Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31620 del 04/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 04/12/2019, (ud. 17/09/2019, dep. 04/12/2019), n.31620

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8497/2013 R.G. proposto da:

M.M., rappresentato e difeso dagli Avvocati Angelo

Contrino, Andrea Bodrito e Francesco D’Ayala Valva, elettivamente

domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Viale Parioli

n. 43, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del

Piemonte n. 66/28/2012 depositata il 26-9-2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 settembre

2019 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1.Nel corso dell’anno 2004 a M.M., dipendente della Avio s.p.a., venivano attribuiti i diritti di opzione per l’acquisto di azioni della Aero Invest 1 s.a., controllante di Avio s.p.a., ad un prezzo pari al valore delle azioni al momento dell’offerta, per Euro 74.375,00. Nell’anno 2005 il contribuente provvedeva, avvalendosi della riapertura dei termini per la rivalutazione di titoli, quote e diritti non negoziati, ai sensi del D.L. n. 203 del 2005, art. 11 quaterdecies, comma 4, alla rivalutazione dei diritti di opzione, fissandone il costo in Euro 101.346,00, a seguito di una apposita perizia di stima, con versamento della imposta sostitutiva del 4 %. Tale opzione veniva esercitata in data 15-12-2006 dal M., il quale contestualmente rivendeva le azioni ottenute per un importo di Euro 432.284,39. Ai sensi dell’art. 51 Tuir, comma 2, lett. g bis, il datore di lavoro, senza tenere conto della “rivalutazione dei diritti di opzione effettuata nel 2005”, assoggettava tali somme a ritenuta Irpef calcolata dalla differenza (Euro 357.909,39) tra il prezzo di vendita delle azioni (Euro 432.284,39) ed il prezzo di esercizio dei diritti di opzione nel 2004 (Euro 74.375,00). Il contribuente riteneva che le somme percepite dovevano essere assoggettate a tassazione in base alla disciplina vigente al momento della “assegnazione” delle “stock options”, e non a quella in vigore al momento della “assegnazione” delle “azioni”, mentre il datore di lavoro, in sede di calcolo della ritenuta, avrebbe dovuto tenere conto della rivalutazione dei diritti di opzione effettuata. Il M. presentava istanza di rimborso, rilevando che lo stesso era pari alla differenza tra l’Irpef e le addizionali pagate (sul differenziale tra prezzo di vendita e prezzo di esercizio delle azioni) e l’imposta sostitutiva del 12,50 applicabile sulla plusvalenza determinata come differenza tra il prezzo di vendita ed il prezzo di esercizio delle opzioni, aumentato del valore fiscalmente riconosciuto derivante dalla rivalutazione.

In via subordinata, il contribuente chiedeva il rimborso della maggiore somma riscossa, pari ad Euro 45.301,70, pari alla differenza tra l’Irpef pagata sul differenziale “prezzo di vendita-prezzo di esercizio delle opzioni” e l’Irpef dovuta sul differenziale “prezzo di vendita-prezzo di esercizio delle opzioni”, aumentato del valore fiscalmente riconosciuto derivante dalla rivalutazione.

2.L’Agenzia delle entrate nei novanta giorni successivi non adottava alcun provvedimento, con la conseguente formazione del silenzio-rifiuto.

3.La Commissione tributaria provinciale rigettava la domanda principale ed accoglieva la domanda subordinata, ritenendo, da un lato, che doveva essere applicata la disciplina vigente al 15-12-2006 (quindi con le ulteriori condizioni aggiunte al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51 comma 2 lett. g bis), quando vi era stato l’esercizio del diritto di opzione, ma dall’altro, che doveva tenersi conto della rivalutazione dei diritti di opzione, operata dal ricorrente nel 2005, in quanto, seppure trattavasi di reddito da lavoro dipendente, tuttavia, nel momento in cui il contribuente aveva provveduto alla rivalutazione non poteva sapere che successivamente gli importi sarebbero stati ascritti a redditi diversi, con conseguente relativa tassazione. Inoltre, la Commissione provinciale riteneva che dalla somma relativa alla vendita delle azioni, dopo l’esercizio del diritto di opzione, dovevano detrarsi sia il costo sostenuto per l’acquisto delle azioni (Euro 74.375,00), sia il valore della rivalutazione dei diritti di opzione (Euro 101.346,00).

