Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31643 del 04/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 04/12/2019, (ud. 09/10/2019, dep. 04/12/2019), n.31643

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26010/2012 R.G. proposto da:

R.C., rappresentato e difeso dall’Avv. Nicola Pagnotta e

dall’Avv. Stefania Martin, con domicilio eletto presso lo studio del

primo, in Roma, Via Grancesco Denza n. 15, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente, ricorrente in via incidentale –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Veneto, n. 90/5/2011, depositata il 3 ottobre 2011.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 ottobre

2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate, a seguito di processo verbale di constatazione, emetteva avviso di accertamento nei confronti di R.C., dipendente della Guardia di finanza, ritenendo che questi, negli anni dal 2003 al 2006, avesse svolto attività di procacciatore di affari nel settore immobiliare, per conto di alcune società a responsabilità limitata, in due delle quali (Immobiliare Salata s.r.l. e Emmegibi s.r.l.) sua moglie era socia con partecipazione dell’8%. In particolare, a seguito dell’accesso in sede (con il rinvenimento di un computer sito presso una società e nella disponibilità del contribuente) e delle dichiarazioni dei titolari delle società e di alcuni clienti, veniva attribuita d’ufficio la partita Iva al contribuente, con la conseguente verifica del conto corrente bancario intestato al R. ed alla moglie M.L. e con la individuazione di movimenti ritenuti non corrispondenti alle retribuzioni del primo, percepite come dipendente della pubblica amministrazione, nè attribuibili alla moglie. I versamenti erano di Euro 16.400,00 nel 2003, di Euro 19.655 nel 2004 e di Euro 62.100,00 nel 2005, mentre i prelevamenti erano di Euro 75.860,00 nel 2003, di Euro 29.737 nel 2004 e di Euro 6.330,00 nel 2005, con recupero a tassazione ai fini Irpef, Irap ed Iva.

2. Il R. presentava ricorso deducendo, tra l’altro, per quel che qui ancora rileva, l’illegittimità della pretesa fiscale perchè priva di supporto probatorio, l’attribuzione dei movimenti sul conto cointestato ai coniugi, l’insussistenza del, carattere di continuità della sua collaborazione, trattandosi, al più, di attività solo occasionale, l’illegittimità della presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in qualità di lavoratore dipendente, la non applicabilità dell’Irap, in assenza del presupposto della autonoma organizzazione. In particolare, il contribuente deduceva che la società Salata s.r.l. aveva subito accertamenti con recupero a tassazione di Euro 195.000 nel 2004 (l’8% era Euro 15.600), Euro 772.000 nel 2005 (l’8% era Euro 61.760), con importi assai simili a quelli dei versamenti contestati nel 2005 (nel 2004 Euro 19.655 e nel 2005 Euro 62.100).

3. La Commissione tributaria provinciale di Padova accoglieva in parte il ricorso, non riconoscendo le riprese a tassazione per Iva e Irap, in assenza di esercizio di attività di impresa, per la mancanza di attività organizzata ed abituale, stante l’assenza di collaboratori e di mezzi, essendo il R. un lavoratore dipendente. Non si potevano sommare, poi, i versamenti ed i prelevamenti, siccchè si confermavano come ricavi i soli versamenti sul conto non giustificati.

4. Proponeva appello l’Agenzia delle entrate rilevando che il contribuente aveva svolto attività di impresa di procacciatore di affari, desumibile dalle dichiarazioni dei titolari delle società e degli acquirenti degli appartamenti. Inoltre, evidenziava che era a carico del contribuente la dimostrazione della insussistenza dell’autonoma organizzazione ai fini Irap. I risultati degli accertamenti bancari, poi, costituivano una presunzione legale iuris tantum sicchè il contribuente non aveva fornito la prova contraria della irrilevanza reddituale delle movimentazioni bancarie rinvenute sul conto cointestato.

5. Proponeva appello incidentale il contribuente che contestava l’illegittimo accesso presso la sua abitazione, l’illegittima estensione dell’indagine alla autovettura ed al computer, l’illegittima attribuzione d’ufficio della partita Iva, l’occultamento di un numero rilevante di dichiarazioni di terzi che escludevano la partecipazione del R. all’attività delle società immobiliari. Il contribuente, poi, rilevava che le operazioni di cui alle movimentazioni bancarie erano riferibili alla moglie cointestataria dei medesimi conti correnti, socia di due delle società, peraltro, a ristretta base.

