Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31626 del 06/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 06/12/2018, (ud. 31/10/2018, dep. 06/12/2018), n.31626

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15040/12 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

L.A., rappresentato e difeso dagli avv.ti Bruno Anello e

Pietro Proto, giusta procura in calce al controricorso, con

domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Aldo Laudonio in Roma,

via delle Sette Chiese, n. 120;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della

Calabria n. 89/03/12 depositata in data 16 aprile 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31.10.2018

dal Consigliere dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Fatto

RILEVATO

che:

L.A., con due distinti ricorsi notificati alla Agenzia delle Entrate di Vibo Valentia ed alla Direzione Territoriale del Ministero dell’Economia e delle Finanze di Vibo Valentia, impugnava il silenzio rifiuto formatosi in conseguenza della istanza diretta ad ottenere il rimborso delle ritenute operate a titolo di Irpef ed altre imposte sull’ “assegno alimentare” attribuito dal Ministero della Giustizia a seguito di “sospensione cautelare facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio”, deducendo che, a norma del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 34, comma 3, “sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche e dall’imposta locale sui redditi nei confronti dei percipienti le somme corrisposte dallo Stato o da altri enti pubblici a titolo assistenziale” e che, di conseguenza, in ragione della sua natura assistenziale e non retributiva, l’assegno alimentare non era assoggettabile a ritenute previdenziali; chiedeva, pertanto, l’annullamento del silenzio rifiuto ed il rimborso delle somme trattenute a titolo di Irpef e di altri tributi sull’assegno alimentare, con decorrenza dal 10 gennaio 2009.

L’Agenzia delle Entrate eccepiva la mancanza di legittimazione passiva e la Ragioneria Territoriale dello Stato di Vibo Valenta, costituendosi in giudizio, si limitava a sostenere che “in base al dettato delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 300 del 1999 e successive modificazioni, questa Amministrazione difetta di legittimazione passiva nel giudizio”.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva i ricorsi riuniti e avverso la sentenza proponeva appello la Agenzia delle Entrate con ricorso notificato esclusivamente a L.A., evidenziando che il trattamento tributario dell’assegno alimentare era regolato dal T.U.I.R., art. 46 e contestando la formazione del silenzio rifiuto.

La Commissione regionale, accogliendo le eccezioni preliminari sollevate dall’appellato, dichiarava inammissibile l’appello per omessa notifica del ricorso alla Direzione Territoriale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che aveva partecipato al giudizio di primo grado, e per la novità delle eccezioni sollevate solo in secondo grado dall’Agenzia delle Entrate, in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57. Aggiungeva che l’appello appariva comunque infondato nel merito “per le condivisibili motivazioni della sentenza di primo grado” e che tutte le altre eccezioni restavano assorbite dalla accertata fondatezza delle eccezioni di inammissibilità.

L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione della suddetta decisione, con cinque motivi.

L.A. resiste con controricorso, eccependo in via preliminare la improcedibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., per omesso deposito, nel termine prescritto, degli atti sui quali esso è fondato.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Preliminarmente, va disattesa la eccezione di improcedibilità del ricorso, per violazione dell’art. 369 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto le Sezioni Unite (sentenza n. 22726 del 3/11/2011), con specifico riguardo al giudizio tributario, hanno affermato il principio secondo il quale “per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 25, comma 2, restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poichè detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369 c.p.c., comma 3, a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria, e neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte” (Cass. 28695 del 30/11/2017; Cass. n. 6021 del 25/3/2015, n. 16813 del 24/7/2014).

2. Anche la eccezione con la quale il controricorrente deduce il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado n. 343/1/11 pronunciata dalla C.T.P. di Vibo Valentia nei confronti della Direzione Territoriale del Ministero dell’Economia e Finanze di Vibo Valentia, per omessa proposizione dell’appello da parte di quest’ultima, è infondata.

2.1. Come affermato da questa Corte con sentenza n. 10746 del 16/5/2014, e, successivamente, con la sentenza n. 8196 del 22/4/2015, nel processo tributario, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 52, comma 2, non è più applicabile una volta divenuta operativa – in forza del D.M. 28 dicembre 2000 del Ministero dell’Economia – la disciplina recata dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, che ha istituito le Agenzie fiscali, attribuendo ad esse la gestione della generalità delle funzioni in precedenza esercitate dai dipartimenti e dagli uffici del Ministero delle Finanze e trasferendo alle medesime i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze, spettando a ciascuna Agenzia appellare le sentenze ad esse sfavorevoli delle commissioni tributarie provinciali.

