti controversi sui quali ha calibrato la deduzione dei vizi di motivazione e ha indicato gli atti sui quali ha fondato le ragioni di ricorso, allegando i contratti sui quali le ha basate, concernenti il rapporto con la cooperativa sociale e con le tre imprese croate.

3.- Col gruppo di motivi dal terzo al sesto, da esaminare preliminarmente rispetto ai primi due, perchè logicamente a questi prodromici, l’Agenzia denuncia l’omessa o comunque gravemente insufficiente motivazione della sentenza relativamente alla ricostruzione dei rapporti intrattenuti dalla Impresa C.T. rispettivamente con la Cooperativa sociale Edilcoop e con le imprese croate Uliks d.o.o., ENA-M d.o.o. e Terra Istriae d.o.o., giacchè, sostiene, l’inadeguatezza della struttura delle società e della cooperativa, nonchè dei materiali da esse acquistati, l’oggetto sociale del tutto diverso delle imprese croate, la mancanza di direttori di cantiere, inducono a ritenere che non di rapporti contrattuali di appalto si sia trattato, sibbene di mere intermediazioni di manodopera, senz’altro vietate sino a quando è stata vigente la L. n. 1360 del 1969 e poi comunque scaturenti da contratti di somministrazione di manodopera nulli a norma del D.Lgs. n. 276 del 2003, per il periodo successivo al 24 ottobre 2003.

3.1.- Questo gruppo di motivi si salda ai motivi dal nono al dodicesimo, coi quali l’Agenzia torna sui medesimi fatti per denunciare l’omessa motivazione in ordine alla circostanza che essi fondassero il ragionevole sospetto che i contratti stipulati con le imprese in questione non fossero in realtà appalti, bensì intermediazioni di manodopera vietate o somministrazioni di manodopera nulle, a seconda del regime normativo rispettivamente vigente (la L. n. 1369 del 1960prima e il D.Lgs. n. 276 del 2003 poi).

3.2.- Questo complesso di motivi, sempre in relazione ai rapporti intercorsi con la cooperativa sociale Edilcoop e con le imprese croate già indicate, va poi esaminato congiuntamente al settimo e all’ottavo motivo, coi quali, rispettivamente l’Agenzia denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 (settimo motivo), nonchè ancora dell’art. 2697 c.c. e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11 (ottavo motivo), là dove il giudice d’appello ha ritenuto che spettasse al fisco provare che i contratti in questione avessero a oggetto l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro, ai fini della detrazione dell’iva operata dall’Impresa C.T. in relazione alla cooperativa sociale e alle imprese croate, nonchè ai fini della deduzione dall’imponibile irap per l’anno 2003 dei costi documentati dalle fatture emesse dalla imprese croate Uliks e Terra Istriae.

4.- Erronee sono le statuizioni della sentenza impugnata che fanno gravare sull’Amministrazione l’onere probatorio, sia in relazione all’iva, sia con riguardo all’irap.

Quanto all’iva, tocca all’acquirente di beni o al committente di prestazioni di servizi che invochi il diritto di detrazione dell’iva assolta o dovuta provare che ricorrono i presupposti per fruirne (tra varie, Corte giust. 18 luglio 2013, causa C-78/12, “Evita-K” EOOD, punto 37).

4.1.- E’ dunque sulla contribuente che grava l’onere di provare che quelli intercorsi con la cooperativa sociale e con le imprese croate sopra indicate fossero rapporti contrattuali di appalto. E’ in tal caso, difatti, che potrebbe vantare il diritto di detrarre l’imposta assolta o dovuta, attraendo l’intero corrispettivo degli appalti della base imponibile dell’iva.

5.- Questa Corte (tra varie, Cass., ord. 5 ottobre 2018, n. 24457; 2 agosto 2017, n. 19206; 26 luglio 2017, n. 18476) ha già avuto occasione di chiarire che la L. n. 1369 del 1960, art. 1, u.c., secondo cui i lavoratori sono considerati alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni, comporta che solo sull’appaltante, recte, sull’interponente gravano tutti gli obblighi, anche fiscali, scaturenti dal rapporto di lavoro. Il che non può che riverberarsi in tema di iva e di irap: quanto all’iva, perchè non è configurabile operazione resa a committente avente a oggetto le prestazioni lavorative dei propri dipendenti; in relazione all’irap, per nullità del titolo giuridico dal quale scaturiscono i costi dedotti dal relativo imponibile.

