Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31627 del 06/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 06/12/2018, (ud. 31/10/2018, dep. 06/12/2018), n.31627

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15097/12 R.G. proposto da:

C.P., nato a (OMISSIS), e C.A., nata a

(OMISSIS), quali eredi di C.L., rappresentati e difesi

dall’avv. Angelo Ciavarella, giusta delega a margine del ricorso,

con domicilio eletto in Roma, via Beethoven, n. 52 presso lo studio

dell’avv. Rita Imbrioscia;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale

dell’Emilia Romagna n. 43/8/11 depositata in data 5 maggio 2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31.10.2018

dal Consigliere dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Fatto

RILEVATO

che:

I contribuenti C.P. e C.A. impugnavano il silenzio rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria alla domanda di rimborso finalizzata ad ottenere il recupero di un credito Irpef, relativo all’anno d’imposta 1995, sostenendo che il credito, pari a Lire 85.432.000, derivava dalla dichiarazione dei redditi presentata dal de cuius C.L., di cui erano eredi.

L’Agenzia delle Entrate replicava che il credito indicato in dichiarazione era frutto di errore verificatosi nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 1993 e protrattosi negli anni successivi.

La Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso con sentenza che veniva impugnata dai contribuenti dinanzi alla Commissione regionale, la quale rigettava l’appello, osservando che i contribuenti, a fronte delle eccezioni sollevate dall’Amministrazione, non erano stati in grado di provare il credito d’imposta.

I contribuenti ricorrono per la cassazione della suddetta sentenza, affidandosi a tre motivi, cui resiste la Agenzia delle Entrate mediante controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso, i contribuenti deducono “violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”.

Premettendo, in fatto, che la controversia scaturisce dall’omesso rimborso, da parte dell’Agenzia delle Entrate, della somma di Lire 85.432.000, risultante dalla dichiarazione dei redditi mod. 740/96- Redditi 1995 presentata dal de cuius C.L., e che l’Ufficio, con lettera del 15/9/2004, aveva comunicato “la proposta di rimborso relativa all’anno d’imposta indicato in oggetto risulta convalidata il 14 settembre 2004…”, evidenziano che l’Agenzia delle Entrate costituendosi nel giudizio di primo grado ha fatto presente che alla prima risposta positiva sulla spettanza del rimborso era seguita una ulteriore nota del 26/9/2005, secondo la quale il rimborso non era dovuto in quanto il defunto C.L. si sarebbe “erroneamente attribuito un credito di imposta certificato da Il Pantano s.r.l. che faceva riferimento alle Confezioni Folly, impresa individuale di proprietà del C. stesso, da questo regolarmente sommato tra le voci attive del Bilancio finale e indicato tra le voci in diminuzione nel quadro F relativo al reddito d’impresa”; nella medesima nota si leggeva pure che “tale erronea indicazione induceva in errore il contabile che confermava un’eccedenza a credito nell’anno 1994 non spettante e il sistema informativo dell’anagrafe tributaria che, con riferimento all’anno d’imposta 1995, indicava detta eccedenza come rimborso spettante, malgrado non fosse stato richiesto dal sig. C. stesso, con conseguente errata convalida in data 8 settembre 2004”.

I ricorrenti lamentano, quindi, che la Commissione regionale non ha rispettato le regole processuali in materia di prova, considerato che nel corso del giudizio di merito era stata depositata documentazione comprovante l’esistenza del credito, ed in particolare a) la dichiarazione dei redditi modello 740/94 – Redditi 1993 b) la dichiarazione dei redditi modello 740/95 – Redditi 1994 c) l’avviso di accertamento relativo all’anno 1993 d) l’annullamento in autotutela dell’avviso relativo all’anno 1993 e) la comunicazione di riconoscimento del credito d’imposta del 15 settembre 2004 e f) la dichiarazione dei redditi relativa all’anno 1995.

