Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31635 del 04/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 04/12/2019, (ud. 03/10/2019, dep. 04/12/2019), n.31635

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28900-2016 proposto da:

F. S. SRL, D. SRL, elettivamente domiciliati in XX,

presso lo studio dell’avvocato S.L., che li rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4248/2016 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI,

depositata il 09/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/10/2019 dal Consigliere Dott. GRAZIA CORRADINI.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con quattro separati ricorsi le società D. e F. S. (facenti parte, unitamente ad altre, fra cui la I. S., aventi uguale compagine societaria, del “gruppo” RR dei coniugi X.Y. e Y.K.) impugnarono davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli altrettanti avvisi di accertamento aventi ad oggetti omessi versamenti di IRES, IRPEF, IVA ed IRAP per gli anni 2005 e 2006, scaturiti da alcuni PVC redatti dalla Guardia di Finanza, con cui era stata contestata la inesistenza soggettiva di talune transazioni intercorse fra la F.S. e la D.. Con altro separato ricorso la società F.S. impugnò poi anche la cartella esattoriale emessa sulla base del ruolo straordinario consequenziale agli accertamenti.

I cinque ricorsi furono riuniti e, con sentenza n. 23429/1/2014, la CTP di Napoli accolse i ricorsi della F.S. limitatamente ad un provvedimento di sgravio parziale nel frattempo emesso a suo favore con riguardo ad IRES ed IRAP, mentre li rigettò nel resto.

Proposero appello le due società con sedici motivi a loro volta sottotitolati, costituenti solo parte degli iniziali motivi di ricorso, essendo stati alcuni di essi, nel frattempo, abbandonati e la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 4248/15/2016, pronunciata il 4.4.2016 e depositata in data 9.5.2016, accolse l’appello limitatamente alla rideterminazione delle sanzioni per effetto della più favorevole disciplina sanzionatoria sopravvenuta in virtù del D.Lgs. n. 158 del 2015, mentre invece rigettò tutti gli altri motivi di appello e condannò gli appellanti al pagamento delle spese.

Con riferimento, per quanto ancora interessa, ai soli motivi di appello in seguito riproposti con l’attuale ricorso per cassazione, la Commissione Tributaria Regionale, rilevò:

– Non sussisteva la pregiudizialità rispetto ai due giudizi pendenti davanti alla Corte di Cassazione relativi al credito IVA della D. per l’anno 2002 ed alla validità o meno della richiesta di condono da parte della D. per lo stesso anno, con riguardo ai quali le appellanti avevano chiesto la sospensione del presente giudizio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39, poiché non poteva esistere, neppure astrattamente, alcuna pregiudizialità quanto alla richiesta di condono, la quale non poteva avere alcuna incidenza sui crediti tributari, come ritenuto anche dalla Corte Costituzionale e, quanto all’altro giudizio, già definito nel merito con due sentenze che avevano disconosciuto il presunto credito, nessun elemento avevano fornito le ricorrenti che potesse fare presumere anche soltanto il fumus della esistenza di quel credito (motivo 1 del ricorso per cassazione);

Non sussisteva alcuna decadenza rispetto al disconoscimento del credito relativo all’anno 2002 poiché i termini per l’accertamento erano raddoppiati in conseguenza della notitia criminis che aveva generato un processo penale ancora in corso davanti al Tribunale di Napoli (motivo 2 del ricorso per cassazione);

Non erano fondate le eccezioni relative alla violazione dello statuto dei diritti del contribuente con riguardo alla durata della verifica fiscale superiore ai 30 giorni ed alla mancata comunicazione da parte del Pubblico Ministero della autorizzazione alla utilizzazione delle indagini penali, poiché il termine di 30 giorni era solo ordinatorio e la comunicazione non era a tutela del contribuente (motivi 3 e 4 del ricorso per cassazione);