5.1.- Per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, peraltro, resta il divieto d’intermediazione di manodopera (sub specie di somministrazione irregolare) in armonia con i principi costituzionali volti a collegare al rapporto di lavoro subordinato e soltanto a esso una serie di posizioni di vantaggio (Cass., sez. un., 26 ottobre 2006, n. 22910, che si riferisce, in motivazione, appunto alla disciplina introdotta nel 2003), e ciò in base anche ai criteri fissati dalla L. delega n. 30 del 2003 (Cass. 26 ottobre 2018, n. 27213; 15 febbraio 2013, n. 3795 e, quanto alla giurisprudenza penale, Cass. 2 luglio 2015, n. 27866, Cardaci).

5.2.- Al cospetto di appalto non genuino, dunque, opera il divieto di dissociazione tra imputazione formale del rapporto di lavoro e utilizzazione effettiva della prestazione lavorativa (Cass. n. 27213/18, cit.); il che ridonda nella nullità del contratto, che conforma anche la sorte di quello fra lavoratore e somministratore e incide ai fini dell’iva e dell’irap (in termini, Cass., ord. 28 luglio 2017, n. 18808; conf., ordd. 17 gennaio 2018, n. 938; 27 luglio 2018, n. 19966 e 12 novembre 2018, n. 28953).

5.3.- Irrilevante, in particolare, è la richiesta del lavoratore, mediante ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 c.p.c., di costituire il rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione.

6.- Non può quindi essere condiviso, per quest’aspetto, il diverso orientamento espresso da questa Corte (con sentenza 11 dicembre 2015, n. 25014; conf., ord. 15 marzo 2017, n. 6722), la quale, facendo leva sul D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27(richiamato, in tema di appalto, dall’art. 29, comma 3-bis, del medesimo decreto), ha sostenuto che, poichè non è più prevista per legge l’instaurazione del rapporto di lavoro fra lavoratore e committente/appaltante o utilizzatore, la fatturazione delle prestazioni rese da parte della ditta intermediaria, in mancanza d’instaurazione del rapporto su domanda del lavoratore, sia sufficiente a legittimare la detrazione dell’iva relativa; parimenti, l’efficacia della fatturazione consentirebbe la deduzione dei costi fatturati ai fini delle imposte dirette e dell’irap.

6.1.- Il ricorso che il lavoratore propone “quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1″ (art. 29, comma 3-bis) mira a ottenere la conversione nel contratto di lavoro con chi si è giovato delle sue prestazioni; e la conversione, di per sè, postula la nullità dei contratti che ne sono oggetto, in particolare di quello tra interponente e interposto, che può essere fatta valere da chi ne abbia interesse, quindi anche dal fisco, nonchè rilevata d’ufficio. Benchè il legislatore discorra di costituzione del rapporto, la circostanza che l’azione possa essere esperita anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore esclude in radice che quella prevista sia un’ipotesi di annullabilità anzichè di nullità (Cass. 1 agosto 2014, n. 17540).

D’altronde l’azione di accertamento del fisco, terzo rispetto

ai rapporti scaturenti dall’appalto stipulato in violazione di quanto previsto dal D.Lgs. n. 276/03, art. 29, comma 1, nel testo vigente all’epoca dei fatti, non può dipendere dalla scelta, individuale e imponderabile, del lavoratore di promuovere, o no, l’azione per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del datore di lavoro interponente, almeno nei casi in cui l’instaurazione del rapporto e dei correlativi obblighi non si atteggi a presupposto impositivo.

7.- Se l’appalto non si distingue dalla somministrazione giusta l’art. 29, comma 1, del D.Lgs. n. 276 del 2003, non è configurabile prestazione dell’appaltatore imponibile ai fini iva, in relazione all’esecuzione della quale la contribuente ha detratto l’imposta assolta o dovuta e sulla configurabilità della quale insiste in controricorso. Di qui l’esclusione del diritto di detrazione, che scaturisce dall’effettiva realizzazione della prestazione di servizi. Sicchè, mancando questa, esso non sorge (Corte giust. 27 giugno 2018, cause C-459-460/17, SGI e Valeriane snc, punto 35); nè l’esercizio di esso si estende a un’imposta dovuta esclusivamente perchè è menzionata su una fattura (Corte giust. 4 luglio 2013, causa C-572/11, Menidzherski biznes reshenia, punto 20).

7.1.- A non diverse conclusioni si perviene riguardando la prestazione come di somministrazione irregolare, e quindi nulla.

Difatti, benchè in generale il principio di neutralità fiscale osti a una distinzione generalizzata tra contratti leciti e illeciti (Corte giust. 28 maggio 1998, causa C-3/97, Goodwin e Unstead), al principio fa eccezione il caso in cui per le caratteristiche particolari dell’oggetto della cessione o della prestazione sia esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e uno illecito (Corte giust. in causa C-3/97, cit., punto 12).