Ne consegue che l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza emessa dalla Commissione provinciale di Vibo Valentia ha impedito il passaggio in giudicato della decisione.

3. Va, parimenti, rigettata la eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dal controricorrente, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., per mancato deposito, nel termine prescritto, della istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio munita di visto della cancelleria del giudice a quo.

3.1. L’istanza ex art. 369 c.pc. depositata dalla ricorrente risulta, infatti, munita di “visto” della Commissione Tributaria regionale della Calabria, apposto in data 8/6/2012.

4. Con il primo motivo di ricorso, la difesa erariale – deducendo “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49 e 53 e art. 332 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4” – evidenzia che, sebbene il ricorso in appello debba essere notificato nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, in presenza di procedimenti di impugnazione con pluralità di parti occorre distinguere i casi in cui vi siano cause scindibili da quelli in cui si sia in presenza di cause inscindibili.

Poichè nel caso in esame la controversia ha ad oggetto la esistenza di una obbligazione tributaria, in base al disposto di cui all’art. 332 c.p.c., risulta del tutto irrilevante la mancata notifica del ricorso in appello alla Direzione Territoriale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, essendo quest’ultima estranea al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

5. Con il secondo motivo di ricorso, rubricato: “violazione e falsa applicazione degli artt. 102 e 331 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, la ricorrente sostiene che, anche laddove si volesse ipotizzare una ipotesi di litisconsorzio necessario, la dichiarazione d’inammissibilità dell’appello sarebbe comunque erronea, perchè il giudice avrebbe comunque dovuto limitarsi a disporre, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., l’integrazione del contraddittorio.

6. Il primo ed il secondo motivo che, per evidenti ragioni di connessione, possono essere trattati unitariamente, sono fondati e vanno accolti.

6.1. Questa Corte ha affermato che “in tema di contenzioso tributario ed in ipotesi di litisconsorzio, per l’esistenza di una situazione che comporti l’obbligo di chiamare in causa anche in appello, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., tutte le parti presenti nella prima fase del processo, è necessario che i rapporti dedotti in causa siano inscindibili, e quindi non suscettibili di soluzioni differenti nei confronti delle varie parti del giudizio, o che due (o più) rapporti dipendano logicamente l’uno dall’altro, o da un presupposto di fatto comune, in modo tale da non consentire razionalmente l’adozione nei confronti delle diverse parti di soluzioni non conformi perchè comporterebbero capi di decisione logicamente in contraddizione tra loro” (Cass. 17698 del 2/9/2004).

Nè rileva in senso contrario il disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, comma 2, secondo cui l’appello dev’essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, atteso che tale disposizione normativa non fa venire meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili (Cass. n. 25588 del 27/10/2017).

6.2. Pertanto, ove l’appello, come nel caso di specie, abbia ad oggetto l’esistenza dell’obbligazione tributaria, non può ritenersi sussistente l’obbligo di disporre la notificazione del ricorso nei confronti della Direzione Territoriale del Ministero delle Finanze, convenuta in primo grado – che aveva, peraltro, eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva – in quanto la Direzione Territoriale risulta estranea al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.

6.3. Deve, peraltro, considerarsi che, nel caso di specie, il ricorso introduttivo è successivo al 1 gennaio 2001, data di entrata in funzione dell’Agenzia delle Entrate, succeduta all’Amministrazione finanziaria dello Stato nelle funzioni concernenti le entrate tributarie erariali, per cui alla data di notifica del ricorso competente a provvedere sulla istanza di rimborso era l’Agenzia delle Entrate, nei cui confronti doveva, quindi, essere eseguita la notifica del ricorso.

Ne consegue che la controversia poteva essere decisa anche senza la partecipazione in giudizio della Direzione Territoriale del Ministero delle Finanze.

6.4. Va, inoltre, rilevato che, in ipotesi di cause inscindibili, la notificazione dell’impugnazione eseguita nei termini di legge nei confronti di uno solo dei litisconsorti necessari introduce validamente il giudizio di gravame nei confronti di tutte le altre parti, dovendo in tali ipotesi il giudice d’appello limitarsi a disporre, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri litisconsorti necessari (Cass. n. 26902 del 19/12/2014).

