Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31634 del 06/12/2018

Cassazione civile sez. II, 06/12/2018, (ud. 26/09/2018, dep. 06/12/2018), n.31634

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 19598/’15) proposto da:

L.J.F., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e

difesa, in forza di procura speciale in calce al ricorso, dagli

Avv.ti Aldo Angelo Dolmetta, Marco B. Salomone e Claudio

Scognamiglio, elettivamente domiciliati presso lo studio del terzo,

in Roma, corso V. Emanuele II, 326;

– ricorrente –

contro

CONSOB, (C.F.: (OMISSIS)), in persona del Presidente e legale

rappresentante p.t., rappresentata e difesa, in virtù di procura

speciale a margine del controricorso, dagli Avv.ti Salvatore

Providenti, Paolo Palmisano e Clementina Scaroni ed elettivamente

domiciliata presso la propria sede, in Roma, alla v. G.B. Martini,

n. 3;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 154/2015,

depositata il 2 febbraio 2015 (e non notificata);

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 26

settembre 2018 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Celeste Alberto, che ha concluso, in via principale,

per l’inammissibilità del ricorso e, in subordine, per il rigetto

del ricorso;

uditi l’Avv. Francesca Latino (per delega) nell’interesse della

ricorrente e gli Avv.ti Salvatore Providenti e Paolo Palmisano per

la controricorrente Consob.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con Delib. n. 18839 del 20 marzo 2014 (notificata il 25 marzo 2014), la CONSOB applicava nei confronti di L.J.F. la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 250.000,00 congiuntamente alla sanzione interdittiva di mesi sei prevista dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-quater (d’ora in poi T.U.F.) in relazione all’illecito amministrativo di cui all’art. 187-ter stesso T.U.F., comma 1 per aver – nella qualità di Presidente e Amministratrice delegata della Fondiaria Sai (società quotata in borsa) – diffuso false informazioni in ordine alla rappresentazione della riserva sinistri r.c. auto nel bilancio consolidato del 2010 della società e, quindi, informazioni suscettibili di fornire al mercato indicazioni inveritiere e fuorvianti in merito al prezzo delle azioni della suddetta società amministrata.

Con successivo ricorso notificato il 13 maggio 2014 alla ingiungente CONSOB, la L. impugnava l’anzidetta delibera dinanzi alla Corte di appello di Milano, formulando una serie di censure (di cui due, poi, oggetto di rinuncia), mediante le quali contestava la sussistenza delle violazioni attribuitele con riferimento alla ritenuta configurazione sia dell’elemento oggettivo (eventualmente imputabile all’attuarlo incaricato di esercitare la funzione di controllo sull’attività di impresa) che di quello soggettivo in ordine alla condotta della “sottoriservazione”.

Nella costituzione della resistente CONSOB, l’adita Corte di appello di Milano, con sentenza n. 154 del 2015 (depositata il 2 febbraio 2015), rigettava integralmente l’atto di opposizione avanzato dalla L., che condannava al conseguente pagamento delle spese giudiziali, disponendo la pubblicazione del provvedimento per estratto sul Bollettino Consob.

A sostegno della ravvisata infondatezza del ricorso la Corte ambrosiana osservava, in primo luogo, che l’esistenza della sottoriservazione nel bilancio societario del 2010 era stata sufficientemente indagata ed accertata dalla Consob e che la stessa si era concretata attraverso la violazione delle norme regolamentari ISVAP, venendo a costituire il presupposto logico-giuridico dell’esposizione nel suddetto bilancio di un dato contabile non corrispondente al vero e, perciò, in grado di incidere in modo fuorviante sul mercato mediante l’esposizione di un valore non reale delle azioni societarie.