Quanto alle ragioni per cui gli accertamenti erano stati ritenuti corretti ed erano stati confermati ed alle prove poste a base della decisione di fittizietà di talune operazioni economiche effettuate dalla D. ed alla conoscenza del pvc da parte del destinatario dell’accertamento, in realtà il pvc era perfettamente conosciuto dagli organi societari che si identificavano nella stessa persona per tutte e tre le società e vi era la piena prova della inesistenza soggettiva delle operazioni, essendo fittizia la interposizione della D. sulla base delle verifiche fiscali che avevano perfettamente individuato, con riguardo a plurime presunzioni gravi, precise e concordanti ed anche a precise prove documentali, il meccanismo fraudolento posto in essere, in assenza di qualsiasi elemento di segno contrario da parte delle ricorrenti e della prova che la D. era rimasta completamente inattiva almeno fino al 2005, mentre la regola iuris in ordine alla divisione dell’onere della prova derivava dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione (motivi 5 e 6 del ricorso per cassazione);

Quanto alla pretesa illegittimità degli accertamenti per avere l’Ufficio disconosciuto alla F. S. la detrazione dell’IVA in relazione ai beni acquistati pur avendo la D. fatto confluire l’IVA a debito fra gli importi a debito nelle liquidazioni periodiche, non essendovi alcuna prova che la D. fosse una società “cartiera”, era stato in realtà provato che la D. era inattiva e che le società, che facevano capo allo stesso amministratore ed alla stessa compagine societaria, avevano ideato e realizzato un meccanismo fraudolento al fine di evadere gli obblighi fiscali attraverso operazioni commerciali di cessione di beni (motivo 7 del ricorso per cassazione);

– Quanto alla pretesa violazione del divieto di doppia imposizione, correttamente la Agenzia delle Entrate aveva ricondotto a tassazione le operazioni poste in essere dalle diverse società (motivo 8 del ricorso per cassazione);

Quanto alla legittimità del ruolo straordinario, essa trovava fondamento nella consistenza degli importi di cui la F. S. era debitrice verso il Fisco, nella mancanza di qualsiasi idonea garanzia e nella pericolosità della condotta posta in essere dalle società implicate negli accertamenti tributari oggetto del presente procedimento, tutte inserite in una galassia in grado di sottrarre garanzie alla Amministrazione Finanziaria (motivo 9 del ricorso per cassazione);

Quanto alla pretesa illegittimità della cartella di pagamento per mancata indicazione del tasso di interesse applicato, il calcolo emergeva dalle somme indicate e dai periodi di decorrenza indicati (motivo 10 del ricorso per cassazione);

Infine, con riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo delle sanzioni applicate, esso consisteva in un dolo di scopo essendo stato posto in essere un meccanismo diretto a frodare il fisco attraverso l’accordo fraudolento di più società dello stesso gruppo (motivo 11 del ricorso per cassazione).

Contro la sentenza di appello, non notificata, le società D. e F. S., sottoposte a sequestro preventivo con provvedimento del GIP del tribunale di Napoli, in persona del custode ed amministratore giudiziario nominato in data 26.11.2014, hanno proposto ricorso per cassazione,

notificato il 9.12.2016, formulando undici motivi e necessita memoria.

Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso, eccependo la inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è infondato.

2. Con il primo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 295 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata rigettato la istanza di sospensione del presente giudizio, escludendo il carattere pregiudicante di altri due giudizi, pendenti in cassazione tra le stesse parti, aventi ad oggetto, rispettivamente, la impugnativa dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della società D. per l’anno di imposta 2002 e l’impugnativa del diniego di condono per lo stesso anno. Ad avviso delle ricorrenti si tratterebbe di giudizi pregiudicanti, non potendosi, in sede di sospensione, valutare la fondatezza o meno della pretesa, tanto è vero che altri giudizi relativi a diverse annualità di imposta erano stati sospesi dalla Commissione Tributaria in applicazione della disposizione invocata.