4. Avverso tale sentenza proponeva appello l’Agenzia delle entrate, evidenziando la contraddittorietà della decisione di prime cure, in quanto i Giudici, da un lato, avevano ritenuto che le plusvalenze dovevano rientrare tra i redditi da lavoro dipendente, e dall’altro, avevano consentito di ridurre la base imponibile sottraendo anche il valore della rivalutazione, benchè la L. n. 448 del 2001, art. 5, comma 1 si riferiva soltanto alle persone fisiche “che realizzano redditi diversi di natura finanziaria ai sensi dell’art. 81 TUIR”, con un ragionamento di carattere equitativo privo di aggancio normativo. La rivalutazione dei diritti di opzione riguardava, infatti, solo “titoli” specifici indicati dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81.

5. Il contribuente proponeva appello incidentale, in relazione al rigetto della domanda principale, tesa ad ottenere l’applicazione della normativa anteriore al D.L. 4 luglio 2006, convertito in L. n. 248 del 2006, come al successivo D.L. n. 262 del 2006, convertito in L. n. 286 del 2006.

6. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello principale proposto dalla Agenzia delle entrate e rigettava l’appello incidentale del contribuente, evidenziando che le azioni erano entrate nel patrimonio del contribuente solo con l’esercizio del diritto di opzione, in data 15-12-2006, quindi con applicazione della normativa sopravvenuta, a decorrere dal 3-10-2006, data di entrata in vigore del D.L. n. 262 del 2006, convertito in L. n. 286 del 2006, senza alcuna violazione della L. n. 212 del 2000, art. 3, in quanto non vi era stata una modifica dell’Irpef, ma solo un adeguamento normativo volto a ricondurre fra i redditi da lavoro dipendente gli incrementi ricavati dall’esercizio del diritto di opzione, tassabile, quindi, in base al regime fiscale vigente in quel momento. L’appello principale della Agenzia era fondato, in quanto non si poteva accogliere la domanda subordinata del ricorrente solo perchè lo stesso all’epoca della rivalutazione (anno 2005) era convinto di poter fruire della tassazione da capita gain al 12,5 A).

7.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, depositando memoria scritta.

8.Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

9.Con ordinanza in data 20-3-2019 la Corte ha disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio dei giudizi di merito, al fine di verificare la tempestività della costituzione della appellante Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce “violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3, siccome richiamato, per il giudizio di appello, dall’art. 53, comma 2, del medesimo decreto”, in quanto l’Agenzia delle entrate, dopo aver notificato l’appello in data 26-9-2011, non ha provveduto al deposito della ricevuta di spedizione della raccomandata nel termine di trenta giorni dalla notificazione, mentre ha depositato tale ricevuta solo il 31-8-2012, quindi a distanza di oltre 11 mesi dalla notificazione dell’appello.

1.1.Tale motivo è infondato.

Invero, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente (o dell’appellante), che si avvalga per la notificazione del servizio postale universale, decorre non dalla data della spedizione diretta del ricorso a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, ma dal giorno della ricezione del plico da parte del destinatario (Cass., Sez.Un., 29 maggio 2017, n. 13452).

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 1, richiamato per l’appello dall’art. 53 comma 2, del medesimo D.Lgs., prevede che “il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità, deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita…l’originale del ricorso notificato…ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di spedizione o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale”.

Per questa Corte, a Sezioni Unite (13452/2017), nel processo tributario, non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso (o dell’appello), che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente (o l’appellante), al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purchè nell’avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario. Solo in tal caso, infatti, l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizi ne; invece, in loro mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso (o dell’appello), unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto (o della sentenza).