Il giudice dell’opposizione valutava, inoltre, come infondata la doglianza circa l’inattribuibilità della condotta in capo all’opponente, la quale aveva sostenuto che il relativo obbligo di vigilanza incombeva all’attuarlo, da considerarsi – in relazione al disposto dell’art. 37 c.d. codice delle assicurazioni (D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209) – titolare della relativa competenza in via specifica ed esclusiva. Infatti, diversamente dalla prospettazione della ricorrente, la Corte milanese evidenziava che, in effetti, la suddetta norma regolatrice non legittimava una interpretazione conforme a quella operata dalla difesa della L., poichè essa implicava, comunque, l’esercitabilità di un potere di indirizzo e di controllo degli organi societari sull’attività e sulle modalità di esplicazione del ruolo dell’attuarlo. Pertanto – in sintonia con quanto dedotto dalla Consob – si sarebbe dovuto più correttamente ritenere che la valutazione della sufficienza delle riserve nelle società che svolgono attività di impresa assicuratrice deve essere considerata come il “frutto di un processo multifase diretto e governato dall’organo gestorio”, essendo quest’ultimo l’effettivo destinatario degli obblighi imposti dalla normativa di settore, con la conseguente ascrivibilità allo stesso – e, quindi, nel caso di specie, alla L.J. – della responsabilità del processo di determinazione della riserva.

Quanto all’assunta carenza dell’elemento soggettivo la Corte del capoluogo lombardo osservava che, trattandosi di condotte integranti illecito amministrativo, si sarebbe dovuto applicare il principio della presunzione di colpa, operante in concreto in difetto dell’allegazione di una prova contraria da parte dell’autrice, la quale non aveva offerto un idoneo riscontro circa la sua estraneità al processo di determinazione delle riserve, invero riconducibile, nella realtà dei fatti e sul piano dei relativi obblighi giuridici, al Consiglio di amministrazione di Fonsai s.p.a. di concerto con l’attuarlo (il quale, peraltro, aveva già segnalato – precedentemente allo svolgimento degli accertamenti da parte della Consob – alcune criticità nella individuazione delle riserve).

Avverso la suddetta sentenza (non notificata) ha proposto ricorso per cassazione la signora L.J.F., articolato in cinque motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata CONSOB.

Il ricorso veniva fissato, ai fini della sua trattazione, per la pubblica udienza del 7 novembre 2017, ma – all’esito della sua celebrazione – con ordinanza interlocutoria n. 6543/2018 ne veniva disposto il rinvio a nuovo ruolo in attesa delle decisioni della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE investita di quattro rinvii pregiudiziali aventi ad oggetto la questione sulla compatibilità di sistemi di doppio binario sanzionatorio nell’ordinamento italiano con il divieto del “ne bis in idem” sancito, nell’ordinamento Eurounitario, dall’art. 50 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

A seguito della definizione dei predetti rinvii pregiudiziali si è provveduto alla rifissazione dell’udienza pubblica per il 26 settembre 2018, in prossimità della quale entrambe le difese hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che aveva costituito oggetto di discussione tra le parti, ovvero di quello relativo all'(in)sussistenza della sottoriservazione.

A tal proposito la difesa della L. deduce che la Corte di appello di Milano si era limitata a ritenere comprovata l’esistenza della sottoriservazione nel bilancio 2010 sulla base delle indagini e degli accertamenti della CONSOB e dei rilievi effettuati dall’ISVAP, senza tener conto degli esiti del parallelo procedimento penale, nell’ambito del quale la competente Procura della Repubblica – in sede di conclusioni rese all’udienza preliminare – aveva escluso la sussistenza della contestata sottoriservazione, non essendo emersa un’adeguata prova al riguardo e, quindi, della conseguente configurazione della fattispecie correlata della manipolazione di mercato.

2. Con il secondo motivo – riferito all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – la ricorrente ha dedotto (anche a prescindere dalla prima censura) la violazione e falsa applicazione (e, comunque, la derivante nullità della sentenza impugnata) con riferimento agli artt. 37 cod. ass. e capo 2, titolo 2 Reg. ISVAP n. 16/2008 sui criteri di riservazione, prospettando l’insussistenza, in ogni caso, della sottoriservazione.

