Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31690 del 04/12/2019

Cassazione civile sez. II, 04/12/2019, (ud. 10/10/2019, dep. 04/12/2019), n.31690

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Gianluca – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N. R.G. 20230/16) proposto da:

C.C., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e difeso, in forza

di procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Roberto Gaetani

ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Maria

Campolunghi, in Roma, c.so V. Emanuele, 287;

– ricorrente –

contro

A.M., (C.F.: (OMISSIS)) e S.P. (C.F.:

(OMISSIS)), rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale a

in calce al controricorso, dall’Avv. Alberto Cerioni ed

elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv. Massimo Serra,

in Roma, v. del Consolato, n. 6;

– controricorrenti –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona n. 130/2016,

depositata il 2 febbraio 2016 (non notificata);

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10

ottobre 2019 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Mistri Corrado, che ha concluso per la dichiarazione

di inammissibilità del ricorso e, in subordine, per il suo rigetto;

uditi l’Avv. Roberto Gaetani per il ricorrente e l’Avv. Alberto

Cerioni per i controricorrenti.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Con un primo atto di citazione C.C., premesso di essere proprietario di un appartamento sito in (OMISSIS) ((OMISSIS)), conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Ancona, Ac.Ca., Ac.An.Ma. e G.S., nella qualità di eredi di Ac.At., chiedendo l’accertamento della insussistenza di una servitù a carico della sua suddetta proprietà immobiliare in conseguenza dell’esecuzione di opere edili in violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni e dai confini, instando per la riduzione in pristino, nonchè l’accertamento della inesistenza di una servitù di corridoio condominiale, con derivante rimozione delle tubazioni ivi installate dai convenuti.

Con successivo atto di citazione del giugno 2001 lo stesso C.C. conveniva, dinanzi al medesimo Tribunale, A.M. e S.P., nella loro rispettiva qualità di usufruttuaria e nudo proprietario dello stesso immobile, che essi avevano acquistato dagli originari convenuti Ac..

L’ A. e lo S. si costituivano in giudizio resistendo alla domanda e chiamando in giudizio i tre loro danti causa.

I processi venivano riuniti e l’adito Tribunale, con sentenza non definitiva n. 886/2007, dichiarava l’inammissibilità della presumibile – ma non formalizzata – domanda di manleva ex art. 1485 c.c. avanzata dai convenuti A.M. e S.P. nei confronti di Ac.Ca., Ac.An.Ma. e G.S..

A.M. e S.P. impugnavano immediatamente la suddetta sentenza e il giudizio di primo grado proseguiva per la decisione sulle ulteriori domande.

Con sentenza definitiva n. 1410/2009, il Tribunale di Ancona, all’esito dell’esperita istruzione probatoria (nel corso della quale veniva espletata anche c.t.u.), dichiarava l’inammissibilità di ogni eccezione di intervenuta usucapione, della pretesa ricondotta al citato art. 1485 c.c. nonchè di ogni domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale nei riguardi dell’attore. Di contro, accoglieva la domanda del C. e, per l’effetto, ordinava la demolizione del corpo di fabbrica abusivamente realizzato con conseguente ripristino dello stato dei luoghi; disponeva, altresì, che – per il caso di mancata ottemperanza all’indicato ordine da parte dei convenuti – i lavori di bonifica ambientale dovessero essere espletati sotto la direzione del secondo c.t.u., avvalendosi di impresa di sua fiducia.

La menzionata sentenza definitiva (di cui, nelle more, veniva disposta la sospensione dell’efficacia esecutiva) veniva appellata da A.M. e S.P. e, con distinto gravame, anche da Ac.Ca., mentre Ac.An. e G.S. rimanevano contumaci.