Ed è questo il caso, giacchè il divieto di dissociazione tra imputazione formale del rapporto di lavoro e utilizzazione effettiva del rapporto comporta che, di là dalle ipotesi di somministrazione regolare, la fornitura di mere prestazioni di lavoro è esclusa dal circuito economico.

8.- Anche quanto alla pretesa per irap, si diceva, v’è violazione dell’art. 2697 c.c.

Ciò perchè, nella fattispecie, la pretesa scaturisce dall’esclusione della deducibilità dei costi sostenuti dalla contribuente per le prestazioni dei lavoratori formalmente dipendenti dalle tre società indicate in narrativa, facendo leva sulla configurazione come appalto del rapporto con queste intercorso; di modo che essa dipende pur sempre dalla configurabilità del rapporto tra l’Impresa C.T. e, rispettivamente, la Ulicks e la Terra Istriae come appalto genuino.

Qualora l’appalto non fosse genuino, i componenti in questione non sarebbero deducibili, indipendentemente dall’iniziativa dei lavoratori volta alla conversione dei rapporti (quanto al periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276/03), per mancanza di certezza, derivante dalla nullità del titolo giuridico da cui scaturisce la relativa obbligazione patrimoniale (vedi ancora Cass. n. 18808/17, cit.). Certezza, predicabile anche in tema di irap, giusta il richiamo del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 5 e all’art. 2425 c.c. e, per conseguenza, ai requisiti di correttezza e veridicità del bilancio che attengono al risultato economico.

8.1.- Nè è prospettabile l’applicazione della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta con il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, come convertito, che implicitamente ammette la deducibilità dei costi e delle spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività integranti reato contravvenzionale (in termini, Cass., ord. 4 marzo 2013, n. 5342), benchè sia ravvisabile nel caso in esame un tale tipo di reato, giusta del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 18. E ciò a causa ancora della mancanza di certezza dei costi, comunque necessaria ai fini dell’applicazione della disposizione (in termini, fra varie, Cass. 20 aprile 2016, n. 7896).

9.- Oltre a violare la regola di giudizio scaturente dall’applicazione dell’art. 2697 c.c., il giudice di appello ha soltanto assertivamente stabilito che i rapporti tra la contribuente e, rispettivamente, la cooperativa e le imprese croate siano rispondenti a contratti di appalto genuini, in tal maniera trascurando gli elementi di fatto potenzialmente idonei a orientare una decisione di segno diverso dinanzi sunteggiati, al cospetto:

– quanto al periodo regolato dalla L. n. 1369 del 1960, degli elementi presuntivi considerati della L. dell’art. 1, comma 3, (impiego di capitale, macchine e attrezzature fornite dell’appaltante), e della configurabilità comunque di mera intermediazione quando il soggetto interposto si limiti a fornire prestazioni di lavoro del personale da lui assunto, sia privo di reale autonomia, di una struttura propria e di un’effettiva organizzazione imprenditoriale (in termini, tra varie, Cass., ord. 17 gennaio 2018, n. 993);

– in relazione a quello successivo, del criterio fissato del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 1, che fa leva sull'”… organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonchè per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.

10.- A seguito della riforma, in particolare, la chiave di volta si rinviene nell’eterodirezione, in virtù della quale l’appaltatore non solo organizza, ma anche dirige i dipendenti, utilizzandoli in prima persona.

E’ dunque destinato a conservare attualità l’orientamento maturato in relazione al regime previgente, che ravvisava l’operatività del divieto d’interposizione (oggi tradottosi in somministrazione irregolare) ogni qual volta in capo all’appaltatore restino i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza una reale organizzazione della prestazione, volta ad un risultato produttivo autonomo (tra varie, Cass. 28 marzo 2013, n. 7820, nonchè, in relazione alla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 276 del 2003, Cass. pen. n. 27866/15, cit. e n. 27213/18, cit.).

In questa cornice, a fronte delle sbrigative statuizioni contenute in sentenza, potenzialmente idonee a orientare una decisione diversa sono le circostanze di fatto allegate con la deduzione dei vizi di motivazione.

Sicchè la complessiva censura va accolta.