Ad avviso dei ricorrenti, pertanto, i giudici di appello hanno disatteso il disposto di cui all’art. 115 c.p.c., dando credito alle circostanze di fatto prospettate dall’Ufficio, ma non provate, ed ignorando il riconoscimento di debito dell’Agenzia delle Entrate e la documentazione prodotta che smentiva quanto affermato dall’Amministrazione.

2. Con il secondo motivo – rubricato: “violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 11, comma 3, con lo stesso T.U.I.R., art. 14 e con disposizioni transitorie al T.U.I.R., art. 21, comma 1, approvate con D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42 e dello stesso decreto, art. 4, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5” – ribadiscono che la sentenza impugnata non ha adeguatamente valutato la documentazione allegata.

Spiegano, al riguardo, che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 11, comma 3, stabilisce che “dall’imposta netta si detrae l’ammontare dei crediti d’imposta spettanti al contribuente a norma degli artt. 14…” e l’art. 14 riconosce al contribuente un credito d’imposta pari al 56,25% dei dividendi distribuiti – ratione temporis – dalle società di capitali; l’art. 14, comma 4, stabilisce che “ai soli fini dell’applicazione dell’imposta, l’ammontare del credito d’imposta è computato in aumento del reddito complessivo”.

3. Le prime due censure che possono essere trattate unitariamente, in quanto strettamente connesse, sono infondate.

4. Preliminarmente, va rilevato che è ammissibile il ricorso per cassazione il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, allorchè esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. n. 8915 del 11/04/2018; n. 9793 del 23/4/2013).

Nel caso di specie il primo motivo evidenzia profili attinenti la ricostruzione del fatto e contiene doglianze relative alla interpretazione ed applicazione di norme di legge, ed è, quindi, ammissibile.

5. Tutti i motivi sono, tuttavia, volti a ridiscutere il merito della controversia e sollecitano una nuova rivalutazione delle risultanze istruttorie – già esaminate dai giudici di appello – secondo la diversa prospettazione e ricostruzione dei fatti operata dalle parti ricorrenti.

Le censure esorbitano, infatti, dai limiti imposti al sindacato di legittimità, che è vincolato al controllo della conformità a diritto della decisione, e sono finalizzate a criticare il convincimento che il giudice si è formato in esito all’esame del materiale probatorio offerto dalle parti.

6. E’ assolutamente pacifico in giurisprudenza che la denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c. non si sostanzia in un vizio di “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, ma si traduce piuttosto nella denuncia di un “errore di fatto” che deve essere fatta valere attraverso il vizio motivazionale, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 5, n. 1 (Cass. 15107 del 17/6/2013; n. 19064 del 5/9/2006), con esclusione in ogni caso di una nuova valutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità; ciò comporta che non sono censurabili, attraverso la denuncia della violazione dell’art. 115, comma 1, c.p.c., presunti errori di convincimento che attengono alla maggiore rilevanza che si attribuisce ad alcune questioni o ad alcune prove (Cass. 21152 del 8/10/2014), essendo precluso nel giudizio di cassazione l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione ai fini istruttori.

7. Da quanto detto discende che deve ritenersi inammissibile il primo motivo, con il quale, attraverso la denuncia di violazione di norma processuale, si tende in realtà a contestare il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che, comunque, è infondato, considerato che i ricorrenti, limitandosi a richiamare la documentazione prodotta nel giudizio di appello – di cui peraltro la Agenzia delle Entrate contesta la tempestività, avendo dedotto che trattasi di documenti depositati solo all’udienza di discussione – non indicano in modo specifico gli errori in cui sarebbero incorsi i giudici di appello nel condividere la tesi difensiva esposta dall’Amministrazione, ma ribadiscono le argomentazioni difensive da essi già illustrate nel giudizio di merito e non ritenute dalla Commissione regionale sufficienti a dimostrare la sussistenza del credito d’imposta.