Riuniti i due giudizi di appello, con sentenza n. 130/2016 (pubblicata il 2 febbraio 2016), la Corte di appello di Ancona, in parziale accoglimento degli appelli ed in riforma dell’impugnata sentenza di prime cure, così specificamente provvedeva:

– rigettava la domanda formulata da C.C. nei confronti di Ac.Ca., Ac.An.Ma. e G.S., nonchè nei riguardi di A.M. e S.P. relativa alla rimozione del manufatto costruito in aderenza, alla eliminazione delle tubature e dell’apertura della luce a bocca di lupo;

– accoglieva la domanda proposta da C.C. nei confronti di Ac.Ca., Ac.An.Ma. e G.S., A.M. e S.P. concernente la luce aperta tra le cantine e, per l’effetto, condannava tutti questi ultimi al ripristino della luce stessa a loro cura e spese;

– condannava Ac.Ca., Ac.An.Ma. e G.S. a tenere indenni A.M. e S.P. dalle spese derivanti dall’esecuzione della sentenza;

– regolava, infine, le spese complessive dei due gradi di giudizio avuto riguardo a tutti i rapporti processuali che si erano instaurati tra le parti.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad otto motivi (suddivisi in 6 comparti di specifiche censure), al quale hanno resistito con un unico controricorso A.M. e S.P., mentre gli altri intimati Ac.Ca.Pi., Ac.An.Ma. (in proprio e quale erede di G.S., nelle more deceduta) non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

La difesa del ricorrente ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

1.1. Con il primo motivo (indicato come 1.A) il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la nullità dell’impugnata sentenza per carenza di motivazione sull’asserita “sussistenza dei requisiti di regolarità urbanistica, conseguenti all’avvenuta concessione in sanatoria”, in tal senso denunciando la violazione dell’art. 132 c.p.c..

1.2. Con la seconda doglianza (riportata sub 1.B) la difesa del C. ha prospettato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 2 in relazione all’art. 41 quinquies c.d. Legge Urbanistica, nel valutare gli effetti del condono.

In particolare, con tale doglianza il ricorrente ha inteso impugnare la sentenza di appello sul presupposto che solo in conseguenza di una concessione in sanatoria per accertamento di conformità (e non anche in caso di concessione in sanatoria per condono) si viene a determinare automaticamente la regolarità urbanistica delle opere compiute, ragion per cui la Corte di secondo grado aveva errato nel dichiarare che, per effetto del condono, fosse conseguito uno stato di regolarità urbanistica delle opere stesse.

1.3. Con la terza censura (indicata con 1.C) il ricorrente ha denunciato – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la mancata rilevazione della nullità dei due atti di appello, connotati da carente “specificazione” dei motivi, imposta dall’art. 342 c.p.c., non risultando contestato il capo della sentenza concernente l’asserita esecuzione di “lavori ulteriori”, rispetto a quanto esposto nella richiesta di condono del 19 marzo 1986, nè il capo della sentenza che aveva dichiarato la violazione della normativa urbanistica sugli interventi edilizi in “centro storico”, come rilevato dalla c.t.u. D..

1.4. Con il quarto motivo (rubricato come 2.A) il ricorrente ha dedotto – in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – che con la sentenza impugnata era stata violata la normativa urbanistica nazionale e locale, essendo stato affermato che la costruzione delle controparti fosse legittima, in quanto realizzata su una porzione di parete dell’edificio condominiale, in relazione all’art. 877 c.c., con conseguente violazione degli artt. 869, 871, 872 e 873, con riferimento agli artt. 13 e 17 Legge Urbanistica, artt. 5,24 e 25 della NTA del PRG, nonchè dell’art. 7 NTA del piano attuativo della “(OMISSIS)”.

1.5. Con la quinta doglianza (riportata sub 2.B) il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, deducendo che, con la sentenza di appello, era stato inesattamente ricostruito il fatto cui applicare la normativa urbanistica locale, avendo la Corte territoriale erroneamente ravvisato che fosse applicabile il regime della costruzione in aderenza in quanto ricadente tra “le altre zone”, previste dall’art. 5 (lett. B) delle NTA del PRG di Ancona.

1.6. Con il sesto mezzo (indicato come 3) il ricorrente ha prospettato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – un ulteriore omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, non avendo la Corte marchigiana considerato che il Condominio cui apparteneva l’immobile di esso ricorrente non fosse ab origine costruito a confine, così dovendosi G considerare difettanti i presupposti per applicare l’art. 877 c.c., sussistendo, all’epoca, una pertinenza “giardino”, che rendeva l’immobile costruito a distanza dal confine.

