Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31659 del 04/12/2019

Cassazione civile sez. I, 04/12/2019, (ud. 10/07/2019, dep. 04/12/2019), n.31659

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13500/2015 proposto da:

Italfondiario S.p.a., nella qualità di mandataria della Castello

Finance s.r.l., nonchè nella qualità di mandataria di Intesa

Sanpaolo s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via di Villa Grazioli n. 15,

presso lo studio dell’avvocato Gargani Benedetto, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato Gargani Guido, giuste procure in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

S.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Angelo

Brofferio n. 3, presso lo studio dell’avvocato Corda Tommaso

Antonio, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

contro

Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio Soc. Coop., in

amministrazione straordinaria, in persona dei commissari

straordinari pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via G.

Galilei n. 45, presso lo studio dell’avvocato Russo Augusto, che la

rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4076/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 17/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/07/2019 dal cons. Dott. FIDANZIA ANDREA;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS STANISLAO che ha chiesto che

la Corte dichiari inammissibile (o in subordine infondato) il primo

motivo, con assorbimento del secondo. Conseguenze di legge.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 17 giugno 2014 la Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado con cui il Tribunale di Roma ha rigettato le domande proposte da Intesa San Paolo s.p.a. (cui nel giudizio d’appello è subentrata la sua mandataria Italfondiario s.p.a.) nei confronti di Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio società cooperativa a r.l. e di S.M. – già curatore della procedura fallimentare della (OMISSIS) s.r.l., dichiarata chiusa nel 2001 – allo scopo di ottenerne la condanna al pagamento della somma di Euro 166.262,49 (corrispondenti a vecchie Lire 321.913.000) rispettivamente a titolo di ripetizione dell’indebito e/o arricchimento senza causa e risarcimento del danno.

A sostegno delle proprie domande Intesa San Paolo s.p.a. aveva preliminarmente affermato di essere divenuta cessionaria nel corso del 1999 di crediti in sofferenza vantati dal Banco Ambrosiano Veneto nei confronti della fallita per un importo di Lire 537.685.864, assistiti da garanzia ipotecaria iscritta in data 17 febbraio 1993, e di aver ricevuto il pagamento di sole Lire 97.797.000, pari al 23,3% dell’attivo fallimentare, in quanto la restante percentuale del 76,7% dell’attivo era stata attribuita alla Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, anch’essa ammessa al passivo in via privilegiata ipotecaria per un importo maggiore.

Intesa San Paolo s.p.a. aveva precisato di aver adito le vie legali, avendo a distanza di tempo accertato che l’iscrizione della propria ipoteca era antecedente a quella eseguita dall’altra azienda bancaria, circostanza che avrebbe imposto al curatore di predisporre un diverso piano di riparto e di assegnare integralmente all’attrice le somme costituenti l’attivo fallimentare.

La Corte d’Appello di Roma aveva evidenziato che, con riferimento alla domanda proposta dall’appellante nei confronti della Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, delle argomentazioni svolte dal Tribunale di Roma nel dichiarare improponibile, oltre che infondata la domanda, era stata oggetto di censura nei motivi d’appello solo quella secondo cui l’azione di arricchimento senza causa avanzata nei confronti della banca creditrice concorrente avrebbe potuto essere proposta solo in sede endofallimentare. L’appellante non aveva invece formulato specifiche contestazioni nei confronti dell’altra affermazione del giudice di primo grado, ovvero che il pregiudizio derivante dall’errore nel piano di riparto era stato patito solo dalla cedente Banco Ambrosiano Veneto s.p.a. e non dalla cessionaria, avendo l’appellante omesso di indicare le ragioni per le quali la parte danneggiata sarebbe stata, invece, essa cessionaria e non la cedente.

La Corte d’Appello di Roma aveva altresì rilevato, con riferimento alla domanda svolta nei confronti del S., che l’affermazione del Tribunale in ordine alla mancanza di un nesso di causalità tra la condotta (pure colposa) del curatore ed il danno denunziato era stata impugnata con un motivo di gravame non connotato da sufficiente specificità a norma dell’art. 342 c.p.c..