Secondo la difesa della L. il predetto regolamento ISVAP (cui rinvia il richiamato art. 37 cod. ass.) non indicherebbe, in effetti, specifici metodi di calcolo della riserva sinistri ma solo “laschi” principi riportati sotto le denominazioni di “analiticità”, “prudenza”, “obiettività” e “competenza”, che, nella sentenza impugnata, non erano stati adeguatamente considerati e valorizzati, risultando, peraltro, gli esiti degli accertamenti CONSOB in contrasto con la relazione dell’attuarlo incaricato, il quale aveva ritenuto che i rilievi dell’ISVAP contenevano errori tecnici e procedurali, oltre a manifestarsi come infondati nel merito, ragion per cui si sarebbe dovuta escludere la sussistenza di una (pretesa) insufficienza della riserva sinistri RCA.

3. Con la terza doglianza la ricorrente ha prospettato il vizio di nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) con riguardo alla ritenuta esistenza di un’ammissione della sottoriservazione, che, invece, non avrebbe potuto essere desunta dalla documentazione acquisita e dallo svolgimento degli accertamenti e, comunque, dal contenuto delle dichiarazioni dell’attuarlo revisore della Compagnia assicuratrice non identificabile con il legale rappresentante della stessa.

4. Con la quarta censura la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) degli artt. 34 e 37cod. ass. non includenti il D.M. n. 99 del 2008, art. 17, comma 4, sui criteri di riservazione e, comunque, per insussistenza della sottoriservazione, avendo la Corte milanese sottovalutato l’autonomia e la rilevanza della funzione dell’attuarlo incaricato rispetto all’organo gestorio dell’impresa assicurativa – accollando a quest’ultimo un obbligo di vigilanza e di controllo sull’attività del primo -, malgrado l’attuarlo (munito di una competenza esclusiva al riguardo) debba considerarsi – per legge – il centro decisionale di fondo del processo di determinazione delle riserve sinistri, evidenziandosi anche che il citato art. 37, comma 2, non attribuisce al consiglio di amministrazione della società il potere-dovere di discostarsi dalle valutazioni del medesimo attuarlo in ordine alla sufficienza delle riserve.

5. Con il quinto ed ultimo motivo la difesa della ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) dell’art. 2392 c.c., art. 187-ter T.U.F. e della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies avuto riguardo alla ritenuta sussistenza in capo alla stessa L. dell’elemento soggettivo delle violazioni a lei ascritte, senza, tuttavia, considerare che alla medesima non si sarebbe potuta attribuire alcuna negligenza poichè le sue “specifiche competenze” erano del tutto inidonee ad effettuare una valutazione di merito su quanto accertato dall’attuario.

6. Rileva il collegio che, prima di esaminare i motivi del ricorso (i quali, diversamente da quanto prospettato dalla difesa della Consob, risultano ritualmente proposti e rispettosi del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., con particolare riferimento all’osservanza dei requisiti di cui al comma 1, nn. 3 e 4 oltre che di quello della sufficiente specificità), occorre farsi carico della formulata istanza – contenuta nell’ultima memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. nell’interesse della ricorrente – di sospensione del presente giudizio in relazione all’art. 295 c.p.c., anche per effetto dell’esito dei rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’UE che avevano reso opportuno il differimento dell’udienza di discussione.

L’istanza non è meritevole di accoglimento, non sussistendone le condizioni.

Essa è stata prospettata sul presupposto dell’asserita pregiudizialità logico-giuridica della definizione di due procedimenti penali (che si assume essere relativi agli stessi fatti materiali per i quali è stata emessa la sanzione amministrativa da parte della Consob a carico della ricorrente) per i quali sono stati prodotti i seguenti atti:

