Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31638 del 06/12/2018

Cassazione civile sez. II, 06/12/2018, (ud. 11/10/2018, dep. 06/12/2018), n.31638

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. CASADONTE Anna Maria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14807-2015 proposto da:

M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE

38, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA COLETTI, rappresentata e

difesa dall’avvocato MARIO NAPOLEONE in virtù di procura in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

O.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 221/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 30/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/10/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. M.R. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Cagliari O.F. affinchè fosse accertato e dichiarato il suo acquisto per usucapione della piena proprietà ovvero di una quota del 50 % dell’immobile e dell’insistente fabbricato in (OMISSIS) in catasto terreni del Comune di (OMISSIS), stante il possesso pacifico ed ultraventennale.

Assumeva che da oltre trent’anni era nel possesso del fondo, avendo posto in essere tutte le operazioni dirette alla conservazione ed al godimento del bene, quali l’aratura, la raccolta dell’uva e della legna e le periodiche operazioni di pulizia.

L’attrice, unitamente al marito Mi.Re., figlio della convenuta, aveva edificato sul terreno nel 1982 un fabbricato adibito a civile abitazione.

Si costituiva la convenuta la quale contestava la fondatezza della domanda, deducendo di essere l’unica proprietaria del bene.

Il Tribunale di Cagliari con la sentenza n. 665/2013 accoglieva la domanda di usucapione limitatamente alla quota del 50 %, atteso che la restante parte del fondo era stata posseduta dal Mi., estraneo al giudizio.

Avverso tale sentenza proponeva appello la 011argiu, e la Corte d’Appello di Cagliari con la sentenza n. 221 del 13 marzo 2015, in riforma della decisione di prime cure, dichiarava che l’appellante era l’unica proprietaria del bene oggetto di causa. A tal fine reputava di dover dare credito alla tesi dell’appellante secondo cui non poteva sostenersi che l’attrice avesse effettivamente posseduto il bene, e ciò anche ai fini dell’usucapione.

Infatti, ancorchè il godimento del bene si fosse protratto per un lungo periodo di tempo, doveva ritenersi che fosse avvenuto per tolleranza della convenuta, a tal fine valorizzandosi il rapporto di parentela che legava la convenuta stessa con il Mi., marito e preteso compossessore del bene, il quale era il figlio della O..

Era verosimile che la convenuta avesse illo tempore autorizzato il figlio e la nuora alla realizzazione del fabbricato ed ancor prima ad utilizzare il fondo, per stato di mera tolleranza, il che trovava conforto anche nel fatto che nel 1989 la convenuta aveva proposto un’azione possessoria nei confronti del figlio.

In realtà la convenuta non si era disinteressata del bene, ma aveva sollecitato i parenti per il suo sfruttamento, essendo poi necessario per la trasformazione della detenzione in possesso un atto di interversione che sia però esteriorizzato nei confronti del proprietario.

E’ pur vero che la detta azione possessoria non vedeva come destinataria la M., e che quindi non poteva valere ad interrompere i termini per l’usucapione, ma per l’appellata mancava la prova che avesse autonomamente compiuto un atto di interversione, che poteva essere individuato solo nell’atto introduttivo del presente giudizio.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.R., sulla base di cinque motivi.

O.F. non ha svolto difese in questa fase.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in quanto la domanda di accertamento della proprietà esclusiva in capo all’intimata del bene oggetto di causa, era stata formulata solo in appello, e costituiva quindi una domanda nuova ed inammissibile.

Si assume che in primo grado la convenuta si era limitata a resistere alla domanda di usucapione proposta dalla ricorrente e che solo in appello, una volta che il Tribunale aveva accolto la domanda attorea, aveva proposto anche la domanda di accertamento della sua proprietà esclusiva, in evidente violazione della detta norma.

Il motivo è inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

A tal fine occorre far richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che a Sezioni Unite ha precisato che quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito, ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. S.U. n. 8077/2012).