2.1. Sul punto appaiono del tutto corretti sia la motivazione della sentenza di primo grado laddove esclude il rapporto di pregiudizialità sulla base della valutazione in concreto della materia del contendere che aveva consentito di escludere, valutando le prove raccolte nel presente giudizio, la esistenza di un credito IVA della società D. per l’anno 2002 e la applicabilità del condono tombale in materia di Iva, sia i rilievi della Agenzia delle Entrate resistente in merito alla incompatibilità del condono in materia di IVA con la normativa comunitaria.

2.2. Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, anche alla luce della pronuncia della Corte Cost. n. 247 del 2011, il condono della L. n. 289 del 2002, ex art. 9, elide in tutto o in parte i debiti del contribuente verso l’erario, ma non opera sui suoi crediti, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 10, lett. a), dovendosi interpretare la previsione della norma citata, comma 9, – secondo cui “la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate” – nel senso che tale definizione non sottrae all’Amministrazione il potere di contestare il credito esposto dal contribuente e, quindi, di emettere avvisi di recupero delle agevolazioni da esso indicate (Cass., n. 22436 del 4.11.2016; n. 16157 del 3.8.2016).

2.3 E’ inoltre consolidato pure l’orientamento di questa Corte, in base al quale, trattandosi di tributo armonizzato, la norma condonistica è ritenuta incompatibile con l’ordinamento comunitario, in quanto comportante una rinuncia generale ed indiscriminata all’accertamento delle relative operazioni imponibili, tale da integrare un inadempimento agli obblighi che incombono sullo Stato italiano in forza della Dir. del Consiglio 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 2, n. 1, lett. a), c) e d), e artt. 193 – 273, relativa al sistema d’imposta sul valore aggiunto, che hanno sostituito, dal 1 gennaio 2007, della sesta Dir. del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, artt. 2 e 22, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (CGUE 11 dicembre 2008, C-174/07). E’ stato anche precisato che l’inefficacia del condono si estende alle sanzioni connesse alle violazioni della disciplina concernente l’IVA (CGUE 17 luglio 2008, C-132/06; Cass. nn. 19546/11; 22250/11; 27314/14). Il rilevato contrasto con l’ordinamento comunitario comporta dunque l’obbligo, sia per il giudice che per l’amministrazione finanziaria, di non applicare le norme nazionali relative al suddetto condono, con conseguente “riespansione del potere accertativo dell’amministrazione finanziaria” (Corte cost, n. 247/11; Cass. su, nn. 3673-3677/10; Cass. nn. 24586-24587/10, 2915/13, 4858/15).

2.4. Ne consegue che tra il giudizio in esame e l’altro relativo all’impugnazione del diniego di condono non sussiste alcun nesso di pregiudizialità; ma lo stesso vale per il giudizio relativo alla impugnazione dell’accertamento IVA per l’anno 2002 poichè la sussistenza della pregiudizialità presuppone una valutazione in concreto, alla luce dello scopo dell’istituto che è quello di evitare il conflitto di giudicati, sicchè può trovare applicazione solo quando in altro giudizio debba essere decisa con efficacia di giudicato una questione pregiudicante.

2.5. Peraltro la richiesta di sospensione del presente giudizio è ormai superata poichè entrambe le controversie sono state decise da questa Corte in senso sfavorevole alla contribuente con le sentenze n. 18816 del 2017, che, decidendo sulla impugnazione dell’accertamento a carico della D. per l’anno 2002, ha escluso la esistenza del diritto alla detrazione IVA per l’anno 2002 e n. 19834 del 2017 che, ritenuta la mancanza di soggettività tributaria in capo alla D., ha escluso la validità della istanza di condono presentata dalla stessa società sempre per l’anno 2002.

3. Con il secondo motivo è stata denunciata la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che la CTR aveva ritenuto sussistenti i presupposti del raddoppio dei termini per l’accertamento sulla base della disciplina transitoria contenuta nel D.Lgs. n. 128 del 2015, pur trattandosi di disposizione incostituzionale a causa di una ingiustificata disparità di trattamento fra contribuenti e non essendo stata replicata con la successiva modifica introdotta con la legge di stabilità del 2016, per cui avrebbe dovuto applicarsi la norma nella formulazione vigente alla attualità.

