Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31651 del 04/12/2019

Cassazione civile sez. I, 04/12/2019, (ud. 27/06/2019, dep. 04/12/2019), n.31651

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23577/2015 R.G. proposto da:

FALLIMENTO (OMISSIS) S.R.L., in persona del curatore p.t. Dott.

P.D., rappresentato e difeso dagli Avv. Arturo Antonucci e

Roberto Vassalle, con domicilio eletto presso lo studio del primo in

Roma, corso Trieste, n. 87;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A., in persona del legale

rappresentante p.t. B.E., rappresentata e difesa

dall’Avv. Prof. Umberto Morera, con domicilio eletto in Roma, largo

G. Toniolo, n. 6;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia n. 236/15,

depositata il 25 febbraio 2015;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 giugno

2019 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La (OMISSIS) S.r.l., già intestataria di cinque conti correnti (nn. (OMISSIS)) presso la Banca Agricola Mantovana S.p.a., agenzia di (OMISSIS), e titolare di un’apertura di credito di Lire 600.000.000, garantita da ipoteca volontaria fino a concorrenza di Lire 1.350.000.000, convenne in giudizio la Banca, per sentire a) rideterminare il saldo finale dei conti, previa dichiarazione b) dell’illegittimità degl’interessi debitori, principali ed anatocistici, e delle commissioni addebitate nel corso dei rapporti, anche in conseguenza di una distorta applicazione delle valute, c) del carattere usurario degl’interessi applicati sull’apertura di credito e sul conto n. (OMISSIS), d) della nullità dei rapporti nn. (OMISSIS) e delle relative aperture di credito, nonchè di un finanziamento di Lire 200.000.000 concesso il 2 luglio 1997 ed estinto il 7 agosto 1997, per inosservanza del requisito della forma scritta nella stipulazione dei contratti, e e) dell’illiceità del comportamento tenuto dalla Banca, con f) la condanna della stessa al risarcimento dei danni.

Si costituì la Banca, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

Nel giudizio, dichiarato interrotto a seguito della fusione della BAM con il Monte dei Paschi di Siena S.p.a., e riassunto nei confronti di quest’ultimo, spiegò intervento la Nuova Banca Agricola Mantovana S.p.a., in qualità di cessionaria dell’azienda bancaria.

1.1. Con sentenza del 16 giugno 2008, il Tribunale di Mantova accolse parzialmente la domanda, a) dichiarando non dovuti gl’interessi ultralegali e la commissione di massimo scoperto addebitati sui conti nn. (OMISSIS), e b) gl’interessi passivi ultralegali, principali ed anatocistici, e la commissione di massimo scoperto addebitati sui conti nn. (OMISSIS), (OMISSIS), c) dichiarando dovuti gl’interessi creditori al tasso legale sul conto n. (OMISSIS), d) dichiarando nullo il contratto di finanziamento e non dovuti i relativi interessi e commissioni, addebitati sul conto n. (OMISSIS), e e) condannando la Nuova BAM al pagamento della somma di Euro 132.817,51, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

2. Sull’appello proposto dalla (OMISSIS) nei confronti della Banca MPS, che propose appello incidentale, in qualità di società incorporante della BAM, il giudizio fu nuovamente dichiarato interrotto, per la dichiarazione di fallimento dell’attrice, e riassunto dal curatore.

2.1. Con sentenza del 25 febbraio 2015, la Corte d’appello di Brescia ha rigettato l’appello principale ed accolto parzialmente quello incidentale, rideterminando la somma dovuta dalla Banca in Euro 109.758,49, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