Orbene, mentre dalla lettura della sentenza gravata, è dato avere contezza delle conclusioni formulate dalla O. dinanzi alla Corte d’Appello, che contemplano appunto l’accoglimento della domanda de qua, nel motivo in esame si assume in maniera del tutto generica che tale domanda non fosse stata proposta in primo grado, limitandosi altrettanto genericamente a riferire di un atteggiamento processuale di mera resistenza alla domanda di usucapione, senza quindi riportare, in ottemperanza del principio di specificità posto dalle norme sopra richiamate, il preciso contenuto delle conclusioni formulate in primo grado dalla controparte, il che denota l’inammissibilità della censura.

3. Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 345 c.p.c. poichè l’eccezione secondo cui il potere sulla cosa sarebbe stato esercitato dalla ricorrente in forza di meri atti di tolleranza della convenuta, è stata avanzata per la prima volta in appello, trattandosi quindi di eccezione inammissibile.

Si evidenzia che la O. in primo grado aveva contestato la fondatezza della richiesta di usucapione assumendo che invece aveva conservato il possesso del bene, dedicandosi lei stessa alla cura ed alla coltivazione del fondo, sicchè è stata esaminata in appello un’eccezione nuova ed in violazione pure del principio di non contestazione.

Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. in quanto l’appello non sarebbe puntualmente correlato alle statuizioni contenute nella sentenza di primo grado, e ciò perchè, proprio alla luce di quanto accertato dal Tribunale, e cioè che il godimento del fondo era avvenuto solo da parte della M. e del marito, è stata addotta una nuova argomentazione, e precisamente quella della propria tolleranza, priva di correlazione con quanto accertato dal Tribunale.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

Deve rilevarsi che, alla luce di quanto accertato dal Tribunale, e che sconfessava l’assunto dell’appellante, che invece sosteneva di avere continuato personalmente ad occuparsi del fondo, essendo invece emerso il godimento del terreno da parte del nucleo familiare della M., la O. ha rimodulato in appello la propria linea difensiva adducendo che in realtà il godimento del bene era riconducibile ad una detenzione, e non anche all’esercizio del possesso, sul presupposto che a monte vi fosse la propria tolleranza che aveva consentito al figlio ed alla moglie di poter occupare il bene e successivamente di realizzare il fabbricato adibito a loro abitazione.

Ne consegue che il richiamo alla violazione del principio di non contestazione non risulta pertinente, in quanto, attesa la contrastante ricostruzione in fatto operata dalle parti nel corso del giudizio di primo grado, la deduzione dell’esistenza della tolleranza, lungi dal contestare i fatti addotti dalla controparte, vale ad introdurre un elemento idoneo a fornire una diversa connotazione giuridica alle circostanze fattuali addotte dall’attrice, e che lo stesso Tribunale aveva ritenuto comprovate.

Tali considerazioni danno altresì contezza dell’insussistenza della violazione dell’art. 342 c.p.c., essendo palesato da quanto sopra esposto che l’allegazione della tolleranza costituiva, in assenza di elementi tali da poter inficiare la ricostruzione in fatto operata dal Tribunale circa l’effettivo godimento esclusivo del terreno da parte della convenuta e del marito, una strategia processuale finalizzata a porre in luce diversa i fatti di causa, come accertati dal Tribunale, e ciò proprio al fine di sollecitare una loro diversa rivalutazione in diritto, correlandosi appunto a quanto oggetto della statuizione del giudice di prime cure.

Residua la questione circa la pretesa novità, e conseguente inammissibilità dell’eccezione di tolleranza sollevata da parte della O. effettivamente per la prima volta in appello.

Al riguardo deve sicuramente condividersi l’assunto di parte ricorrente secondo cui la deduzione circa il fatto che il godimento del bene da parte del preteso possessore sia frutto di tolleranza, idonea quindi ad escludere la stessa esistenza del possesso, costituisca un’eccezione, essendosi in più occasioni affermato che (Cass. n. 9275/2018) in materia di acquisto per usucapione di diritti reali immobiliari, poichè l’uso prolungato nel tempo di un bene non è normalmente compatibile con la mera tolleranza, essendo quest’ultima configurabile, di regola, nei casi di transitorietà ed occasionalità, in presenza di un esercizio sistematico e reiterato di un potere di fatto sulla cosa spetta a chi lo abbia subito l’onere di dimostrare che lo stesso è stato dovuto a mera tolleranza.