In particolare, la questione su cui l’appellante avrebbe dovuto soffermarsi non era la inconfigurabilità di una ingiustificata ed aprioristica esimente del curatore quanto le ragioni per le quali non poteva essere condivisa la valutazione del Tribunale che aveva ritenuto interrotto il nesso di causalità tra la pur affermata condotta colposa e l’evento alla luce della reiterata ed ingiustificabile inerzia del Banco Amborosiano Veneto, che aveva omesso di formulare osservazioni al progetto di riparto e non aveva successivamente assunto le iniziative volte a far eliminare l’errore contenute nel piano.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione Italfondiario s.p.a. quale mandataria di Intesa San Paolo s.p.a. affidandolo a due motivi.

La Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio si è costituita in giudizio con controricorso.

Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta.

La ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo Italfondiario s.p.a. ha dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e artt. 112 e 342 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’omesso esame ovvero l’errata interpretazione della sentenza di primo grado, infine, l’omesso esame di un motivo d’appello.

Lamenta la ricorrente che, a differenza di quanto affermato dalla sentenza impugnata, aveva compiutamente censurato l’argomentazione del Tribunale secondo cui non poteva lamentare un pregiudizio nella vicenda in oggetto per non essersi Intesa Gestione Crediti insinuata a sua volta (come la cedente) al passivo fallimentare.

In realtà, tale affermazione era stata espressamente censurata nell’atto di appello alle pagg. da 11 a 13, nelle quali aveva evidenziato che il cessionario sarebbe stato tenuto ad insinuare il proprio credito al passivo solo ove avesse inteso far valere la propria pretesa nei confronti della massa, ipotesi estranea al caso di specie in cui aveva agito nei confronti di uno dei creditori erroneamente risultato assegnatario di somme non dovute.

Peraltro, la ricorrente evidenzia che sin dal primo atto difensivo Intesa Gestione Crediti s.p.a. aveva precisato che la cessione dei crediti era avvenuta nel 1999 e quindi prima del deposito del piano di riparto (che è del 6 ottobre 2000).

Pertanto, anche ove la sentenza di appello avesse voluto affermare che la cessionaria non aveva subito danni per aver acquistato un credito di importo corrispondente a quanto assegnato con il piano di riparto (Euro 97.797.0000), la stessa sarebbe comunque incorsa in errore proprio perchè la cessionaria aveva acquisito il credito prima del deposito del piano di riparto.

2. Il motivo è infondato.

Va osservato che dall’esame dei passaggi dell’atto di appello, come ritrascritti dalla ricorrente (in ossequio al principio di autosufficienza) nel ricorso, emerge che effettivamente le censure svolte nei motivi di gravame dall’appellante – con riferimento alle statuizioni della sentenza di primo grado riguardanti l’azione di restituzione dell’indebito e, in subordine, di ingiustificato arricchimento – erano connotate da una sufficiente specificità.

La ricorrente ha specificamente censurato le argomentazioni con le quali il giudice di primo grado aveva rigettato le sue domande – sintetizzabili nella inerzia da parte del creditore insoddisfatto nel far valere le proprie in sede di piano di riparto, nel difetto di un pregiudizio giuridicamente rilevante da parte della banca cessionaria, non essendosi insinuata allo stato passivo della procedura fallimentare – evidenziando che non aveva inteso far valere la propria pretesa nei confronti della massa, ma in separata sede nei confronti del creditore concorrente.

Appaiono, quindi, eccessivamente rigorose le argomentazioni con cui il giudice di secondo grado – che, peraltro, ha soltanto rigettato l’appello e non lo ha dichiarato inammissibile – ha ritenuto non rispettato il requisito della specificità dei motivi di gravame.

Va, tuttavia, osservato che se è pur vero il giudice di secondo grado non ha specificamente risposto alle censure svolte (in diritto) nei motivi d’appello nei confronti della sentenza di primo grado (sempre con riferimento alla statuizioni riguardanti le domande di restituzione dell’indebito e di ingiustificato arricchimento), ciò non determina automaticamente per la sentenza impugnata delle conseguenze.

E’, infatti, orientamento consolidato di questa Corte che ove la Corte di merito non si sia pronunciata su una questione di diritto (e che non richieda ulteriori accertamenti in fatto), l’omessa pronuncia non rileva in sè, dando luogo all’automatica cassazione della sentenza impugnata, dovendosi accertare caso per caso se la questione fosse comunque inammissibile o infondata, determinandosi, in questi casi, l’inutilità del ritorno della causa nella fase di merito.