11.- Fondati, ma nei limiti che seguono, sono il primo e il secondo motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente, perchè connessi, coi quali l’Agenzia, in relazione ai rapporti intercorsi tra l’Impresa C.T. e le s.r.l. 2Effe e Dieffe, qualificati come di mera intermediazione di manodopera, lamenta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23, dei principi generali in tema di irpef e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 21, là dove il giudice d’appello ha escluso l’obbligo dell’Impresa C.T., imprenditore interponente, di versare le ritenute d’acconto sui compensi corrisposti ai lavoratori (primo motivo), nonchè, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’insufficienza della motivazione in ordine all’ammontare delle ritenute versate dagli imprenditori interposti (secondo motivo).

In relazione al regime antecedente all’abrogazione della L. n. 1369 del 1960, indubbiamente, come questa Corte ha più volte affermato (tra varie, Cass. 31 maggio 2013, n. 13748; 17 ottobre 2014, n. 22020; 26 luglio 2017, n. 18476), in caso d’intermediazione di manodopera vietata, tra gli obblighi posti a carico del datore di lavoro effettivo, ossia dell’interponente, alle dipendenze del quale ex lege sono i lavoratori intermediati, v’è anche quello di operare la ritenuta d’acconto; sicchè, si è aggiunto, se non può esservi che un solo datore di lavoro, l’interponente, non può che esservi altresì un solo sostituto d’imposta quale datore di lavoro. Sicchè le somme corrisposte dall’interponente all’interposto, non potendo remunerare una prestazione derivante da un contratto di appalto, perchè nessun appalto è configurabile, sono destinate nella sostanza a remunerare le ore di lavoro (come emerge d’altronde dal testo della sentenza di primo grado, riprodotta in ricorso e condivisa da quella impugnata, in cui si legge che “documenti reperiti presso la 2effe s.r.l. e dichiarazioni rese da dipendenti suoi e della Dieffe Srl, dimostrando che le lavorazioni eseguite venivano fatturate semplicemente sulla base delle ore lavorative prestate…”).

11.1.- Nel caso in esame, peraltro, di là da ulteriori considerazioni, occorre verificare la sussistenza dell’interesse ad agire dell’Agenzia a pretendere un nuovo versamento dall’interponente qualora il datore di lavoro interposto abbia comunque provveduto a versare le ritenute d’acconto.

Giova sul punto precisare che, in relazione al periodo antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, non si è espressamente affrontato questo specifico aspetto, giacchè in relazione all’unico precedente (Cass. n. 22020/14) in cui si discuteva della rilevanza del versamento delle ritenute a opera dell’interposto, questa Corte ha ritenuto che “tale tesi – ossia l’avvenuto versamento delle ritenute – è rimasta a livello di mera enunciazione verbalistica e priva di qualsivoglia riscontro obiettivo, riportato in ricorso per la sua autosufficienza”.

11.2.- Il sostituto d’imposta, ossia il datore di lavoro, è obbligato, in forza del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23, al pagamento d’imposte in luogo di altri, ossia del lavoratore sostituito. Il sostituito si deve difatti ritenere fin dall’origine obbligato solidale al pagamento dell’imposta, sicchè anch’egli è soggetto al potere di accertamento e a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo aver eseguito la ritenuta, non l’abbia versata all’erario (Cass., ord. 12 giugno 2016, n. 13076). L’intervento del sostituto lascia inalterata la posizione del sostituito (Cass. 5 maggio 2011, n. 9867), il quale, anzi, è tenuto a versare al sostituto l’importo che manchi, qualora la ritenuta non trovi capienza, in tutto o in parte, sui contestuali pagamenti in danaro (ultimo nucleo normativo del D.P.R. n. 600 del 1973 art. 23, comma 1). L’imposta grava difatti sul reddito del lavoratore sostituito, di modo che il datore di lavoro sostituto è obbligato al pagamento giustappunto al fine di agevolare la riscossione e di evitare l’evasione.

Il versamento delle ritenute da parte di un terzo, qual è l’interposto, ne consente la riscossione e scongiura, almeno in quel caso, l’evasione.

11.3.- Vero è, come ha sostenuto questa Corte nelle occasioni sopra indicate, che non è configurabile in questi casi doppia imposizione; ma non è ravvisabile interesse giuridicamente rilevante a sostenere la pretesa di ottenere versamenti già avuti da altri.

Ciò perchè degli importi così versati il terzo interposto non potrebbe chiedere il rimborso al fisco, non sussistendo con esso alcun rapporto tributario, proprio perchè l’unico soggetto passivo dell’obbligo di ritenuta è il datore di lavoro interponente.