In senso conforme si veda Cass. n. 19830/2014, secondo cui la tolleranza, trattandosi di fatto impeditivo, deve essere provata dalla parte che la deduca, sicchè (cfr. Cass. n. 17339/2009) in base al principio fissato dall’art. 2697 c.c., una volta dimostrata la sussistenza del possesso, spetta a coloro che contestano il fatto del possesso l’onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza, i quali hanno fondamento nello spirito di condiscendenza, nei rapporti di amicizia o di buon vicinato ed implicano una previsione di saltuarietà e di transitorietà (conf. Cass. n. 3404/2009; Cass. n. 10771/1995). Avere però concluso per la qualificazione della deduzione de qua come eccezione non implica altresì che sia di per sè fondata la censura di violazione dell’art. 345 c.p.c., atteso che la norma invocata implica il divieto di proposizione in appello delle sole eccezioni non rilevabili d’ufficio, riservate quindi al monopolio della parte.

Ritiene il Collegio che alla luce della giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte, debba reputarsi che l’eccezione in esame non possa essere qualificata come eccezione in senso stretto, e che quindi sia suscettibile di deduzione (ovvero di rilievo ufficioso) per la prima volta anche in grado di appello, sempre che la prova dei relativi fatti emerga dal materiale istruttorio formatosi nel rispetto del principio delle preclusioni istruttorie.

Occorre, infatti, ricordare che anche di recente si è ribadito che (cfr. Cassazione civile sez. 6-2, n. 15591/2018) costituiscono eccezioni in senso stretto, rilevabili ad istanza di parte, quelle che possono essere sollevate soltanto dalle parti per espressa disposizione di legge ovvero quelle il cui fatto integratore corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal titolare e, quindi, presuppone una manifestazione di volontà di quest’ultimo per essere produttivo di effetti modificativi, impeditivi o estintivi del rapporto giuridico.

Trattasi di principio assolutamente consolidato e che trova riscontro anche negli interventi delle Sezioni Unite (cfr. Cass. S.U. n. 10531/2013) che hanno rilevato come il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non sia subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte e sia ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (conf. Cass. n. 4548/2014; ed ancor prima per la riaffermazione della distinzione fra eccezioni in senso stretto ed in senso lato, Cass. S.U. n. 15661/2005; Cass. n. 409/2012).

Tornando al caso in esame, in assenza nella previsione di cui all’art. 1144 c.c. nonchè nelle norme dettate in materia di usucapione, di una espressa manifestazione di volontà del legislatore di condizionare il rilievo della tolleranza all’iniziativa esclusiva della parte e non corrispondendo la stessa ad un fatto integratore corrispondente all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal solo titolare, deve quindi ritenersi che la questione relativa all’esercizio del potere di fatto sulla cosa per effetto della tolleranza del proprietario, ben poteva essere introdotta per la prima volta anche in grado di appello, costituendo la richiesta della parte appellante una sollecitazione al rilievo, come detto, anche officioso della relativa eccezione, sia pure nei limiti di quanto già emergente ex actis, questione questa che è invece oggetto del successivo motivo di ricorso.

4. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1141,1144,1158 e 2697 c.c., laddove i giudici di appello hanno escluso la fondatezza della domanda di usucapione, in ragione della assunta tolleranza da parte della O..

Oltre a richiamarsi alcune della suesposte considerazioni circa la pretesa inammissibilità della deduzione della tolleranza, la cui infondatezza è stata illustrata al punto che precede, e ribadita quindi la possibilità di allegare per la prima volta ed in grado di appello la previsione di cui all’art. 1144 c.c. a giustificazione del godimento del bene da parte dei pretesi possessori, e ciò al fine di escludere gli effetti dell’usucapione, si adduce che la conclusione dei giudici di appello si fonda su di un ragionamento di verosimiglianza circa la concessione del bene in mera detenzione da parte della convenuta, non potendosi sostenere che un rapporto di fatto protrattosi per così lungo tempo possa giustificarsi solo in ragione del vincolo di parentela.