Ciò risponde ai principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi (Cass. n. 16171 del 28/06/2017).

Nel caso di specie, la questione di diritto sottoposta all’attenzione dei giudici di merito non era meritevole di accoglimento.

La problematica giuridica sottesa alla presente vicenda processuale riguarda la stabilità o meno degli effetti della procedura fallimentare che non è altro che una procedura esecutiva collettiva – e la conseguente ammissibilità di una domanda di ripetizione dell’indebito o, in subordine, di arricchimento proposta da un creditore insoddisfatto nei confronti di altri creditori concorrenti ai quali si rimprovera di aver percepito più del dovuto in sede di ripartizione dell’attivo.

Va, preliminarmente, osservato che questa Corte, relativamente alla procedura esecutiva individuale, ha già, in passato, affermato il principio della stabilità degli effetti (vedi Cass. n. 7037/2003).

In particolare, è stato affermato nella parte motiva della predetta sentenza che, avuto riguardo alla natura giuridica ed alla disciplina del processo esecutivo, se è pur vero che la legge non attribuisce efficacia di giudicato al provvedimento conclusivo del procedimento esecutivo – non connotandosi come provvedimento di merito avente contenuto decisorio – tuttavia, la definitività degli risultati dell’esecuzione, oltre a derivare dalla irrevocabilità dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione, una volta che essi abbiano avuto esecuzione (art. 487 c.p.c.), è insita nella chiusura di un procedimento svoltosi con il rispetto di forme idonee a salvaguardare gli interessi contrapposti delle parti, nell’ambito del quale sono previsti strumenti processuali (come l’opposizione agli atti esecutivi o l’opposizione all’esecuzione) finalizzati ad assicurare il controllo della legittimità della procedura, non solo dal punto vista formale o procedurale, ma anche sostanziale.

La stabilità degli effetti si fonda sul concetto di preclusione, che è più ampio rispetto a quello di giudicato. E’ quindi evidente che se dopo la conclusione dell’esecuzione e della scadenza dei termini per le relative opposizioni, si ammettessero azioni – come quella di ripetizione dell’indebito o di arricchimento – volte a contrastare gli effetti dell’esecuzione (sostanzialmente ponendoli nel nulla o limitandoli), ci si porrebbe in contrasto sia con i principi ispiratori del sistema, sia con le regole specifiche relative ai modi ed ai termini delle opposizioni esecutive.

Nella sentenza sopra citata, è stato condivisibilmente osservato che ammettere la ripetizione dell’indebito (o l’azione di arricchimento ingiustificato) vorrebbe dire presupporre che sia possibile riqualificare, mediante un diretto ed esclusivo riferimento alle norme di diritto sostanziale regolanti i rapporti tra le parti, i fatti che si sono storicamente verificati come momenti del procedimento esecutivo, vorrebbe quindi dire ammettere un’azione costituente un’impropria contestazione dell’esecuzione ormai irrevocabilmente compiuta.

Alle medesime conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla procedura fallimentare che, come già anticipato, è una procedura esecutiva collettiva.

Si tratta di una procedura caratterizzata, come quella esecutiva individuale, da una serie di scansioni procedimentali ben determinate ed assimilabili a quelle della procedura esecutiva individuale, con una piena equiparazione dei mezzi di tutela offerti agli interessati avverso i provvedimenti del giudice delegato, (reclamo L. Fall., ex art. 26), a quelli esperibili nell’ambito del procedimento di esecuzione forzata (opposizione agli atti esecutivi) (vedi Cass. n. 1610 del 22/01/2009; Cass. n. 19667 del 13/09/2006).

Nel caso di specie, come evidenziato dal giudice di primo grado, il cessionario del credito avrebbe dovuto esperire contro il piano di riparto gli strumenti processuali a sua disposizione (osservazioni al piano di riparto L. Fall., ex art. 110, comma 2 previgente e L. Fall., art. 26), previa proposizione della domanda tardiva di ammissione del proprio credito.