3.1. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nella versione applicabile ratione temporis, prevede che i termini sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 (come nel caso in esame), incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, il cui art. 1, comma 132, ha introdotto, peraltro, un regime transitorio che si occupa delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio – non oggetto di abrogazione – di cui al D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, comma 3, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica nè agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 nè agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015 (Cass., n. 26037 del 16.12.2016; n. 16728 del 9.8.2016; da ultimo v. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 11620 del 14/05/2018 Rv. 648527 – 01). E’ stato altresì precisato che, in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma, nei testi applicabili ratione temporis, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., ord. n. 11171 del 30.5.2016). Nel caso concreto, dagli atti emerge, ed è incontestato, che sussistevano i presupposti della denuncia penale e che anzi il procedimento penale era iniziato e pendeva davanti al Tribunale penale in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, per cui il motivo di ricorso, in presenza di tutti i presupposti per applicare la disposizione transitoria, sulla cui costituzionalità si è pronuncia anche la Corte Costituzionale, è infondato.

4. E’ infondato anche il terzo motivo con cui è stata denunciata la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5, in ordine al superamento del termine per le ispezioni, il che rendeva illegittimo l’accertamento.

4.1. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, in tema di verifiche tributarie, la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 5, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, nè l’invalidità degli atti compiuti o l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati (Cass., n. 2055 del 17.1.2017; n. 7584 del 15.4.2015). Inoltre, parte ricorrente ha fondato il motivo sulla mera protrazione della verifica oltre il termine predetto, senza allegare se, alla denunciata violazione del termine stesso corrispondesse, nel caso concreto, la effettiva permanenza dei verificatori nei locali della impresa nel periodo indicato, ovvero se tale periodo dovesse invece essere riferito alla complessiva attività d’indagine svolta anche al di fuori dei locali della impresa dagli agenti della Guardia di Finanza, atteso che le garanzie di cui alla L. n. 212, si riferiscono espressamente agli “accessi, ispezioni e verifiche fiscali” eseguiti “nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali”, che debbono appunto essere giustificati da “esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo” (art. 12, comma 1), con la conseguenza che tali garanzie operano esclusivamente nella predetta ipotesi, escludendo, quindi, dal computo del termine di trenta giorni quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri luoghi (Cass., n. 14026 del 4.4.2012; SU, n. 18184 del 29.7.2013).

5. Con il quarto motivo viene dedotta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 3, e dell’art. 24 Cost., poichè le operazioni si erano svolte senza la previa comunicazione della autorizzazione del Pubblico Ministero.

5.1. La Agenzia controricorrente ha opposto che fin dal primo grado la Amministrazione Finanziaria aveva depositato copia della autorizzazione concessa dal Pubblico Ministero e di ciò da conto anche la sentenza impugnata (pag. 9 e pag. 10), il che dimostra la infondatezza della censura.

5.2 Peraltro, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, in tema di accertamenti tributari, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria alla trasmissione all’Amministrazione finanziaria degli atti d’indagine penale, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 3, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1, non va allegata, a pena di nullità, all’avviso di accertamento, trattandosi di atto che mira a salvaguardare gli interessi protetti dal segreto istruttorio, ma non anche a rendere conoscibili le ragioni della pretesa tributaria, sicchè la sua mancata conoscenza, da parte del contribuente, non viola la L. n. 212 del 2000, art. 7, (Cass., n. 12549 del 17.6.2016).

6. Con il quinto motivo e con il sesto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente, considerata la loro connessione, è stata denunciata, in entrambi i casi a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, omessa pronuncia e violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, con riguardo alla esposizione della ratio decisoria che aveva condotto i giudici a confermare la legittimità degli accertamenti e la concludenza delle prove offerte dalla Agenzia, anche perchè, già con riguardo alla conoscenza del verbale di constatazione, era carente la affermazione della sentenza per cui il pvc sarebbe stato conosciuto dagli organi societari in quanto tutti e tre le società avevano lo stesso amministratore.