– la sentenza n. 153421/2015 del Tribunale penale di Milano del 16 dicembre 2015 (depositata il 23 giugno 2016) nel procedimento n. 3304/14 RG-GIP, con la quale sono stati assolti L.G.P., Be.Pi. e G.F. dai reati loro ascritti per insussistenza dei fatti (decisione poi confermata dalla Corte di appello di Milano con sentenza il cui dispositivo pure allegato dalla ricorrente – è stato emanato in data 10 luglio 2018, con termine di 90 giorni per il deposito della motivazione), ancora non passata in giudicato (mentre risulta documentalmente accertato che sia divenuta irrevocabile – in data 22 luglio 2016 – la sentenza relativa allo stesso procedimento adottata nei confronti di FONDIARIA-SAI s.p.a. e dichiarativa del non luogo a procedere perchè il fatto non sussiste);

– l’atto di appello proposto nell’interesse della L.J. avverso la sentenza penale del Tribunale di Torino (V Sez.) pronunciata in data 11 ottobre 2016 (relativa al procedimento n. 21713/2013 R.G.N.R.) – ancora, quindi, neanche essa passata in giudicato – con cui l’imputata risulta essere stata condannata per il reato di manipolazione del mercato D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 185 nell’ambito della medesima vicenda.

Ciò premesso, si osserva – innanzitutto – che, proprio per effetto della non intervenuta irrevocabilità delle predette sentenze penali (e, in particolare, per quella intervenuta propriamente nei confronti dell’odierna ricorrente), non può trovare spazio, nel caso di specie, l’applicazione del c.d. principio del ne bis in idem.

Come è risaputo la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’UE è intervenuta (con le sentenze rese nelle cause C-524/15, Menci, C-537/16, Garlsonn Real Estate e a. e in quelle riunite C.596/16 e 597/16, Di Puma e Zucca) – dopo l’importante pronuncia della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo A. e B. contro Norvegia del 2016 – sulla compatibilità con il diritto dell’Unione del sistema italiano del c.d. doppio binario (sanzionatorio) penale/amministrativo, avendo riguardo specificamente al disposto dell’art. 50 CDFUE, il quale – è opportuno ricordarlo – così recita: nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge.

Per quanto qui rileva direttamente va sottolineato che la causa Garlsson Real Estate e a. (C-537/16) aveva ad oggetto la questione della compatibilità (o meno) fra l’illecito qualificato come amministrativo (ma ritenuto sostanzialmente penale) di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-ter e il delitto di manipolazione di mercato di cui all’art. 185 medesimo decreto legislativo, e ciò – si noti – con riferimento ad una concreta vicenda che vedeva i ricorrenti opporsi ad un provvedimento sanzionatorio emesso nei loro confronti dalla CONSOB, in un momento successivo a quello in cui il procedimento penale a loro carico si era concluso, in via definitiva, a seguito di sentenza di patteggiamento.

La citata sentenza A e B c. Norvegia aveva mutato profondamente la natura del ne bis in idem convenzionale, tramutandolo in buona sostanza da principio eminentemente processuale – divieto già del doppio processo (prima che della doppia sanzione sostanzialmente penale) per il medesimo fatto – a garanzia di tipo sostanziale: purchè la risposta sanzionatoria, derivante dal cumulo delle due pene inflitte nei diversi procedimenti, fosse proporzionata, infatti, nulla vietava ai legislatori nazionali di predisporre un doppio binario sanzionatorio, che fosse rispettoso dei criteri dettati dalla Corte di Strasburgo.

Tanto il concetto di sanzione penale, quanto quello di idem factum sono assunti dalla Corte di giustizia – nelle tre recenti sentenze della Grande Sezione – nel medesimo significato loro conferito dalla giurisprudenza di Strasburgo (che del resto si era mantenuta immutata sul punto): la Corte di Lussemburgo, in particolare, ha inteso riferire il concetto di idem factum al fatto storico in sè considerato e non alla sua qualificazione giuridica (cfr. Menci p.p. 34-39; Garlsson Real Estate e a. p.p. 36-41) e di ricercare nella sanzione qualificata come amministrativa, soprattutto, caratteri di afflittività (Menci p.p. 26-33; Garlsson Real Estate e a. p.p. 28-35).

Ebbene, già dal tenore letterale dell’art. 50 si evince come tutti i casi oggetto di rinvio ponevano un problema di interferenza con la citata norma, ammesso che le sanzioni irrogate nei diversi procedimenti potessero dirsi, effettivamente, relative a un idem factum e di natura sostanzialmente penale.