La decisione resa dalla Commissione regionale non si uniforma ai principi sopra richiamati e non interpreta correttamente le disposizioni normative sopra richiamate.

7. Con il terzo motivo, l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57,e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dalla C.T.R., in sede di appello non ha proposto una domanda nuova, ma ha piuttosto contestato la sentenza di primo grado nella parte in cui accoglieva acriticamente le ragioni del contribuente, nonostante quest’ultimo non avesse dimostrato il diritto al rimborso delle somme richieste, e sottolinea che, vertendosi nella fattispecie in esame in una impugnazione avverso il silenzio-rifiuto formatosi su istanza di rimborso e non avverso un atto impositivo, il ricorrente avrebbe dovuto provare i fatti costitutivi della propria pretesa, mentre l’Ufficio poteva limitarsi ad eccepire e provare fatti impeditivi di essa.

7.1. La censura è fondata.

Questa Corte ha già chiarito che “nel processo tributario, quando il contribuente impugni il silenzio rifiuto formatosi su una istanza di rimborso, deve dimostrare che, in punto di fatto, non sussiste nessuna delle ipotesi che legittimano il rifiuto, e l’amministrazione finanziaria può, dal canto suo, difendersi “a tutto campo”, non essendo vincolata ad una specifica motivazione di rigetto, con la conseguenza che “le eventuali falle” del ricorso introduttivo possono essere eccepite in appello dall’Amminitrazione a prescindere dalla preclusione posta dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in quanto, comunque, attengono all’originario “thema decidendum” (sussistenza o insussistenza dei presupposti che legittimano il rifiuto di rimborso), fatto salvo il limite del giudicato ” (Cass. 11682 del 21/5/2007; n. 1133 del 19/1/2009; n. 21314 15/10/2010; n. 3338 del 11/2/2011).

7.2. Il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, riguarda le eccezioni in senso tecnico, ma non limita la possibilità dell’Amministrazione di difendersi dalle contestazioni già dedotte in giudizio, perchè le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un’eccezione non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso tecnico.

Nella specie l’Agenzia delle Entrate si è limitata in appello a contestare, come emerge dalla sentenza impugnata, che il trattamento tributario dell’assegno alimentare era regolato dal T.U.I.R., art. 46, e non dal trattamento agevolativo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 34, comma 3, applicabile esclusivamente ad indennità straordinarie, ed a mettere in dubbio la formazione del silenzio rifiuto e, quindi, a contestare i fatti costitutivi del rimborso richiesto dalla controparte, sicchè la pronuncia di inammissibilità resa dai giudici di appello risulta errata.

8. Con il quarto motivo, l’Agenzia delle Entrate deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Nel rilevare che i giudici di appello, pur dichiarando l’inammissibilità dell’appello, si sono pronunciati anche nel merito della controversia, lamenta, sotto tale profilo, che la motivazione è carente poichè si sostanzia in un mero richiamo per relationem alle valutazioni già compiute dai giudici di primo grado, contestate dall’Ufficio con i motivi di gravame.

8.1. Il motivo è fondato.

8.2. La Commissione regionale, affermando che l’appello appare infondato anche nel merito “per le condivisibili motivazioni della sentenza di primo grado”, ha omesso di esplicitare le ragioni logico-giuridiche poste a fondamento del proprio convincimento, incorrendo in tal modo in un evidente vizio di motivazione.

Infatti, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, e non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, n. 24148 del 25/10/2013).

La sentenza pronunziata in sede di gravame, pertanto, è legittimamente motivata “per relationem” ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame. (Cass. n. 14786 del 19/07/2016).

9. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce che i giudici di secondo grado, accogliendo la tesi espressa dal giudice di primo grado, hanno violato o, comunque, erroneamente applicato dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 34, comma 3.

9.1. L’accoglimento del quarto motivo consente di ritenere assorbito il quinto motivo.

10. In conclusione, in accoglimento del primo, del secondo, del terzo e del quarto motivo, assorbito il quinto motivo, la sentenza va cassata con rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale della Calabria, in diversa composizione, per il riesame, oltre che per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo, il terzo ed il quarto motivo, assorbito il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Calabria, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 31 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2018

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