Nella specie, secondo il ricorrente, l’Agenzia delle entrate ha depositato la fotocopia della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale in data 31-8-2012, solo 11 mesi dopo la notificazione dell’appello alla controparte in data 26-9-2011, con conseguente inammissibilità dell’appello.

Per questa Corte, infatti, la prova della tempestività della costituzione in giudizio del ricorrente (o dell’appellante) entro trenta giorni dalla spedizione dell’atto introduttivo a mezzo del servizio postale deve essere fornita contestualmente a detta costituzione, al fine di consentire la verifica officiosa delle condizioni di ammissibilità del procedimento – in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto inammissibile il gravame proposto dall’Agenzia delle entrate che aveva depositato la distinta attestante la data di spedizione della raccomandata soltanto all’udienza – (Cass., 11 giugno 2018, n. 15182).

La sanzione della inammissibilità va rilevata anche d’ufficio dal giudice e non può essere sanata dalla costituzione della controparte (cass., 9 agosto 2016, n. 16758).

Tuttavia, nella specie, dai documenti acquisiti, relativi ai fascicoli di merito, risulta che l’appello è stato redatto dalla Agenzia delle entrate il 26-9-2011, è stato spedito il 26-9-2011 ed è stato ricevuto, con espressa certificazione dell’agente postale, il 28-9-2011, con successivo deposito in segreteria il 2410-2011, quindi entro i trenta giorni dalla ricezione dell’appello.

Pertanto, l’avviso di ricevimento, depositato tempestivamente, contiene la valida indicazione della data di spedizione dell’appello.

2.Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 212 del 2000, art. 1, comma 1, e art. 3, comma 1, secondo periodo, in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g-bis, nella formulazione ratione temporis applicabile”, in quanto nel 2004, al momento della attribuzione dei diritti di opzione, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g bis, l’incremento di valore delle azioni era imponibile solo nella misura del 12,5 %, con il rispetto di due condizioni (entrambe rispettate dal contribuente), mentre successivamente vi sono state tre modifiche normative nel 2006, con l’aggiunta di tre ulteriori condizioni (mantenimento, nei cinque anni successivi alla data di assegnazione, di un investimento nella azioni ricevute almeno pari alla differenza tra il valore normale delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal beneficiario; l’esercitabilità dell’opzione non prima che siano scaduti tre anni dalla sua attribuzione; la quotazione delle azioni oggetto delle stock option quando l’opzione diviene esercitabile).

Per il ricorrente, in assenza di una disciplina transitoria, la normativa sopravvenuta nel 2006 (D.L. n. 262 del 2006, convertito in L. n. 286 del 2006) è applicabile ai diritti di opzione esercitati dopo la data di entrata in vigore del decreto legge (3 ottobre 2006), ma a partire dal periodo di imposta 2007, quindi successivo a quello in corso al momento di entrata in vigore delle modifiche, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, seconda parte.

2.1.Tale motivo è infondato.

Invero, a seguito del D.L. n. 262 del 2006, entrato in vigore il 3-10-2006, la disciplina impositiva sulle stock options è stata profondamente modificata, con l’inserimento di ulteriori tre condizioni in aggiunta alle prime due.

Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g bis (determinazione del reddito di lavoro dipendente), quindi prevede, dopo il 2-10-2006, che “Non concorrono formare il reddito: …g-bis) la differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente, a condizione che il predetto ammontare sia almeno pari al valore delle azioni stesse alla data dell’offerta; se le partecipazioni, i titoli…posseduti dal dipendente rappresentano una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria o di partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 10 per cento, la predetta differenza concorre in ogni caso a formare il reddito”.

La disciplina precedente, dunque, fondata sulla esenzione fiscale, era volta a stimolare i dipendenti al miglioramento dell’azienda, collegando, mediante le stock options, parte della retribuzione ad una componente variabile che si incrementava con la crescita di valore della azienda stessa, e trovando causa nel maggior impegno profuso dal dipendente, incentivato dalla prospettiva di maggiori guadagni (Cass., 18917/2018; Cass., 24 febbraio 2017, n. 4774).