Il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali relative allo stesso fatto storico sottolinea, tuttavia, la Corte di giustizia – non costituisce tout court una violazione del bis in idem Europeo; esso può costituire, infatti, una semplice limitazione di tale diritto, purchè rispetti i requisiti dettati, in materia, dall’art. 52 p. 1 CDFUE, a mente del quale “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.

Da quanto sopra scaturisce che, affinchè le limitazioni imposte dal predetto art. 50 possano considerarsi conformi al diritto dell’Unione occorrerà afferma la Corte di Giustizia – che esse rispettino, congiuntamente, i seguenti requisiti: a) siano finalizzate – nel rispetto del principio di proporzionalità – a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare il cumulo (fermo restando che i procedimenti e le sanzioni devono avere scopi complementari); siano inoltre: al) previste da regole chiare e precise, tali da rendere prevedibile il ricorso ad un sistema di doppio binario sanzionatorio; a2) tali da garantire un coordinamento fra i due procedimenti relativi all’idem factum, in modo da limitare il più possibile gli oneri supplementari che il ricorso a tale sistema genera; a3) rispettose del principio di proporzione della pena, limitando a quanto strettamente necessario il complesso delle sanzioni irrogate. Si precisa, altresì, che la verifica circa il rispetto di tali requisiti spetta al giudice nazionale che potrà, ovviamente, valersi nell’opera di interpretazione del diritto UE del prezioso strumento del rinvio pregiudiziale.

Sulla scorta di tutte queste condizioni la Grande Sezione ha statuito il principio generale secondo cui “l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva”.

Chiarito ciò ed applicando la portata di questo arresto della giurisprudenza sovranazionale al caso di specie, è indubitabile che non possa per esso trovare applicazione la preclusione da ne bis in idem poichè non risulta provato che le due sentenze penali prodotte in giudizio siano passate in giudicato e, quindi, possano determinare un’efficacia immediata sulle sanzioni amministrative inflitte alla L.J., a cui carico pende ancora il giudizio di appello avverso la sentenza di condanna penale irrogata all’esito del giudizio di primo grado, senza oltretutto trascurare l’ininfluenza – al fine in questione – della vicenda penale nei confronti di L.P., Be.Pi. e G.F. siccome riferibile ad una condotta ascritta ad altri soggetti che impedisce la configurazione dell’idem factum.

All’auspicata sospensione osta anche il disposto dell’art. 187-duodecies TUF (rimasto invariato), a tenore del quale “il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all’art. 187-septies (nel quale si ricomprende anche l’eventuale fase giudiziale dinanzi alla Corte di cassazione, per effetto della ricorribilità delle decisioni delle Corti di appello) non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione”. Non può assumere, perciò, rilievo – come evincibile dalla citata sentenza Garlsonn – la “sequenza cronologica” con cui le due sanzioni (quella penale e quella amministrativa) vengono applicate, posto che – secondo, appunto, l’interpretazione della Corte di giustizia – sarà la sanzione del procedimento rimasto pendente a dover essere “rimodulata” ove essa, cumulata con la pena divenuta definitiva, ecceda i criteri di efficacia, proporzionalità e dissuasività, e tanto a prescindere dalla circostanza che la sanzione irrogata per prima sia quella (anche formalmente) penale o quella (sostanzialmente penale ma formalmente) amministrativa, o viceversa (nel qual caso l’eventuale sentenza di condanna penale potrà valorizzare i parametri di cui all’art. 133 c.p. per commisurare la pena alla gravità del fatto in base ai predetti criteri, tenendo conto anche della definitività della sanzione inflitta in sede amministrativa).

7. Ciò posto e passando alla disamina dei formulati motivi, osserva il collegio che il primo è infondato e deve essere respinto.