6.1. I suddetti motivi sono inammissibili, sia perchè trascurano l’articolata motivazione resa sul punto dal giudice d’appello – non cogliendone, apparentemente, la portata complessiva – sia perchè, sotto la veste formale di una censura di omessa pronuncia (fra l’altro già prima facie completamente destituita di fondamento posto che il ricorso trascrive stralci della motivazione del tutto eloquenti in merito alle ragioni per cui è stato confermato da entrami i giudici di merito l’impianto probatorio offerto dagli accertamenti), contestano in realtà la valutazione dei fatti e del materiale probatorio da parte del giudice di secondo grado, in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non può costituire uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio, essendo perciò inammissibile il ricorso che tenda a sollecitare una nuova valutazione di risultanze di fatto. Le ricorrenti si dolgono del fatto che l’onere della prova spettava all’Ufficio ma è appunto questo che è stato sostenuto dai giudici di appello i quali hanno poi autonomamente esaminato, da pagina 20 a pagina 25 della sentenza, il materia probatorio versato in atti dalla Agenzia delle Entrate (riportato nella prima parte della sentenza) per desumerne, con giudizio critico, che era stata raggiunta la piena prova (pag. 25 della sentenza) della inesistenza delle operazioni e del coinvolgimento attivo delle società ricorrenti nelle operazioni ed hanno altresì indicato i principi giuridici (del tutto corretti ed elaborati dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte, ampiamente richiamata) di cui hanno fatto applicazione in materia di operazioni soggettivamente inesistenti e di prova del dolo specifico in capo alle società coinvolte, che, fra l’altro avevano la stessa compagine societario ed un amministratore comune.

6.3. Quanto poi al rilievo concernente la “precarietà dell’impianto argomentativo della sentenza laddove rileva che il processo verbale di constatazione risulta perfettamente conosciuto da tutti gli organi societari che si identificano nella medesima persona fisica per tutte e tre le società” è opportuno aggiungere che tale considerazione si innesta sulla doglianza relativa alla mancata allegazione del pvc all’accertamento (pag. 19 della sentenza impugnata), questione peraltro non riproposta con il ricorso per cassazione e non ha quindi alcuna attinenza con il vizio di motivazione della sentenza.

7. Con il settimo motivo la ricorrente lamenta violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19,21 e 26, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la sentenza impugnata riconosciuto alla Far Sud la detrazione IVA in relazione ai beni acquistati pur avendo la D. fatto confluire l’IVA a debito fra gli importi a debito nelle liquidazioni periodiche, non essendovi, comunque, alcuna prova che la D. fosse una società “cartiera”.

7.1. La sentenza impugnata ha rilevato che era stato in realtà provato che la D. era inattiva e che le società, che facevano capo allo stesso amministratore ed alla stessa compagine societaria, avevano ideato e realizzato un meccanismo fraudolento al fine di evadere gli obblighi fiscali attraverso operazioni commerciali di cessione di beni.

7.2. Con tale motivazione della sentenza impugnata non si confrontano le ricorrenti, le quali deducono il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, senza però considerare che esso deve investire immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, mentre le ricorrenti, in concreto, si dolgono soltanto del fatto che le sentenze di merito avessero erroneamente ritenuto la inesistenza soggettiva del credito e il suo utilizzo per finalità illecite attraverso una società “cartiera”, il che, attenendo ad un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, è, invece, esterno all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (v., per tutte, da ultimo Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019 Rv. 652398 – 01).