Con le modifiche introdotte nel 2006, invece, le finalità perseguite dal legislatore sono mutate, identificandosi nella “fidelizzazione” del dipendente (Cass., 18917/2018).

L’art. 51 comma 2 bis, poi, stabilisce, nella versione all’epoca vigente, che “la disposizione di cui alla lett. g-bis del comma 2 si rende applicabile esclusivamente quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:a)che l’opzione sia esercitabile non prima che siano scaduti tre anni dalla sua attribuzione; b) che, al momento in cui l’opzione è esercitabile, la società risulti quotata in mercati regolamentati; c) che il beneficiario mantenga per almeno i cinque anni successivi all’esercizio dell’opzione un investimento nei titoli oggetto di opzione non inferiore alla differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente”.

Costituisce, però, principio consolidato di questa Corte, cui si intende aderire, quello per cui, in tema di determinazione del reddito di lavoro dipendente, la disciplina di tassazione applicabile “ratione temporis” alle cosiddette “stock options” va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione da parte del dipendente, indipendentemente dal momento in cui l’opzione sia stata offerta, atteso che l’operazione cui consegue la tassazione non va identificata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio di tale diritto mediante l’acquisto delle azioni, che costituisce il presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle stesse e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato (Cass., 18917/2018; Cass.Civ., 12 aprile 2017, n. 9465; in termini analoghi Cass.Civ., 20 maggio 2011, n. 11214; Cass.Civ., 13088/2012; Cass.Civ., 11413/2015).

Nella specie il diritto di opzione, con l’acquisto delle azioni, è stato esercitato il 15-12-2006, quando era già in vigore il D.L. n. 262 del 2006.

Inoltre, in tal caso, l’applicazione del D.L. n. 262 del 2006 non determina una applicazione retroattiva della norma tributaria, poichè l’operazione alla quale consegue la tassazione non va individuata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio del diritto di opzione mediante l’acquisto delle azioni, e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato, il quale può esercitarlo o meno secondo le modalità ed i tempi che riterrà opportuni, alla stregua delle proprie insindacabili valutazioni (Cass.Civ., 12 aprile 2017, n. 9465).

Inoltre, si rileva che le disposizioni dello statuto del contribuente, che costituiscono meri criteri guida per il giudice, in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, con la conseguenza che esse non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, nè consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse (Cass.Civ., 6 settembre 2017, n. 20812)

Peraltro, si è anche osservato che deve escludersi, non solo che l’applicazione della disciplina in vigore dal 3 ottobre 2006 abbia violato il principio di non retroattività della norma tributaria, ma anche che il contribuente possa avere fatto affidamento sulla cristallizzazione di una disciplina agevolativa, in quanto non vi era certezza nell’incremento di valore delle azioni al momento della offerta del diritto di opzione (Cass., 19817/2018; vedi anche Corte Cost., n. 149 del 2017, per la quale il valore del legittimo affidamento non esclude che il legislatore possa adottate disposizioni che modifichino la disciplina dei rapporti giuridici, in senso sfavorevole agli interessati, purchè tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale).

Del resto, il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 25, convertito in L. n. 248 del 2006, laddove modifica il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2 bis, si applica, ai sensi dell’art. 36, comma 26 “alle azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Non si può, quindi, condividere la tesi del controricorrente, fatta propria dalla Commissione regionale, per cui il D.L. n. 262 del 2006, pur essendo entrato in vigore il 3 ottobre 2006, tuttavia ha acquisito concreta efficacia solo a partire dal 1 gennaio 2007, quindi dall’anno di imposta successivo all’entrata in vigore, come previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, ultimo periodo, (cfr. pagina 23 del controricorso).