Infatti, diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, non risulta, nel caso di specie, invocabile l’assunta decisività del contenuto delle conclusioni del P.M. nell’invocato procedimento penale, dal momento che il fatto è riferibile ad un atto di una parte processuale formatosi successivamente alla sentenza impugnata, peraltro riferibile a valutazioni del P.M. nell’ambito di un procedimento penale oltretutto non direttamente pertinente ai fatti oggetto dell’ordinanza sanzionatoria (siccome l’opponente, per le relative vicende rilevanti in sede penale, era imputata in altro e diverso giudizio penale).

Del resto deve affermarsi, in generale, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, presuppone che emerga un “fatto decisivo” per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti e che non sia stato preso in considerazione dal giudice nella sentenza oggetto del ricorso per cassazione: deve, quindi, trattarsi di un fatto già noto ed acquisito nel corso del giudizio (e non in divenire, ovvero acquisibile agli atti del giudizio “prevedibilmente” solo in futuro), nel senso che abbia costituito oggetto della controversia di interesse, il che implica che esso deve essere stato già preventivamente allegato agli atti di causa nei precedenti gradi di giudizio (tanto è vero che la parte ricorrente per cassazione ha l’onere di indicare quando è stato dedotto in sede di merito).

Tutte queste condizioni non ricorrono nel caso di specie, donde il rigetto della censura in questione.

8. Anche il secondo motivo è destituito di fondamento e non merita, perciò, accoglimento.

Al di là dell’inconsistenza della dedotta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – nullità dell’impugnata sentenza siccome non riferita ad alcun vizio assoluto idoneo a comportare tale effetto invalidante, la doglianza si risolve, in effetti, in un’inammissibile richiesta di riesame delle valutazioni di merito compiute dalla Corte territoriale al fine di far emergere l’auspicata insussistenza della contestata operazione di sottoriservazione.

Invero, la Corte di appello di Milano, nell’impugnata sentenza, ha – mediante un adeguato procedimento logico-argomentativo fondato su idonei accertamenti fattuali acquisiti sulla scorta di risultanze conseguenti alla legittima ammissione di mezzi di prova (e, in particolare, dei conferenti documenti prodotti in giudizio) – ravvisato la sussistenza dell’illegittimità della condotta ascritta alla L.J. con riferimento alla configurazione della suddetta operazione.

Infatti, in virtù dei riscontri probatori idoneamente valorizzati, la Corte ambrosiana ha dato conto degli elementi da cui poteva desumersi l’esistenza della sottoriservazione nel bilancio 2010 come accertata in seguito ai controlli effettuati dalla Consob, partendo dall’evidenziazione della pubblicazione appositamente sollecitata dalla stessa Consob in base ai rilievi mossi dall’Isvap – di un’apposita situazione contabile pro-forma che aveva comportato per la società una riduzione del patrimonio netto nella misura del 13,29% con perdite di esercizio rideterminate in Euro 1.267,861 milioni di Euro a fronte dell’importo di 928,861 milioni di Euro dichiarato nel bilancio consolidato del 2010. In tal modo, in conseguenza di questa nuova valutazione patrimoniale assunta dalla Fonsai sotto la sua responsabilità, tale società aveva contravvenuto al disposto dell’allora vigente D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 37 senza rispettare, altresì, i metodi di calcolo indicati nel regolamento Isvap allo scopo di consentire l’adeguata costituzione delle riserve tecniche in grado di far fronte agli impegni derivanti dai contratti in corso e, quindi, di iscrivere a bilancio un valore che potesse essere considerato obiettivamente congruo. Da ciò era scaturito che l’operazione di sottoriservazione, compiuta in violazione del suddetto regolamento, aveva realizzato il presupposto logico-giuridico dell’esposizione nel bilancio consolidato del 2010 di un dato contabile non corrispondente, in effetti, a quello reale, siccome apparentemente orientato ad esteriorizzare una situazione patrimoniale molto più positiva di quella effettivamente reale, in tal modo risultando idonea a fuorviare il mercato sul valore delle azioni della società, con la conseguente configurazione del contestato illecito amministrativo di manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187-ter TUF (sulla rilevanza del termini riferibili alla falsità o al carattere fuorviante delle notizie incidenti sull’andamento dei mercati e sul rapporto tra gli stessi cfr. Cass. n. 9644/2016).