A fondamento della decisione, la Corte ha confermato innanzitutto la validità dei contratti di apertura di credito relativi ai conti nn. (OMISSIS), osservando che gli stessi richiamavano le norme registrate a Mantova l’8 novembre 1988, che all’art. 6 disciplinavano il contratto di apertura di credito, e richiamando la delibera del CICR del 4 marzo 2003 ed il D.M. 24 aprile 1992, nonchè le istruzioni della Banca d’Italia che escludevano la necessità della forma scritta nel caso in cui, come nella specie, l’apertura di credito fosse già prevista da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto. Ha confermato inoltre la validità dei contratti relativi ai conti nn. (OMISSIS), nonostante la mancata sottoscrizione dei moduli da parte della Banca, rilevando che gli stessi, pur risultando formulati come dichiarazioni unilaterali del cliente, erano stati sottoscritti da entrambe le parti, e ritenendo ininfluente, in assenza di una diversa manifestazione di volontà della Banca, la circostanza che la sottoscrizione di quest’ultima fosse stata apposta per convalida delle firme, alla quale ha attribuito l’ulteriore effetto di attestare la verifica dell’autenticità delle firme dei rappresentanti della correntista. Ha aggiunto che la produzione in giudizio dei contratti da parte della Banca ne aveva comportato il perfezionamento, non avendo l’attrice manifestato precedentemente la volontà di revocare il proprio consenso, ed avendo i contratti avuto esecuzione.

La Corte ha poi confermato che il diritto della correntista agl’interessi creditori risultava prescritto fino all’8 giugno 1995, ritenendo ingiustificata l’insistenza dell’appellante sull’applicabilità della prescrizione decennale, in luogo di quella prevista dall’art. 2948 c.c., n. 4, ed osservando che, poichè il relativo accredito costituisce un pagamento effettuato dalla banca in favore del correntista, il diritto di quest’ultimo non sorge alla chiusura del rapporto, ma alle cadenze in cui gl’interessi devono essere accreditati, con la conseguenza che la prescrizione decorre da tale momento.

Ha ritenuto invece generiche le censure riguardanti la legittimità delle valute, in quanto non corredate da specifici richiami alle annotazioni contestate, ed aventi pertanto carattere esplorativo. Ha confermato che la dichiarazione di nullità del finanziamento di Lire 200.000.000 imponeva la depurazione di tutti i conti correnti sui quali aveva inciso dagli effetti positivi e negativi per il cliente, ai fini della determinazione del giusto saldo finale, richiesta dall’attrice. Ha ritenuto altresì corretta la riliquidazione dei conti, effettuata dal c.t.u. mediante l’eliminazione di ogni effetto anatocistico.

La Corte ha reputato altresì generiche le censure riguardanti l’esclusione del delitto di estorsione, ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni, rilevando che l’attrice non aveva fornito la prova delle minacce asseritamente formulate dalla Banca per indurla a concedere una seconda ipoteca; premesso che quest’ultima era volta a sostituire la garanzia pignoratizia che assisteva il prestito ipotecario, realizzata il 31 agosto 1987, ha ritenuto irrilevante la circostanza che tale garanzia non fosse menzionata nell’atto pubblico di concessione del prestito, non potendosi escludere che la stessa fosse stata rilasciata non contestualmente all’erogazione, come previsto dalla richiesta dell’apertura di credito ipotecaria; ha osservato in proposito che, non essendo stata concessa l’ipoteca in aggiunta, ma in sostituzione del pegno su titoli, la prospettata revoca degli affidamenti, in caso di mancata concessione della seconda ipoteca, costituiva esercizio di un diritto cui era estraneo ogni profilo minatorio, oltre a non aver arrecato alcun ingiusto profitto alla Banca. Ha escluso inoltre che la responsabilità della Banca fosse stata dimostrata in riferimento alle lamentate segnalazioni alla Centrale dei rischi, rilevando che la sentenza di primo grado aveva tenuto conto anche della produzione in giudizio di una lettera della Banca d’Italia attestante le segnalazioni inviate dalla Banca, da cui emergeva che non era stato segnalato alcun ulteriore credito, rispetto a quello garantito dall’ipoteca.