7.3. Il motivo è pertanto inammissibile, considerato pure che la regola di diritto che le ricorrenti vorrebbero trarre dalla norma non è quella che deriva dalla norma stessa, sulla base della interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza consolidata di questa Corte in aderenza alla normativa comunitaria, per cui, se è vero che, in tema di IVA, il diritto del contribuente alla relativa detrazione costituisce principio fondamentale del sistema comune Europeo – come ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (sentenze 6 luglio 2006, in C-439/04 e C-440/04, 6 dicembre 2012, in C-285/11, 31 gennaio 2013, in C-642/11) – e non è suscettibile, in linea di principio, di limitazioni, peraltro l’Amministrazione finanziaria, ove ritenga che il diritto debba essere negato attenendo la fatturazione ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche avvalendosi di presunzioni semplici, che le operazioni non sono state effettuate o, nella seconda ipotesi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore; per cui, laddove tale prova sia fornita dalla Amministrazione, come è stato ritenuto dalle due conformi sentenze di merito nel caso in esame, la detrazione non è possibile (v. Sez. 5, Sentenza n. 24426 del 30/10/2013 Rv. 629419 – 01). Ed è stato altresì aggiunto che, al fine di ritenere la buona fede del contribuente, non è neppure sufficiente dedurre che la merce sia stata consegnata e rivenduta e la fattura, IVA compresa, effettivamente pagata, poichè trattasi di circostanze pienamente compatibili con la frode fiscale perpetrata mediante un’operazione soggettivamente inesistente (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20059 del 24/09/2014 Rv. 632476 – 01). Tanto più che, in tema d’IVA, è precluso al cessionario dei beni il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, nonostante i beni siano entrati effettivamente nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, poichè l’indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20060 del 07/10/2015 Rv. 636663 – 01); il che determina, pure, in conseguenza, la irrilevanza delle argomentazioni addotte dalla ricorrente – peraltro senza alcun riferimento ad una elaborazione giurisprudenziale di legittimità che non trovano riscontro nel diritto vivente.

8. L’ottavo motivo di ricorso deduce la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, sul divieto di doppia imposizione poichè, avendo la D. adempiuto ai propri doveri fiscali, la stessa imposta non poteva essere richiesta una seconda volta all’acquirente.

8.1. Anche tale motivo è infondato. E’ infatti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio, applicato correttamente dalla sentenza impugnata, per cui l’avviso di accertamento per il recupero d’IVA non versata, emesso nei confronti di società che ha effettuato cessioni di beni, non può essere ritenuto illegittimo in quanto analoga azione è stata avviata nei confronti del cessionario, atteso che non sussiste, in tale ipotesi, alcuna violazione del divieto della cd. doppia imposizione, ravvisabile solo quando una medesima imposta gravi sullo stesso soggetto e non già invece quando l’ente impositore la richieda a persone diverse. In quest’ultimo caso, individuato il soggetto effettivamente debitore, l’estraneo maturerà il diritto a richiedere il rimborso di quanto eventualmente versato (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 18917 del 24/09/2015 Rv. 636544 – 01). Ciò in quanto la doppia imposizione si verifica soltanto nell’ipotesi di due avvisi di accertamento che assoggettino a tassazione il medesimo presupposto, non quando l’imposta venga chiesta in pagamento a fronte di due diversi titoli a due soggetti diversi (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 27625 del 30/10/2018 Rv. 651079 – 01; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 18917 del 24/09/2015 Rv. 636544 – 01).

8.2. Pare che le ricorrenti vogliano adombrare che la D. avrebbe versato l’IVA, ma la sentenza impugnata dà atto, con accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, che si trattava di un credito fittizio per operazioni inesistenti a fronte del quale nessun versamento era mai avvenuto.

9. Con il nono motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 11, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo alla motivazione della sentenza impugnata laddove aveva confermato la legittimità del ruolo straordinario emesso per il recupero delle somme accertate nei confronti della società F. S. per gli anni 2005 e 2006, sulla base della estrema rilevanza delle somme dovute (dieci milioni di Euro), della mancanza di qualsiasi garanzia e della pericolosità del meccanismo fraudolento posto in essere dalle società del gruppo R.R. la cui operatività risultava ancora in grado di potere sottrarre garanzie alla Amministrazione Finanziaria, senza però considerare che le suddette società erano state interessate da misure cautelari penali con la nomina di amministratori – custodi giudiziali.