8. Va ritenuto inammissibile anche il secondo motivo, in quanto, sebbene i ricorrenti abbiano dedotto che i giudici di appello avrebbero violato o falsamente applicato le disposizioni di legge richiamate nella rubrica del ricorso, la doglianza concerne l’apprezzamento delle risultanze probatorie e si risolve nella richiesta di una inammissibile nuova valutazione delle circostanze di fatto già esaminate dai giudici di appello.

Infatti, con tale mezzo di ricorso i ricorrenti assumono, facendo riferimento alla contabilità dell’impresa individuale di cui era titolare C.L., che l’Ufficio e la Commissione regionale, non avendo piena conoscenza della disciplina della contabilizzazione dei crediti d’imposta sui dividendi, non avrebbero adeguatamente valutato gli elementi probatori allegati a supporto della domanda di rimborso e sollecitano, di conseguenza, un inammissibile riesame del contenuto della documentazione allegata.

Nel caso in esame, la Commissione regionale ha ritenuto, con accertamento in fatto, che i contribuenti non hanno provato la esistenza del credito d’imposta, considerando implicitamente non idonea a tal fine la documentazione prodotta, e, a fronte di tale motivazione che, seppure sintetica, risulta congrua ed immune da vizi logici, i ricorrenti hanno dedotto una erronea interpretazione applicativa delle norme che regolano i crediti d’imposta, senza fornire adeguata spiegazione delle ragioni per cui debba considerarsi erronea la accertata insufficienza probatoria.

9. Con il terzo motivo di ricorso, in via subordinata, i ricorrenti denunciano che i giudici di appello, aderendo alla tesi prospettata dall’Amministrazione, hanno violato il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis e art. 43, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto nessuna comunicazione è stata effettuata dall’Agenzia delle Entrate negli anni di imposta 1993, 1994 e 1995 da cui potesse evincersi un eventuale risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione dei redditi e che neppure l’Ufficio ha notificato un avviso di accertamento.

10. Anche la doglianza fatta valere con il terzo motivo è infondata.

10.1. Infatti, secondo le norme contenute nel D.P.R. n. 600 del 1973, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito d’imposta, non occorre, da parte sua, alcun adempimento, quale, in particolare, l’istanza del D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, ma deve solo attendere che l’Amministrazione finanziaria eserciti, sui dati esposti in dichiarazione, il potere-dovere di controllo secondo la procedura di liquidazione delle imposte, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis, ovvero, se ne ricorrono i presupposti, secondo lo strumento della rettifica della dichiarazione (Cass. n. 1154 del 21/1/2008).

10.2. Questa Corte ha pure affermato che “il termine stabilito nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, entro il quale l’Amministrazione finanziaria deve provvedere alla liquidazione dell’imposta, ha natura ordinatoria secondo l’interpretazione, avente efficacia retroattiva, che ne ha dato la L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 28, comma 1. Ne consegue che il credito esposto in dichiarazione non si consolida con lo spirare del predetto termine o perchè l’Amministrazione abbia omesso di procedere ad accertamento o rettifica nel termine stabilito nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, così come il diritto al rimborso del contribuente non è sottoposto al termine di decadenza, contenuto nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, ma esclusivamente all’ordinario termine di prescrizione decennale, ferma restando la facoltà dell’Ufficio di opporre eccezioni alla domanda di rimborso (Cass. n. 9524 del 22/4/2009; Cass. n. 2918 del 10/2/2010; Cass. n. 12557 del 17/6/2016).

Risulta, pertanto, del tutto irrilevante che l’Agenzia delle Entrate non abbia effettuato comunicazioni di eventuali rettifiche delle dichiarazioni dei redditi, nè emesso avviso di accertamento e, conseguentemente, la sentenza non è censurabile per erronea interpretazione applicativa delle norme che regolano i crediti d’imposta.

11. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido, al rimborso, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.200,00, oltre alle eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 31 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2018

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