Nè il terzo potrebbe utilmente esperire un’ordinaria azione di ripetizione dell’indebito: vi osterebbe la combinazione dell’art. 2036 c.c., comma 1 e 3 (a norma dei quali, rispettivamente, “chi ha pagato un debito altrui, credendosi debitore in base a un errore scusabile, può ripetere ciò che ha pagato, sempre che il creditore non si sia privato in buona fede del titolo e delle garanzie del credito” e “quando la ripetizione non è ammessa, colui che ha pagato subentra nei diritti del creditore”), giacchè non è possibile ravvisare errore scusabile dell’interposto, corresponsabile della violazione del divieto d’intermediazione, sanzionata come contravvenzione dalla L. n. 1369 del 1960: non è ipotizzabile che l’interposto ignori, al cospetto di un contratto di appalto non genuino del quale è parte, che l’effettivo datore di lavoro, e, quindi, l’effettivo obbligato, non è lui, ma è l’interponente (per l’applicazione di analoghi principi con riguardo all’adempimento, da parte dell’interposto, degli obblighi retributivi e contributivi, vedi Cass. 8 febbraio 2017, n. 3368 e sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990).

11.4. – Nemmeno si potrebbe fare applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, u.c., a norma del quale “Le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del comma terzo, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso”.

La norma in esame ha la funzione di attribuire l’onere del pagamento delle imposte a chi è l’effettivo titolare dei redditi (in termini, Cass. 19 ottobre 2018, n. 26415); nel caso in esame, invece, il titolare del reddito non è l’interponente, ma è, ed è sempre stato, il lavoratore. Occorre, quindi, accertare in qual misura, se satisfattiva o no, le società 2Effe e Dieffe abbiano versato le ritenute d’acconto, poichè è insufficiente sul punto l’assertiva affermazione contenuta in sentenza concernente l’avvenuto versamento, senza ulteriori specificazioni.

Inconferente è, infine, il laconico riferimento contenuto in ricorso all’apparenza del diritto: il codice civile disciplina sì la ripetibilità del pagamento, ma di quello ottenuto dal creditore apparente e nei confronti del vero creditore (art. 1189, comma 2).

Va quindi esclusa la ripetibilità di quanto versato dall’interposto.

11.5.- A diverse conclusioni si deve pervenire in relazione al periodo successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, in aderenza, per quest’aspetto, a quanto stabilito da Cass. n. 25014/15, cit.

La configurabilità dell’obbligo di ritenuta e, quindi, della sostituzione d’imposta implica l’instaurazione del rapporto di lavoro, in virtù del quale il datore di lavoro assume la qualità di sostituto dei lavoratori sostituiti.

Poichè, tuttavia, nelle ipotesi di appalto non genuino, perchè sia costituito il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’interponente occorre l’iniziativa giudiziale del lavoratore, in base all’art. 29 del D.Lgs. n. 276 del 2003, che richiama sul punto il comma 2 del precedente art. 27, in mancanza di tale iniziativa nessun rapporto di lavoro s’instaura e, quindi, nessuna sostituzione si configura. Per conseguenza, nessun obbligo di ritenuta insorge in testa all’interponente (diversamente da quanto, invece, affermato da Cass., ord. n. 19966/18).

11.6.- Giova inoltre precisare che, quand’anche si fossero instaurati i rapporti di lavoro per effetto delle iniziative giudiziali a tanto volte, comunque sarebbe occorso accertare che non vi fossero stati pagamenti da parte degli interposti, in base all’art. 27, comma 2, del D.Lgs. n. 276 del 2003, richiamato dall’art. 29, a norma del quale “Nelle ipotesi di cui al comma 1 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione” (ne fa applicazione, in particolare, Cass., sez. un., n. 2990/18, cit.).

11.7.- Per quest’aspetto, quindi, va affermato il seguente principio di diritto:

“In caso di violazione del divieto d’intermediazione di manodopera, va escluso l’interesse ad agire dell’Agenzia a richiedere il pagamento delle ritenute d’acconto al datore di lavoro interponente, qualora quello interposto le abbia già versate, giacchè tale versamento non è suscettibile di rimborso o di ripetizione; nel regime successivo all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, invece, poichè l’obbligo di ritenuta sui redditi di lavoro dipendente postula, da un lato, l’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore, e dall’altro, i mancati pagamenti del somministratore, l’omessa costituzione del rapporto di lavoro su iniziativa dei lavoratori, nei casi prescritti dall’art. 27 del suddetto decreto, richiamato dal successivo art. 29, impedisce comunque l’insorgenza in capo all’interponente dell’obbligo di operare le ritenute”.

12.- In definitiva, in accoglimento del ricorso, la sentenza va cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia in diversa composizione.

12.1.- Ne risulta esclusa in radice la rilevanza della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23, sollevata dalla difesa della contribuente.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia-Giulia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 12 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2018

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