9.1. Il motivo è inammissibile poichè, sotto il profilo della violazione di legge, viene in realtà dedotto un vizio di motivazione della sentenza con riguardo al “fondato pericolo della riscossione” che avrebbe potuto giustificare il pericolo della riscossione, specie a seguito della modifica normativa del 2012 dell’art. 360 c.p.c., n. 5, poichè una motivazione è ben presente. In ogni caso anche il riferimento, da parte della sentenza impugnata, alla operativa delle società è del tutto corretto se si considera che, come risulta dalla intestazione del ricorso, la nomina dell’amministratore giudiziario è avvenuta solo a novembre del 2014, molti anni dopo dalla emissione del ruolo straordinario ed addirittura dopo la emissione della sentenza di primo grado; per cui la ricorrente avrebbe eventualmente dovuto dedurre, successivamente, la sopravvenuta illegittimità del ruolo, così come avviene qualora venga annullato l’accertamento sulla cui base è stato emesso il ruolo.

10. Anche il decimo motivo è inammissibile poichè viene dedotta, sempre sotto il profilo della violazione di legge, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, per omessa indicazione nella cartella di pagamento conseguente a ruolo straordinario del tasso degli interessi iscritti a ruolo e del calcolo degli stessi e su tale censura, dedotta con specifico motivo di appello, la sentenza impugnata si era limitata a sostenere, erroneamente, che il calcolo degli interessi si evinceva facilmente dalla indicazione delle somme e dei periodi precisati in cartella quanto alla data di scadenza. Si tratterebbe, infatti, pure in tal caso, di un eventuale vizio di motivazione della sentenza peraltro insussistente. Peraltro occorre rilevare, come correttamente rilevato dalla Agenzia delle Entrate nelle controdeduzioni, l’iscrizione nei ruoli straordinari dell’intero importo delle imposte, degli interessi e delle sanzioni, risultante dall’avviso di accertamento non definitivo, prevista, in caso di fondato pericolo per la riscossione, dal D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 11 e 15 bis, costituisce misura cautelare posta a garanzia del credito erariale, per cui con il ruolo straordinario vengono iscritti gli interessi risultanti dall’accertamento già notificato alla parte, la quale avrebbe potuto e dovuto muovere la contestazione nei confronti dell’atto pregresso, se in ipotesi non avesse contenuto il calcolo degli interessi poi pedissequamente riprodotti nel ruolo, e non in relazione alla cartella pagamento, in base al principio, discendente dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, u.c., per cui ogni atto tributario è impugnabile esclusivamente per vizi propri la cui legittimità dipende pur sempre da quella dell’atto impositivo presupposto, che ne è il titolo fondante. Tanto più che la giurisprudenza citata dalla ricorrente è del tutto inconferente posto che riguarda la ipotesi di mancanza di qualsiasi elemento che consenta di ricostruire il calcolo, mentre nella specie viene addotto soltanto che la cartella non avrebbe riportato il tasso applicato, in presenza di tutti gli altri elementi di calcolo e l’orientamento più recente di questa Corte è nel senso che, essendo il criterio di liquidazione predeterminato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 20, esso si risolve in una mera operazione matematica nel caso in cui si tratti di imposta già dichiarata o già accertata (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 6812 del 08/03/2019 Rv. 653315 – 01).

11. Infine, con l’ultimo motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, comma 1, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poichè la suddetta norma prevede per la punibilità delle violazioni il dolo o quanto meno la colpa, mentre nella specie le ricorrenti si sarebbero limitate ad effettuare operazioni commerciali nel pieno rispetto delle previsioni legislative.

11.1. Il motivo è ugualmente inammissibile considerato che la sentenza impugnata ha fatto applicazione di corretti principi giuridici ed ha ritenuto la sussistenza del dolo sulla base di prove specificamente indicate in sentenza di cui non si fa alcun carico il ricorso.

12. Il ricorso deve essere in definitiva respinto.

13. Le spese seguono la soccombenza, con la conseguente applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in ordine al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

PQM

La Corte: Rigetta il ricorso, Condanna le parti ricorrenti al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida nella somma di Euro 23.490,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2019

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