Quanto all’appello incidentale, premesso che la mancata impugnazione degli estratti conto inviati dalla Banca nel termine semestrale di cui alla L. 17 febbraio 1992, n. 154, art. 8 precludeva solo la contestazione delle relative annotazioni contabili, e non anche quella della validità delle sottostanti operazioni, la Corte ha confermato l’illegittimità della capitalizzazione trimestrale degl’interessi passivi, richiamando l’indirizzo giurisprudenziale che la ritiene espressione di un uso negoziale inidoneo a derogare al divieto posto dall’art. 1283 c.c., avente carattere imperativo, ed escludendo che il ricorso delle banche alla relativa clausola abbia fatto sorgere una consuetudine normativa, in assenza dell’elemento soggettivo a tal fine prescritto. Ha altresì escluso la possibilità di ritenere valida la predetta clausola ai sensi degli artt. 1825 e 1831 c.c., dichiarandoli inapplicabili alle operazioni bancarie in conto corrente, in quanto non richiamati dall’art. 1857 c.c., e ritenendo inammissibile il ricorso all’analogia, in considerazione delle differenze esistenti tra il conto corrente ordinario e quello bancario. Ha ritenuto irrilevanti, in proposito, la cadenza trimestrale, semestrale o annuale della capitalizzazione e la mancata contestazione degli estratti conto, nonchè la pubblicazione degli avvisi sintetici e dei fogli informativi, confermando quindi la correttezza della liquidazione operata, per il periodo successivo al 9 luglio 1992, in base al tasso nominale minimo dei Buoni Ordinari del Tesoro, dal momento che le operazioni attive cui si riferisce il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 117 vanno identificate in quelle attive per la banca.

La Corte ha ritenuto infine impraticabile, ai fini della determinazione dell’indebito, la rettifica del saldo iniziale dell’estratto conto relativo al periodo successivo a quello mancante tra gli estratti conto prodotti dall’attrice, osservando che quest’ultima, cui incombeva l’onere di produrre tutti gli estratti conto relativi al periodo da considerare, non vi aveva provveduto per intero, ed escludendo la possibilità di prescindere dalle operazioni di addebito ed accredito succedutesi nel periodo non documentato; ha quindi concluso per la necessità di considerare autonomi i periodi separati dall’interruzione e di equiparare a conti correnti a sè stanti le movimentazioni relative ai predetti periodi.

3. Avverso la predetta sentenza il curatore del fallimento ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, illustrati anche con memoria.

La Banca MPS ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117 censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la nullità dei contratti di apertura di credito relativi ai conti nn. (OMISSIS) per difetto della forma scritta, in virtù del riferimento all’art. 3 delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia il 24 maggio 1992, senza considerare che tale disposizione non era applicabile all’apertura di credito, la quale non costituisce nè un’operazione nè un servizio, ma un contratto del tutto autonomo rispetto al conto corrente, dal quale sorge a carico della banca l’obbligo di tenere a disposizione del correntista una determinata somma di denaro. Premesso che, in quanto strumentale all’apertura di credito, il contratto di conto corrente, anche se stipulato per iscritto, non esclude la necessità della forma scritta per la stipulazione dell’apertura di credito, osserva che nella specie i moduli dei conti correnti, pur richiamando le norme bancarie, non recavano alcun riferimento all’art. 6, il quale, peraltro, prevedeva l’apertura di credito soltanto come eventualità ipotetica e futura, al fine di disciplinarne le modalità di utilizzazione, senza indicarne gli elementi essenziali. Afferma pertanto che la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare la nullità dei contratti di apertura di credito e, per collegamento negoziale, anche dei contratti di conto corrente, in quanto aventi ad oggetto un servizio di cassa accessorio.