6. La Commissione tributaria regionale del Veneto rigettava sia l’appello principale proposto dall’Ufficio sia l’appello incidentale del contribuente, rilevando che mancavano nella fattispecie tutti i requisiti tipici dello svolgimento di attività di impresa da parte del R., non essendo stata riscontrata alcuna attività organizzativa, in assenza della abitualità, essendo il ricorrente un lavoratore dipendente. Inoltre, poichè la moglie del R. era socia all’8% di due società ed il conto corrente era cointestato ai coniugi “è più verosimile che le somme fossero della moglie e non del marito in quanto erano tutte attribuibili alla moglie”. Agli atti, poi, non risultava alcuna proposta di vendita riconducibile al contribuente. I prelevamenti non potevano essere sommati ai versamenti perchè altrimenti vi sarebbe stata una duplicazione dell’imponibile.

7. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, depositando anche memoria scritta.

8. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per motivazione contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nella parte in cui la Commissione afferma che i dati desunti dai conti correnti intestati a moglie e marito sono più plausibilmente riferibili alla consorte M. quale socia all’8 di società accertata per/poi concludere per la tassazione in capo al ricorrente R. delle somme risultanti dalla sommatoria dei versamenti ivi annotati”. Infatti, il giudice di appello, dapprima, ha affermato che “è più verosimile che le somme fossero della moglie e non del marito in quanto erano tutte attribuibili alla moglie”, non essendosi rinvenuta alcuna proposta contrattuale riferibile al R., ma successivamente, ha concluso nel senso che solo i versamenti, anche se non i prelevamenti, erano riferibili al contribuente. La conclusione raggiunta in sentenza è, quindi, del tutto inconciliabile con le premesse, rendendo impossibile stabilire in base a quale argomento si è poi addivenuti alla decisione finale.

2. Con il secondo motivo di impugnazione (rubricato sub 1 bis a pagina 14 del ricorso per cassazione) il ricorrente lamenta “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nella parte in cui la Commissione accerta l’esistenza di attività (occasionale), svolta dal ricorrente negli anni in esame, riconducibile all’attività di procacciatore di affari”. Infatti, nè nella sentenza di primo grado, nè in quella di appello sono indicate le ragioni per cui risulterebbe provato che il R. ha svolto attività di procacciatore di affari, sia pure in via solo occasionale, sottoposta comunque a tassazione. Pertanto, seppure, da un lato, non si riscontrano i requisiti tipici dell’attività di impresa, tuttavia, dall’altro, si giunge alla conclusione della sussistenza di una attività occasionale di intermediazione, senza indicazione delle ragioni di tale convincimento. Del resto, il giudice di appello ha affermato che non sono stati rinvenuti contratti riferibili al R. e che le somme sui conti correnti cointestati erano attribuibili alla moglie, socia di due delle società. La Commissione regionale non ha, dunque, tenuto conto delle prove in atti, e segnatamente delle dichiarazioni del T. (“ci dà una mano ogni tanto”), del C. (“negli ultimi quattro – cinque anni si è visto tre o quattro volte”, con il pagamento al massimo di 4.000,00 – 6.000.00 Euro nell’arco dei quattro anni 2003 – 2006), del B. (che chiama il R. al cellulare senza che questi risponda), oltre che dei clienti delle società, da cui risulta che il R. si è limitato a rispondere a qualche telefonata, a mostrare ai clienti le unità in costruzione, con trattative condotte da altri soggetti. In particolare il C. ha dichiarato di essere venuto a conoscenza delle iniziative immobiliari della Emmegibi da Ma.Or., la Ma. ha affermato che il R. le avrebbe solo illustrato i prezzi, la C. ha riferito che solo al primo accesso ha avuto contatto con il contribuente, la S. ha raccontato che la caparra è stata ricevuta dal G.. Esistono, poi, altre sei dichiarazioni dei clienti assunte dalla Guardia di finanza, ma non allegate al processo verbale di constatazione, che sono state però prodotte dal R. in giudizio. Inoltre, non si è tenuto conto che nei confronti delle società di cui è socia all’8% la moglie del R. sono stati emessi avvisi di accertamento, per redditi occultati, imputabili alla socia, in quanto trattasi di società a ristretta base partecipativa, per somme di importo simile a quelle versate in contanti sui conti cointestati.

3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 – 39; D.P.R. n. 633 del 1972; art. 55, artt. 2927 – 2929 c.c.; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32”, in quanto il giudice di appello ha qualificato l’attività svolta dal contribuente come impresa, con un uso illegittimo degli elementi presuntivi, per poi dedurre che le movimentazioni annotate sul conto corrente bancario cointestato al R. ed alla moglie, erano riferibili esclusivamente all’attività di impresa del contribuente. Gli accertamenti bancari sono consentiti solo nei confronti di chi esercita attività di impresa e non, quindi, nei confronti del contribuente che è lavoratore dipendente della pubblica amministrazione.