9. Pure il terzo motivo non coglie nel segno, anch’esso risolvendosi, in effetti, in una richiesta di rivalutazione di merito sulla configurazione del predetto illecito. In ogni caso, il riferimento ad una ritenuta esistenza di un’ammissione della sottoriservazione che sarebbe stata compiuta dalla Corte territoriale (v. pag. 4 dell’impugnata sentenza), al di là della sua esternazione ad abundantiam nell’ambito del complessivo iter logico seguito dalla Corte milanese, sta ad indicare che, in effetti, detto giudice aveva tratto convincimento per pervenire alla relativa decisione anche valutando le risultanze desumibili dalla documentazione prodotta dalla stessa società mediante l’allegazione delle relazioni dei propri attuari, dalle quali era possibile evincere il riscontro alla presenza della sottoriservazione già indagata ed accertata dalla Consob.

10. Anche la quarta censura è da ritenere infondata e, quindi, da respingere.

Contrariamente a quanto assunto nell’interesse della ricorrente, la Corte territoriale – nell’enucleare il ruolo dell’attuarlo nell’organizzazione delle società per azioni quotate in borsa – ha correttamente escluso che tale figura possa considerarsi come l’unico “centro decisionale competente” a valutare (e, quindi, determinare) la consistenza delle riserve secondo la previsione di cui all’art. 37 (previgente e “ratione temporis” applicabile) del c.d. codice delle assicurazioni. Il comma secondo di tale disposizione sanciva che: “nei confronti dell’impresa che esercita l’attività nei rami relativi all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dei veicoli e dei natanti la valutazione sulla sufficienza delle riserve tecniche spetta all’attuarlo incaricato, che esercita la funzione di controllo in via permanente, per consentire all’impresa di effettuare, con tempestività, gli interventi necessari. A tale fine l’attuarlo incaricato ha l’obbligo di informare prontamente l’organo con funzioni di amministrazione e l’organo che svolge funzioni di controllo dell’impresa qualora rilevi l’esistenza di possibili condizioni che gli impedirebbero, a quel momento, di formulare un giudizio di piena sufficienza delle riserve tecniche in base ai principi da rispettare per la redazione dell’apposita relazione tecnica. L’impresa, se non è in grado di rimuovere le cause del rilievo o se non condivide il rilievo stesso, ne dà pronta comunicazione all’ISVAP”.

Orbene, la Corte di merito ha, al riguardo, anzitutto, posto in risalto come la condotta illecita contestata all’odierna ricorrente trovava proprio il suo presupposto nella sottoriservazione, la quale non poteva non essere imputata agli organi deputati alla concreta gestione della società (e, in primis, al suo Presidente e/o amministratore delegato), indipendentemente dall’attribuzione di uno specifico addebito all’attuarlo che abbia proceduto alla materiale determinazione della sottoriservazione, il quale – invero – non vi provvede in modo del tutto autonomo ed in via esclusiva, senza, cioè, che in ordine al suo operato gli organi sociali siano esentati dall’esercizio del potere di indirizzo e di controllo. Questi, invece, sono da ritenersi effettivi e cogenti perchè è la società – attraverso i suoi organi rappresentativi e gestionalì – a stabilire i metodi ed i procedimenti per il calcolo delle riserve oggetto di verifica da parte dell’attuarlo, come prevede(va) l’art. 34, comma 3 stesso cod. ass.; ad effettuare gli interventi necessari nell’ipotesi di insufficienza della riserva; ad essere informata dall’attuarlo incaricato di eventuali condizioni ostative alla formulazione di un giudizio di adeguatezza della riserva; ad intervenire per la rimozione delle cause di una possibile insufficienza della riserva; – ad esprimere un giudizio di non condivisione dei rilievi dell’attuarlo e a segnalarlo all’Isvap; a iscrivere le riserve nel bilancio di esercizio da presentare all’assemblea per l’approvazione.