1.1. Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

Nell’escludere la nullità dei contratti di apertura di credito, la sentenza impugnata ha correttamente richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la L. n. 154 del 1992, art. 3, comma 3, e successivamente il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, comma 2, nella parte in cui dispongono che il CICR può prevedere che particolari contratti, per motivate ragioni tecniche, possono essere stipulati in forma diversa da quella scritta, attribuiscono a detto Comitato il potere, da questo ultimo conferito alla Banca d’Italia, di emanare disposizioni di carattere secondario che, in quanto aventi portata integrativa della legge e, nei limiti dalla stessa previsti, facoltà di derogarvi, consentono di escludere la nullità del contratto di apertura di credito non stipulato nella forma scritta richiesta ad substantiam, qualora, come previsto dalla Delib. CICR 4 marzo 2003, lo stesso risulti già disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto (cfr. Cass., Sez. I, 27/03/2017, n. 7763; 9/07/2005, n. 14470). L’applicabilità di tale principio non è esclusa, nella specie, dalla circostanza che i contratti di conto corrente siano stati stipulati in data anteriore all’emanazione della predetta Delib. CICR, essendo all’epoca vigenti le istruzioni impartite dalla Banca d’Italia con provvedimento del 24 maggio 1992, che al punto 3 dell’allegato 1 escludevano la necessità della forma scritta per le operazioni ed i servizi già previsti in contratti redatti per iscritto. La riferibilità di tale disposizione anche al contratto di apertura di credito, del quale il ricorrente contesta l’accessorietà rispetto a quello di conto corrente, trova a sua volta conferma nel principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui il collegamento del predetto contratto con il conto corrente di corrispondenza dà luogo ad un rapporto complesso, nello ambito del quale esso riveste una portata complementare rispetto al servizio di cassa gestito dalla banca per conto del cliente, rappresentando, in alternativa al versamento di somme da parte di quest’ultimo o all’accredito di importi a lui dovuti, uno dei mezzi attraverso i quali può essere costituita la disponibilità necessaria per l’effettuazione delle operazioni di pagamento e riscossione in cui consiste la prestazione principale, e configurandosi pertanto, al pari della concessione temporanea di credito (c.d. scoperto), come una modalità d’intervento della banca non eccedente i limiti del mandato conferitole (cfr. Cass., Sez. I, 5/12/2011, n. 25943; 15/12/1970, n. 2685; 8/03/1969, n. 761). La sentenza impugnata ha d’altronde accertato che la mancata stipulazione delle aperture di credito in forma scritta non si è tradotta, nella specie, nell’indeterminatezza del regolamento negoziale, il cui contenuto risultava ampiamente definito, almeno per la parte normativa, dalle norme bancarie richiamate nel contratto di conto corrente e trascritte nel ricorso per cassazione: nessun rilievo può assumere, in proposito, la circostanza che il contratto non rinviasse specificamente all’art. 6, riguardante l’apertura di credito, dal momento che la stessa costituisce normalmente soltanto uno dei servizi accessori messi a disposizione dalla banca, dei quali il correntista può avvalersi di volta in volta, secondo le proprie esigenze. Il carattere meramente ipotetico e futuro di tale utilizzazione non può considerarsi di per sè sufficiente ad escludere la portata vincolante del predetto regolamento, predisposto proprio per l’eventualità che il correntista faccia richiesta dei predetti servizi, ed avente la finalità di contemperare il rispetto del requisito formale prescritto dalla legge con le esigenze di celerità ed operatività cui deve rispondere la stipulazione di alcuni tipi di contratti (cfr. Cass., Sez. I, 9/07/2005, n. 14470); la portata vincolante dell’accordo con cui le parti si obbligano ad attribuire un determinato contenuto ai contratti di un determinato tipo che andranno successivamente a stipulare tra di loro è stata d’altronde riconosciuta da tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza, indipendentemente dalla contestualità degli atti di esecuzione, il cui successivo compimento rende operativo il regolamento negoziale preventivamente pattuito, a meno che le parti, nel legittimo esercizio della loro autonomia, non decidano di comune accordo di modificarlo. Ininfluente deve altresì ritenersi la mancata specificazione per iscritto della durata del rapporto o delle garanzie offerte, risultando evidente che, in mancanza dell’espressa pattuizione di un termine e del richiamo a garanzie reali o personali, le aperture di credito dovevano intendersi concesse a tempo indeterminato e senza alcuna garanzia. Sotto un diverso profilo, è vero che la giurisprudenza più recente, nel ribadire la validità dell’apertura di credito stipulata in forma diversa da quella scritta, ove il rapporto sia già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto, ha precisato che l’intento di agevolare particolari modalità della contrattazione non può comportare, in un’equilibrata visione degli interessi in campo, una radicale soppressione del requisito in questione, ma solo una relativa attenuazione dello stesso che, in particolare, salvaguardi la necessaria indicazione delle condizioni economiche del contratto ospitato (cfr. Cass., Sez. I, 22/11/2017, n. 27836; 7/03/ 2017, n. 9068; 27/03/2017, n. 7763). Nella specie, tuttavia, è lo stesso ricorrente a precisare che i moduli di conto corrente sottoscritti dalla società attrice rinviavano, per la determinazione della misura degl’interessi e delle valute, all’art. 7 delle norme bancarie, la cui mancata trascrizione a corredo delle censure proposte impedisce di valutare la decisività dell’errore addebitato alla sentenza impugnata, traducendosi nel difetto di specificità del motivo d’impugnazione.

2. Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., la difesa del ricorrente ha invece dichiarato di rinunciare al secondo motivo, con cui aveva dedotto, in via subordinata, la violazione dell’art. 1362 c.c. e del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117 censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini dell’esclusione della nullità dei contratti relativi ai conti nn. (OMISSIS), aveva attribuito valenza negoziale alle sottoscrizioni apposte sui moduli per convalida delle firme.

L’abbandono della censura trae origine dalla presa d’atto del contrario orientamento ormai impostosi nella giurisprudenza di legittimità, la quale, facendo applicazione di un analogo principio enunciato dalle Sezioni Unite in tema d’intermediazione finanziaria, ha affermato ripetutamente che, in materia di contratti bancari, la mancata sottoscrizione del documento contrattuale da parte della banca non determina la nullità per difetto della forma scritta richiesta dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, comma 3, trattandosi di un requisito che va inteso in senso non già strutturale, ma funzionale, in quanto posto a garanzia della più ampia conoscenza, da parte del cliente, del contratto predisposto dalla banca, e la cui mancanza risulta pertanto irrilevante, in presenza di comportamenti concludenti dell’istituto di credito idonei a dimostrare la sua volontà di avvalersi di quel contratto (cfr. Cass., Sez. Un., 16/01/2018, n. 898; Cass., Sez. I, 18/06/2018, n. 16070; 6/06/2018, n. 14646). La predetta rinuncia, che rende superflua una decisione in ordine alla fondatezza del motivo, deve ritenersi efficace anche in mancanza della sottoscrizione della parte o del rilascio di uno specifico mandato al difensore, in quanto, implicando una valutazione tecnica in ordine alle più opportune modalità di esercizio della facoltà d’impugnazione e non comportando la disposizione del diritto in contesa, è rimessa alla discrezionalità del difensore, restando pertanto sottratta alla disciplina dettata dall’art. 390 c.p.c. per la rinuncia al ricorso (cfr. Cass., Sez. I, 3/11/2016, n. 22269; 9/06/ 2011, n. 12638; Cass., Sez. V, 15/06/2006, n. 11154).

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, osservando che, nel disattendere la richiesta di depurazione del conto n. (OMISSIS) dall’addebito del finanziamento di Lire 200.000.000, la sentenza impugnata ha conferito rilievo alla proposizione della domanda di determinazione del giusto saldo finale, collegata invece ad altre domande, senza neppure tener conto della mancata impugnazione della dichiarazione di nullità del contratto di mutuo, che aveva reso privi di causa i relativi addebiti. Aggiunge che la predetta domanda era inidonea a giustificare la compensazione tra l’addebito effettuato sul conto ed il precedente accredito del capitale mutuato, peraltro non richiesta dalla Banca, che non aveva neppure formulato la domanda di ripetizione dell’indebito.