4. Con il quarto motivo (rubricato sub 3 a pagina 31 del ricorso per cassazione) il ricorrente lamenta “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver omesso di pronunciare, con violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1 e 36, e 112 c.p.c., in merito alle dedotte illegittimità dell’avviso di accertamento per presenza di prova contraria ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e corrispondente normativa Iva”, in quanto il giudice di appello non ha pronunciato in ordine ad una serie di giustificazioni circa i versamenti annotati nel conto corrente, che erano contestati come non giustificati nel processo verbale di constatazione e, poi, nell’avviso di accertamento. Il ricorrente, quindi, già nel ricorso introduttivo ha indicato l’origine della disponibilità sul conto corrente cointestato, derivante da finanziamenti bancari, risarcimenti di assicurazioni ed altro.

5. Con il quinto motivo (rubricato sub 3 bis a pag. 34 del ricorso per cassazione) il ricorrente deduce “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per mancanza di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nella parte in cui la Commissione sic et simpliciter stabilisce la presenza di redditi assoggettabili a tassazione nella misura corrispondente alla sommatoria dei versamenti nei conti”, in quanto il giudice di appello non ha spiegato perchè gli elementi in atti non erano sufficienti a superare la presunzione legale relativa dell’accertamento bancario.

6. Con il sesto motivo di impugnazione (rubricato sub 4 a pagina 38 del ricorso per cassazione) il ricorrente deduce “ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nullità della sentenza per mancanza di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nella parte in cui la Commissione sic et simpliciter afferma di essere ininfluente ai fini del decidere l’esibizione di prove (dichiarazioni assunte dalla Guardia di finanza) la cui corrispondente richiesta ritualmente il contribuente aveva dimesso in primo grado e coltivato in appello”. L’affermazione del giudice di appello, per cui la richiesta di esibizione alla Guardia di finanza di tutte le dichiarazioni raccolte da terzi è ininfluente, è del tutto priva di motivazione.

7. L’Agenzia delle entrata ha proposto ricorso incidentale con cui deduce “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudice di appello ha escluso il recupero a tassazione, ai fini delle imposte dirette, dei prelevamenti risultanti dal conto corrente cointestato, perchè, sommando i versamenti ai prelevamenti, si sarebbe determinata una duplicazione di imponibile. In realtà, il D.P.R. n. 600 del 1972, art. 32, prevede una presunzione legale relativa in favore del Fisco, considerando alla stregua di ricavi tanto i versamenti quanto i prelevamenti, salvo che il contribuente non provi che delle operazioni individuate si è tenuto conto nella contabilità o le stesse non sono imponibili.

8. I motivi primo, secondo e quinto del ricorso principale, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati.

8.2. Va premesso, sul punto, che, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55 “sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. e delle attività indicate all’art. 32, comma 2, lett. b e c, che eccedono i limiti stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa”. Inoltre, al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, comma 2, si prevede che “sono, inoltre considerati redditi d’impresa: a) i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma di impresa dirette alla prestazione di servizi, che non rientrano nell’art. 2195 c.c.”.

Del resto, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, al comma 1 stabilisce che “per esercizio di impresa s’intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli artt. 2135 e 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, nonchè l’esercizio di attività, organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.”.

Pertanto, è evidente che le attività di cui all’art. 2195 c.c. sono qualificate come espressioni dell’esercizio di impresa commerciale, indipendentemente dal fatto che siano organizzate in forma di impresa. L’esercizio delle attività di cui all’art. 2195 c.c. determina sempre la sussistenza di una impresa commerciale, ai fini del TUIR, indipendentemente dall’assetto organizzativo scelto per l’esercizio dell’attività; ciò, quindi, deroga alla previsione civilistica di cui agli artt. 2082 e 2195 c.c., per il quale le attività di cui all’art. 2195 c.c. integrano i presupposti della impresa commerciale solo se sono organizzate. La scelta del legislatore tributario è stata detta dall’esigenza di semplificare l’attività di accertamento da parte dell’amministrazione, che deve limitarsi a valutare l’esistenza dello svolgimento di una delle attività di cui all’art. 2195 c.c., senza dover valutare le concrete modalità di esercizio dell’attività ai fini della sua qualificazione.

E’ necessario, invece, che sussista il requisito della abitualità, che va intesa come attività stabile nel tempo, con riguardo al periodo temporale rilevante ai fini dell’imposizione sui redditi, quindi al periodo di imposta.