1.7. Con il settimo motivo (riportato come 4) il ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione dei limiti posti dagli artt. 1120 e 1102 c.c., nella parte in cui con la sentenza impugnata era stato ritenuto che i convenuti potevano aprire un nuovo accesso, sul muro condominiale, collegato alla nuova struttura abusiva, su area contigua al condominio.

1.8. Con l’ottava ed ultima censura (indicata come 5) il ricorrente ha dedotto 1/11 con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la nullità della sentenza nella parte in cui aveva omesso di pronunciare sul motivo dell’appello incidentale di esso C. concernente l’erronea liquidazione in primo grado delle spese legali del suo difensore.

2. Rileva il collegio che il primo motivo è infondato poichè non ricorre l’ipotesi della motivazione mancante o apparente della sentenza nel suo complesso e, in ogni caso, avuto riguardo al profilo dell’asserita regolarità urbanistica della costruzione del manufatto costruito in aderenza all’edificio di esso ricorrente, la Corte ha manifestato di condividere la relazione del c.t.u. – conosciuta anche dalle parti – nella parte in cui aveva verificato che l’intervenuta concessione in sanatoria aveva certificato la sussistenza dei requisiti riferibili alla suddetta regolarità, in tal senso facendo proprio il risultato di un’attività tecnico-documentale-accertativa che non abbisognava di un’argomentazione più diffusa, anche perchè trattavasi di circostanza emergente dalla citata relazione peritale nota alle parti.

2. Parimenti destituita di fondamento è la seconda censura perchè, diversamente da quanto asserito dal ricorrente, con la sentenza impugnata non è stato affatto affermato il principio che, a seguito della intervenuta sanatoria dell’opera abusiva sul piano pubblicistico, i diritti dei terzi dovessero ritenersi non tutelabili, avendo, invece, la Corte territoriale – nell’esaminare se si fosse verificata la violazione delle norme sulle distanze legali – applicato il principio pacifico che in ogni caso sarebbero rimasti salvi tali diritti.

3. Il terzo motivo è propriamente inammissibile poichè, nella sua formulazione, non risultano riportati specificamente i motivi del gravame per i quali sarebbe stato difettante il requisito prescritto dall’art. 342 c.p.c., essendosi limitata parte ricorrente a richiamare genericamente il contenuto di detti motivi (v. pag. 16 del ricorso) senza, perciò, consentire a questa Corte un adeguato controllo sull’osservanza o meno del predetto requisito (cfr. Cass. n. 20405/2006 e Cass. n. 22880/2017).

4. Ritiene il collegio che sono, invece, fondati il quarto e quinto motivo, esaminabili congiuntamente siccome tra loro all’evidenza connessi, perchè sotto il distinto profilo della violazione di cui al n. 3 e di quella di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 – riguardano la medesima questione di diritto.

Occorre, invero, osservare che nell’impugnata sentenza risulta omessa la valutazione del fatto – potenzialmente decisivo – relativo alla considerazione che gli immobili dedotti in controversia ricadevano nel “centro storico”, donde si sarebbe dovuta applicare (come ritenuto, del resto, dal giudice di primo grado) la normativa specifica di cui all’art. 5 (paragrafo A) delle NTA del PRG e non anche quella di cui alle disposizioni dello stesso articolo riguardanti le costruzioni “le altre zone”, che consentivano la realizzazione di costruzioni in aderenza (mentre la normativa per il “centro storico” prevedeva apposite distanze tra fabbricati e dal confine), con la conseguente violazione delle norme indicate specificamente nel quarto motivo.

In altri termini, la Corte marchigiana ha dato per scontato che, nel caso di specie, trovasse applicazione l’art. 5, lett. b) delle N. T.A Comune di Ancona, il cui disposto consentiva l’esecuzione di costruzioni sul confine in deroga alle distanze minime e, quindi, in aderenza ai sensi dell’art. 877 c.c., senza dar minimamente conto sul se, invece, nella fattispecie dovessero o meno applicarsi le disposizioni più rigorose in materia di edilizia stabilite dall’art. 5 (paragrafo A) delle NTA del PRG per gli interventi da realizzare in centro storico (ambito nel quale si assume ricadere “(OMISSIS)”), in cui erano vietate le costruzioni in aderenza, invece possibili “in altre zone diverse” (per come risultante dal testo delle previsioni del citato strumento urbanistico specificamente riportate in ricorso).