In proposito, secondo orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 8983/1992, n. 13221/1991 e n. 2999/1991), nel vigore della L. Fall., art. 115 previgente, era, infatti, necessaria l’insinuazione al passivo del creditore cessionario.

Tuttavia, il creditore cessionario – che aveva acquistato il credito dal Banco Ambrosiano Veneto s.p.a. nel 1999, un anno prima della predisposizione del progetto di riparto – è rimasto completamente inerte, non insinuandosi al passivo, nè attivandosi (anche indirettamente) contro le statuizioni contenute nel piano di riparto. Ne consegue che l’istituto non può pretendere di rimettere successivamente in discussione la definitività degli effetti di una procedura fallimentare ormai conclusa.

Nè può rilevare – come invocato dalla ricorrente – che il creditore insoddisfatto, abbia inteso proporre le proprie domande non nei confronti della massa, ma verso il creditore concorrente, atteso che, ove si ritenessero ammissibili le domande proposte dal creditore insoddisfatto, vorrebbe dire porre comunque nel nulla gli atti del procedimento fallimentare che sono ormai divenuti inoppugnabili, riqualificando in altra sede rapporti giuridici che erano ormai già ben definiti.

In conclusione, anche nella procedura fallimentare, a seguito dell’approvazione del piano di riparto, della mancata impugnazione dello stesso nei termini di legge, e, infine, della chiusura della procedura fallimentare, matura a carico dei creditori concorrenti una vera e propria preclusione a far valere in separato giudizio le proprie ragioni attinenti a rapporti giuridici ormai definiti nell’ambito della stessa procedura, con conseguente inammissibilità sia della domanda di restituzione dell’indebito che di quella di ingiustificato arricchimento svolte in separato giudizio.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Lamenta la ricorrente che il Tribunale aveva operato un riferimento solo alla “negligenza” di Intesa Gestione Crediti nel non presentare osservazioni al piano di riparto e nel non presentare domanda di insinuazione tardiva, non essendosi lo stesso mai espresso in termini di una ritenuta interruzione del nesso causale dovuta alla mancata formulazione di osservazioni al piano di riparto da parte del Banco.

Il riferimento incidentale contenuto nella sentenza di primo grado alla banca cedente che avrebbe potuto opporsi al piano non condizionava in alcun modo la ratio decidendi che aveva condotto il primo giudice al rigetto della domanda, ma poteva essere tutt’al più interpretato come un’argomentazione rafforzativa (come tale superflua e giuridicamente irrilevante) ai fini della censurabilità della decisione.

4. Il motivo è infondato.

La banca ricorrente censura l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui lo stesso istituto di credito non aveva nei motivi d’appello contestato la ratio decidendi della sentenza di primo grado, secondo cui il non avere il Banco Ambrosiano Veneto svolto osservazioni al piano di riparto aveva determinato l’interruzione del nesso di causalità tra la condotta colposa del curatore e l’evento dannoso.

Tale contestazione non appare meritevole di accoglimento.

La stessa banca ha riportato il seguente passaggio della sentenza di primo grado (pag. 23 del ricorso): ” La domanda, da qualificarsi ex art. 2043, va quindi respinta anche nei confronti del curatore fallimentare poichè l’erroneità del piano di riparto avrebbe potuto essere fatta valere solo dal Banco Ambrosiano Veneto e non dall’attrice priva della necessaria qualità di creditore concorsuale ed il danno non è derivato dalla condotta colposa del curatore, ma dalla negligenza della stessa Intesa Gestione Crediti”. La ratio decidendi del Tribunale di Roma è quindi che il creditore concorrente con Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio – ovvero il Banco Ambrosiano Veneto o chi gli era succeduto nel credito, previa insinuazione al passivo avrebbe dovuto presentare osservazioni all’errato piano predisposto dal curatore; in difetto di tali osservazioni, il curatore è esonerato da ogni responsabilità. Il giudice di primo grado ha, in sostanza, fatto applicazione del principio sancito dall’art. 1227 c.c., comma 2, secondo cui il risarcimento del danno non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.

Questa è la ratio decidendi del giudice di primo grado, che la banca non ha, in effetti, provveduto a censurare, e che la Corte d’Appello non ha affatto stravolto, come dedotto dallo stesso istituto di credito nel proprio ricorso.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 1 5 % ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2019

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