Tra le imprese ausiliarie, di cui all’art. 2195 c.c., n. 4, che sono quelle che agevolano, direttamente o indirettamente, l’esercizio di altre attività d’impresa, svolgendo funzioni complementari vanno ricomprese l’agente di commercio (Cass., 1516/1973), lo spedizioniere doganale (Cass., 5718/1979), il promotore finanziario (Cass., 18135/2002; Cass., 15285/2018), il mediatore (Cass., 443/1977), come pure il procacciatore di affari (Cass., 7 dicembre 1999, n. 13660, in tema di revocatoria fallimentare proposta dal curatore del fallimento di un procacciatore di affari in relazione ai versamenti da questo compiuti nel periodo sospetto di cui alla L. Fall., art. 67).

In particolare per questa Corte la mediazione, in quanto attività economica professionalmente organizzata al fine dello scambio di beni o di servizi, costituisce una impresa commerciale ausiliaria, diretta ad agevolare obbiettivamente l’attività industriale della produzione e la circolazione dei prodotti, indipendentemente da un normale e concreto collegamento con l’attività di singole imprese commerciali nel settore industriale o commerciale strictu sensu (Cass., Cass., 28 gennaio 1977, n. 443).

Va evidenziato anche che, in tema di rapporti tra mediazione e contratto atipico di procacciamento di affari, dette figure, pur accomunate dallo svolgimento di un’attività di intermediazione diretta a favorire la conclusione di un affare tra terzi, con conseguente applicazione di alcune identiche disposizioni in materia di diritto alla provvigione, divergono tra loro in quanto il mediatore presta la propria opera in posizione di imparzialità tra le parti, mentre il procacciatore di affari agisce, al contrario, nell’esclusivo interesse di una di esse, sia pur in virtù di un rapporto di collaborazione privo del carattere della stabilità, con conseguente applicazione analogica, nei confronti dello stesso, delle disposizioni del contratto d’agenzia, ivi comprese quelle in materia di prescrizione del diritto al compenso (Cass., 20 dicembre 2016, n. 26370).

8.3. Effettivamente il giudice di appello incorre nella motivazione in una evidente contraddizione. Muove dall’assunto che il R. non abbia svolto una attività organizzata di procacciatore di affari ed esclude anche lo svolgimento di una attività “con caratteristiche della abitualità”, in quanto “il ricorrente è un lavoratore dipendente”, sicchè non si tratta di redditi di impresa. Subito dopo, la Commissione regionale ritiene che le movimentazioni sul conto corrente cointestato ai coniugi vanno riferite in via esclusiva alla moglie, quale titolare dell’8 % di due società (“si rileva che la moglie del contribuente R. aveva acquistato l’8% delle partecipazioni immobiliari in 2 società, il conto corrente era intestato ai due coniugi ed è più verosimile che le somme fossero della moglie e non del marito in quanto erano tutte attribuibili alla moglie”). Precisa, ancora, il giudice di secondo grado che “agli atti non risulta alcuna proposta di vendita riconducibile al R.”.

Dopo queste premesse, che sembravano condurre il giudice all’accoglimento integrale del ricorso, in quanto si è negata l’attività di impresa, si è esclusa sia la sussistenza della organizzazione che l’abitualità dell’attività, con collegamento delle movimentazioni del conto in via esclusiva alla moglie del contribuente, nella parte finale della motivazione si conclude nel senso che “appare plausibile addebitare quali maggiori redditi i soli versamenti ritenuti non giustificati, escludendo invece i prelevamenti”, in tal modo riconoscendo che il R. aveva comunque svolto attività, sia pure occasionale, che poteva essere sottoposta ad imposizione, attribuendogli i versamenti presenti nel conto corrente cointestato.

Dalle premesse sopra menzionate, invece, doveva scaturire o che non esistevano incassi riferibili al R. oppure che, benchè fosse stata svolta da questi una attività occasionale, i versamenti dei conti correnti non ne erano la quantificazione.

Inoltre, il giudice di appello, ha ritenuto “plausibile” addebitare al R. solo i versamenti, con esclusione dei prelevamenti, senza però esaminare tutti gli elementi probatori in atti, e segnatamente le dichiarazioni dei titolari delle società e quelle dei clienti.

Peraltro, con riferimento al quinto motivo, il giudice di secondo grado ha omesso di verificare la consistenza della prova contraria agli accertamenti bancari pure fornita dal contribuente, limitandosi ad affermare, senza alcuna argomentazione, che i versamenti “sono risultati giustificati”.

9. Tutti gli altri motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale sono assorbiti, in quanto il giudice del rinvio dovrà riesaminare tutti gli elementi istruttori in atti per una valutazione degli stessi.

10. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla CTR del Veneto, in diversa composizione, per provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie i motivi primo, secondo e quinto del ricorso; dichiara assorbiti i restanti motivi ed il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2019

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