Anche tale motivo è destituito di fondamento.

Ed, infatti, rilevata l’ammissibilità della deduzione dell’esistenza di atti di tolleranza da parte della proprietaria anche per la prima volta in appello, i giudici di seconde cure, con apprezzamento che attiene evidentemente alla valutazione del fatto, e che come tale non è sindacabile in sede di legittimità, hanno ritenuto che dagli elementi istruttori raccolti, e valorizzando il dato di fatto assolutamente pacifico del rapporto di filiazione tra la convenuta ed il marito dell’attrice, e di conseguenza del rapporto di affinità tra le parti in causa, fosse possibile ritenere verosimile la concessione in godimento del bene da parte della O., assumendo altresì che ciò permettesse anche alla proprietaria di continuare ad interessarsi del bene, sebbene in maniera indiretta, avvalendosi della collaborazione dei parenti per lo sfruttamento del fondo.

Trattasi di argomentazioni connotate da logicità e coerenza intrinseca, essendosi a tal fine dato rilievo al principio, costantemente affermato da questa Corte secondo cui il solo protrarsi per lungo tempo del godimento del bene non esclude la tolleranza laddove il rapporto sia instaurato tra soggetti legati da vincoli di parentela.

In tal senso si è anche di recente ribadito che (Cass. n. 11277/2015) in tema di usucapione, per stabilire se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacchè nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo (conf. Cass. n. 4327/2008; Cass. n. 9661/2006, la quale ribadisce che la valutazione sul punto è un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito).

Deve pertanto escludersi la ricorrenza della dedotta violazione delle norme in tema di tolleranza e di usucapione, come del pari va esclusa la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., in quanto la sentenza impugnata, lungi dal compiere un’indebita inversione dell’onere della prova, ha piuttosto ritenuto raggiunta la prova della tolleranza, considerando i rapporti personali tra le parti e l’esistenza di un interesse della proprietaria ad assicurarsi in tal modo la collaborazione dei congiunto nella gestione del fondo, addivenendo quindi alla conclusione in ricorso avversata, sulla scorta di una valutazione degli elementi istruttori a sua disposizione, e senza quindi far ricorso alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.

5. Il quinto motivo denuncia infine l’omesso esame su di un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione ala mancata considerazione della sentenza del Tribunale di Cagliari n. 236/2004, con la quale era stata rigettata la domanda di reintegra nel possesso proposta dalla O. nei confronti del Mi., marito della M..

Si sostiene che da tale sentenza emergerebbe che non vi era stata alcuna tolleranza, ma anzi i rapporti erano improntati a grave inimicizia, tanto da aver portato alla proposizione di un’azione possessoria, ed inoltre che la O. non poteva vantare più alcun possesso, almeno a far data dal 1982, allorquando era iniziata l’edificazione del fabbricato.

Anche tale motivo va disatteso.

Rileva la Corte che la sentenza impugnata ha in realtà provveduto ad esaminare la rilevanza della pronuncia emessa in sede possessoria tra la appellante ed il figlio, fornendone però una lettura in chiave probatoria diversa da quella invece sostenuta da parte della ricorrente, il che esclude la ricorrenza del dedotto vizio di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

In tal senso la sentenza gravata, oltre a rilevare che la stessa reazione possessoria della O. nei confronti del figlio nel 1989, denotava la convinzione della proprietaria di avere mantenuto il possesso del bene (stante il godimento frutto di mera tolleranza da parte degli occupanti), possesso da ripristinare nel momento in cui si sosteneva che vi fosse stato un comportamento volto a negarlo, ha per quanto qui rileva in modo essenziale, ritenuto che la stessa poteva al più denotare il compimento di un atto di interversione del possesso da parte del Mi., ma non anche ad opera della M., che non avendo adeguatamente estrinsecato la personale interversione, non poteva giovarsi della condotta posta in essere dal marito, al fine di invocare la trasformazione della detenzione in possesso.

6. Il ricorso deve essere rigettato, nulla dovendosi disporre quanto alle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.

7. Ancorchè il ricorso sia stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, non sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, attesa l’ammissione della ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara l’insussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2018

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