E’, pertanto, da condividere – e, quindi, da disattendere la doglianza in esame – la valutazione compiuta dalla Corte di appello di Milano nel conferire all’attuarlo un ruolo di ausiliario tecnico degli organi gestori dotato di cognizioni e competenze specifiche: sono, quindi, gli stessi organi gestori a dover essere considerati gli effettivi destinatari degli obblighi imposti (e, perciò, esposti alle conseguenze delle eventuali violazioni) dalla normativa di settore nel complesso processo multifase preposto a consentire la valutazione della sufficienza delle riserve nelle società che svolgono attività di impresa assicuratrice.

La Corte territoriale ha, inoltre, riscontrato – in virtù di conferenti accertamenti fattuali – l’infondatezza della prospettazione dell’assenza di delega in capo alla L. Jonella per quanto concerneva il procedimento di determinazione delle riserve, dal momento che era rimasto comprovato come, in effetti, la delibera riguardante la sua nomina non contenesse alcuna limitazione dei poteri attribuiti al Presidente del Consiglio di amministrazione di Fonsai s.p.a., collocandola, invece, al vertice amministrativo e gestionale della stessa società, posizione a cui si correlava l’assolvimento dell’obbligo di garantire una corretta formazione del bilancio e di controllare il processo di determinazione delle riserve in conformità ai termini e ai modi prescritti in materia.

11. Pure l’ultimo motivo circa la confutazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito in questione è infondato.

Infatti, come correttamente ritenuto dalla Corte milanese, oltre alla indiscutibile rilevanza giuridica dei predetti obblighi in capo agli organi gestori della società (e, in primo luogo, in capo alla ricorrente quale presidente-amministratrice delegata) che avrebbero dovuto essere adempiuti anche per effetto della segnalazione delle criticità nella determinazione delle riserve proveniente dall’attuarlo, in materia di illeciti amministrativi è pacificamente applicabile il principio – più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. S.U. n. 10508/1995; Cass. n. 1727/2004; Cass. S.U. n. 20943/2009, specificamente in tema di intermediazione finanziaria; Cass. n. 27432/2013 e Cass. n. 2406/2016) – posto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3 secondo cui per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva sia essa dolosa o colposa, deve essere inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa. Anche di recente è stato nuovamente statuito che, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il D.Lgs. n. 58 del 1998individua una serie di fattispecie a carattere ordinatorio, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate su mere condotte considerate doverose, sicchè il giudizio di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con limitazione dell’indagine sull’elemento soggettivo dell’illecito all’accertamento della “suitas” della condotta inosservante, per cui, una volta integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza (cfr. Cass. n. 4114/2016).

E tale presunzione di colpa, in ordine alla cui operatività la ricorrente non ha offerto alcuna idonea prova contraria (nel senso di non aver riscontrato positivamente di non aver potuto impedire il fatto illecito), ricorre certamente nel caso di specie laddove la determinazione delle riserve tecniche non era stata delegata specificamente ad altro amministratore bensì era stata svolta dall’organo gestionale-amministrativo (con in testa il presidente-amministratore delegato) in coordinamento – ma in funzione solo ausiliaria sotto il profilo tecnico – con l’attuario incaricato, come previsto dalla relativa normativa di riferimento. Ciò – come già sottolineato – comporta che la ricorrente avrebbe dovuto, nella predetta qualità, attivarsi per curare l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile al fine di dotare la società esercente l’impresa assicuratrice di una struttura tale da garantire un adeguato processo di determinazione della riserva sinistri per la RCA affinchè il prodotto finale di esso venisse soddisfatto nel rispetto della normativa di settore. Non essendo stato dimostrato l’assolvimento di tale obbligo da parte della ricorrente, la stessa deve considerarsi certamente tenuta a rispondere dell’illecito contestatole quantomeno a titolo di omissione colposa.

12. In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna della soccombente ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo.

Ricorrono, infine, le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 26 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2018

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