3.1. Il motivo è infondato.

La natura processuale del vizio lamentato, consistente nella pronuncia su una domanda diversa da quella proposta, consente di procedere all’esame diretto degli atti di causa, dal quale si evince che nelle conclusioni dello atto di citazione in primo grado la società attrice aveva chiesto, oltre alla dichiarazione di nullità del contratto di finanziamento e d’illegittimità del relativo addebito, non già la restituzione dell’importo addebitato, ma solo la determinazione del “giusto ed esatto saldo finale di tutti i rapporti dedotti in citazione” risultante in suo favore e la condanna della Banca “al pagamento, anche a titolo di indebito oggettivo, del medesimo saldo”. Tale domanda è stata parzialmente modificata nelle conclusioni dell’atto di appello, in cui la società attrice ha chiesto “determinarsi, anche in conseguenza di tutte le precedenti domande, il saldo finale dei medesimi conti correnti, ovvero l’ammontare degli importi illegittimamente addebitati (ivi compreso l’addebito di Lire 200.000.000 effettuato sul c/c n. (OMISSIS) il 7.8.97)”, con la condanna della Banca “al pagamento dei medesimi saldi o importi”, in tal modo individuando, accanto all’oggetto originario della propria pretesa, costituito dal pagamento del saldo dei conti correnti, un oggetto alternativo, rappresentato dal pagamento degl’importi illegittimamente addebitati, e segnatamente di quello del finanziamento. In quanto riguardante esclusivamente il petitum della domanda e non implicante un’alterazione dei fatti allegati a sostegno della stessa, la predetta modificazione avrebbe potuto anche essere annoverata tra quelle ritenute consentite dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui la modificazione della domanda può avere ad oggetto uno o anche entrambi gli elementi costitutivi della stessa, a condizione che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio (cfr. Cass., Sez. Un., 15/06/2015, n. 12310; Cass., Sez. III, 14/02/2019, n. 4322; Cass., Sez. I, 25/05/2018, n. 13091). Senonchè, nel riconoscere l’ammissibilità di siffatte modifiche, in quanto tali da non comportare una compromissione delle facoltà difensive della controparte, le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che le stesse, qualunque ne sia la portata, non possono determinare un allungamento dei tempi processuali rispetto a quelli preventivati dall’art. 183 c.p.c., il quale prevede che il giudice, su richiesta delle parti, conceda una serie di termini predeterminati, anche in ipotesi di mera precisazione ovvero di modificazione intesa nei più ristretti limiti precedentemente ammessi: il decorso dei predetti termini, segnando la conclusione della fase di trattazione della causa, determina infatti la definitiva cristallizzazione del thema decidendum, così come delineatosi attraverso le allegazioni e le deduzioni delle parti, che ne preclude ulteriori modificazioni, indipendentemente dalla successiva evoluzione della vicenda processuale, tanto nel giudizio di primo grado quanto, a maggior ragione, in quello di appello (cfr. Cass., Sez. III, 21/11/2017, n. 27566; 31/07/2017, n. 18956). Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, nonostante l’avvenuta modificazione dell’oggetto della domanda da parte dell’attrice, ha ritenuto di doversi limitare a pronunciare in ordine a quella, dalla stessa originariamente proposta, di ri-determinazione del “giusto ed esatto saldo finale” dei conti correnti, depurandolo dagli effetti positivi e negativi del finanziamento, indipendentemente dalla mancata proposizione di una domanda di ripetizione dell’indebito da parte della Banca, e di dover invece prescindere dalla domanda di ripetizione del relativo importo avanzata nell’atto di appello. Nessun rilievo può assumere la mancata adozione di un’espressa statuizione in ordine a tale domanda, la cui tardiva proposizione, comportandone l’inammissibilità, impediva l’insorgere di alcun potere-dovere della Corte territoriale di esaminarla nel merito, escludendo conseguentemente la configurabilità dell’omissione di pronuncia lamentata dal ricorrente (cfr. Cass., Sez. I, 25/ 09/2018, n. 22784; 25/05/2006, n. 12412; Cass., Sez. VI, 2/12/2010, n. 24445).

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2033 e 2697 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini della ricostruzione del saldo finale dei conti correnti, ha ritenuto non corretta la rettifica proposta dal c.t.u., ponendo a carico dell’attrice l’onere di produrre gli estratti conto completi, senza contare che, in tema d’indebito, l’onere della prova del correntista è limitato all’illegittimità dell’addebito e del correlativo pagamento, e senza considerare che il correntista può limitare la domanda di ripetizione anche ad un determinato periodo o a un determinato addebito.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, osservando che, nel frazionare i conti correnti in tanti rapporti quanti erano i periodi cui si riferivano ininterrottamente gli estratti conto, la sentenza impugnata non ha considerato che gli addebiti illegittimamente effettuati dalla banca si erano riflessi sui saldi del periodo successivo e sugli stessi saldi finali dei conti.

6. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, sono inammissibili, per difetto di specificità.

Nel contestare il metodo adottato dalla sentenza impugnata per la ride-terminazione del saldo finale dei conti correnti, sotto il duplice profilo dell’inosservanza delle regole di ripartizione dell’onere della prova e dell’incongruenza e illogicità della motivazione, il ricorrente invoca infatti le modalità alternative di calcolo prospettate dal c.t.u. per far fronte all’indisponibilità della documentazione relativa all’intera durata dei rapporti contrattuali, e segnatamente alla mancata produzione degli estratti conto relativi a periodi intermedi, ma omette di riportare, a corredo delle proprie censure, i passi salienti della relazione di consulenza, recanti la compiuta esposizione delle diverse soluzioni prospettate, in tal modo impedendo di comprendere esattamente la portata delle critiche mosse al criterio adottato. La parte che in sede di legittimità intenda censurare la scelta compiuta dal giudice di merito tra più ipotesi formulate dal c.t.u. non può infatti limitarsi a proporre generiche doglianze di erroneità o inadeguatezza della motivazione o, come nella specie, ad insistere sulla preferibilità di una o più soluzioni alternative a quella prescelta, ma, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione ed al carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, è tenuta a riportare, a corredo del motivo, le parti della consulenza a suo avviso indebitamente trascurate, nonchè a svolgere concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione, in modo da consentire a questa Corte di cogliere i vizi addebitati alla sentenza impugnata e di apprezzarne preliminarmente l’incidenza (cfr. Cass., Sez. I, 3/08/2017, n. 19427; 3/06/2016, n. 11842; Cass., Sez. lav., 12/02/2014, n. 3224).

7. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dall’attrice in relazione all’illecito comportamento della Banca, la quale, oltre ad aver preteso con la minaccia la concessione della seconda ipoteca, aveva segnalato alla Centrale dei rischi un credito inesistente, in tal modo determinando la revoca dei fidi da parte di altre banche. Sostiene che a tal fine la Corte d’appello ha omesso di valutare a) le deposizioni rese dai testi escussi in primo grado, che avevano confermato le predette minacce, b) la circostanza che il pegno sui titoli era stato realizzato un mese dopo l’iscrizione della seconda ipoteca, c) la riferibilità di tale ipoteca al medesimo credito garantito dalla prima, e quindi l’avvenuta iscrizione della stessa a garanzia di un credito inesistente, d) l’effettuazione della segnalazione da parte della Banca nonostante l’intervenuta riduzione del credito ipotecario.

7.1. Il motivo è inammissibile.

Le censure proposte dal ricorrente si riferiscono infatti alla valutazione di elementi di prova (le deposizioni dei testi) o di circostanze (la realizzazione del pegno, l’identità del credito garantito dalle ipoteche, la riduzione del credito ipotecario) specificamente prese in considerazione dalla sentenza impugnata, che le ha ritenute inidonee a giustificare l’affermazione dell’illiceità del comportamento della Banca, avendo ravvisato in quest’ultimo il legittimo esercizio di facoltà alla stessa spettanti. Esse non risultano quindi riconducibili al paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale circoscrive le anomalie motivazionali denunciabili con il ricorso per cassazione alla pretermissione di un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto del dibattito processuale e risulti idoneo ad orientare in senso diverso la decisione, nonchè a quelle che si convertono in violazione di legge, per mancanza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, escludendo pertanto da un lato la possibilità di estendere il vizio in esame al di fuori delle ipotesi, nella specie neppure prospettate, in cui la motivazione manchi del tutto sotto l’aspetto materiale e grafico, oppure formalmente esista come parte del documento, ma risulti meramente apparente, perplessa, o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, e tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/ 2014, n. 21257), dall’altro la possibilità di far valere, sotto tale profilo, l’omessa o inadeguata valutazione di elementi istruttori (cfr. Cass., Sez. VI, 15/05/2018, n. 11863; 10/02/2015, n. 2498; Cass., Sez. lav., 9/07/2015, n. 14324).

8. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2019

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