Ciò rinviene il suo presupposto nel principio generale – stabilito dall’art. 873 c.c. – della derogabilità alle distanze legali mediante la previsione di distanze maggiori nei regolamenti locali validamente approvati ed efficaci.

Del resto è risaputo, in via generale, che la legittimità della costruzione in aderenza sussiste solo se la possibilità di costruire sul confine è contemplata dal regolamento edilizio, mentre è da escludere ove questo – pur se nulla dispone per lo “ius aedificandi” in aderenza a preesistenti fabbriche aliene prescriva una determinata distanza dal confine, così impedendo l’operatività del principio della prevenzione.

Era, quindi, necessario che la Corte territoriale accertasse compiutamente la disciplina regolamentare edilizia locale – tenendo conto della zona in cui ricadevano gli immobili di proprietà delle parti in causa e delle loro caratteristiche sul piano strutturale, logistico e temporale – per rilevare l’effettiva fondatezza o meno delle ragioni delle controparti del C..

L’accoglimento del quarto e quinto motivo implica l’assorbimento del sesto siccome relativo a questione dipendente dal riesame di quelli ritenuti fondati e valutabile, in sede di rinvio, solo nel caso in cui si escluda l’applicazione delle norme edilizie stabilite dall’art. 5 (paragrafo A) delle NTA del PRG, con la conseguente possibile applicabilità della disciplina in tema di costruzioni in aderenza.

5. Ad avviso del collegio va ritenuto fondato anche il settimo motivo.

Il giudice di appello è, invero, incorso nelle dedotte violazioni poichè ha ritenuto legittima la nuova apertura realizzata da Ac.Ca., modificativa della facciata condominiale, facendo erroneamente applicazione dell’art. 1120 c.c. (concernente, però, le innovazioni deliberabili con le prescritte maggioranze in ambito condominiale), anzichè applicando correttamente l’art. 1102 c.c., il quale consente al singolo comunista di porre in essere un maggior uso della cosa comune a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti alla comunione pari uso.

Infatti, nel caso di specie, si sarebbero dovuti considerare difettanti i presupposti contemplati dall’art. 1120 c.c. dal momento che l’apertura sulla parere condominiale aveva messo in collegamento l’edificio condominiale con una diversa unità abitativa, sita in una contigua area non condominiale, donde ne era conseguita la creazione di un nuovo accesso all’unità riaccorpata che aveva determinato la contestuale chiusura della presa d’aria di cui godeva la proprietà del C., così venendosi a configurare la violazione dell’art. 1102 c.c., poichè era risultato impedito al ricorrente di fruire del pari uso della parete (per un caso analogo v. Cass. n. 15024/2013).

A tal proposito va ricordato che, in tema di condominio negli edifici, le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte.

Deve, altresì, riaffermarsi il principio (al quale dovrà attenersi il giudice di rinvio) secondo cui l’esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall’art. 1102 c.c., deve esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa stessa e non può essere esteso, quindi, per il vantaggio di altre e diverse proprietà esclusive del medesimo condomino perchè, in tal caso, si verrebbe ad imporre una servitù sulla “res” comune in favore di beni estranei alla comunione, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i comproprietari (cfr. Cass. n. 944 del 2013 e Cass. n. 5132/2019).

6. In definitiva, alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte, vanno rigettati i primi tre motivi, accolti il quarto, quinto e settimo, nel mentre devono ritenersi assorbiti il sesto (per quanto precedentemente chiarito) e l’ottavo, siccome riguardante un profilo accessorio involgente una pronuncia sulle spese giudiziali.

Di conseguenza, la sentenza va cassata in relazione alle censure ritenute fondate e la causa va rinviata alla Corte di appello di Ancona che, oltre a prendere in esame i fatti potenzialmente decisivi illustrati nell’affrontare il quarto e quinto motivo (applicando la conseguente disciplina giuridica) e a conformarsi al principio di diritto enunciato in esito all’esame del settimo motivo, provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie quarto, quinto e settimo motivo, rigetta i primi tre e dichiara assorbiti il sesto e l’ottavo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2019

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