Infatti, anche nel precedente di legittimità richiamato (Cass.Civ., 12 aprile 2017, n. 9465), si trattava proprio di una richiesta di rimborso del contribuente di un credito Irpef relativo all’anno 2006, con l’acquisto delle azioni in data 1411-2006, sicchè le due ipotesi concrete sono perfettamente sovrapponibili.

Inoltre, per questa Corte (Cass., 1 marzo 2019, n. 6118) la disposizione agevolativa che esclude l’imputazione della plusvalenza per le cd. “stock options” ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 2, lett. g-bis), nella formulazione introdotta dal D.L. n. 262 del 2006, conv. in L. n. 286 del 2006, non soggiace all’applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, relativo ai soli tributi periodici destinati a durare nel tempo. Rientrano tra i tributi “periodici” solo quelli il cui presupposto è destinato a durare nel tempo ed il cui pagamento è dovuto per anno solare di riferimento. I tributi erariali Ires (o Iva) non sono tributi periodici, qualifica questa riferibile solo a determinati tributi locali caratterizzati da causa debendi di tipo continuativo, in cui la prestazione erogata dell’ente impositore si protrae nel tempo (Cass., 4283/2010; Cass., 2941/2007).

3.Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 163 in combinato disposto con l’art. 53 Cost., e conseguente falsa applicazione della L. n. 448 del 2001, art. 5, cui rinvia il D.L. n. 203 del 2005, art. 11 quaterdecies, comma 4, convertito con L. n. 248 del 2005”, in quanto avendo provveduto il contribuente alla rivalutazione fiscale a pagamento, con il versamento dell’imposta sostitutiva, ai sensi della L. n. 448 del 2001, art. 5, tale rivalutazione fiscale doveva essere portata in aumento del costo di acquisto delle azioni oggetto di opzione. Pertanto, dal valore delle azioni al momento dell’esercizio del diritto di opzione, con contestuale vendita a terzi, deve essere detratto non solo il costo di acquisto del diritto di opzione sulle azioni, relativo al 2004, ma anche il “costo fiscalmente riconosciuto”, ottenuto con la rivalutazione del diritto di opzione ed il versamento dell’imposta sostitutiva. Diversamente, si verrebbe a tassare con Irpef una somma, ossia quella corrispondente al valore della rivalutazione di cui si nega rilevanza fiscale, che è già stata assoggettata a tassazione mediante una imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, con conseguente violazione del divieto di “doppia imposizione” ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 163. I diritti di opzione, a differenza degli altri titoli ammessi a beneficiare della rivalutazione fiscale a pagamento, scompaiono nel momento stesso del loro esercizio ed il loro costo fiscale inevitabilmente si trasferisce e si incorpora nel valore fiscale delle azioni che sono sottoscritte con il loro esercizio, con conseguente rilevanza del medesimo costo fiscale al momento del realizzo del reddito imponibile derivante dalla vendite di tali azioni.

3.1.Tale motivo è infondato.

Invero, non è condivisibile l’assunto del contribuente, non potendosi tenere conto della rivalutazione effettuata nel 2005 in ordine ai diritti di opzione sulle azioni, ai sensi della L. n. 248 del 2001, art. 5.

Infatti, il D.L. n. 203 del 2005, art. 11 quaterdecies ha riaperto i termini per procedere alla rivalutazione di titoli, quote e diritti non negoziati posseduti al 1 gennaio 2005.

La L. n. 448 del 2001, art. 5 dispone che “agli effetti delle plusvalenze e minusvalenze di cui al TUIR, art. 81, comma 1, lett. c) e c-bis), …per i titoli, le quote o i diritti non negoziati nei mercati regolamentari, posseduti alla data del 1 gennaio 2002, può essere assunto, in luogo del costo o valore di acquisto, il valore a tale data della frazione del patrimonio netto della società, associazione o ente, determinato sulla base di una perizia giurata di stima…”.

Il costo di acquisto così “rideterminato” è utilizzabile solo ai fini del calcolo dei redditi “diversi” di “natura finanziaria” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81 comma 1, lett. c) e comma 1-bis.

Pertanto, una volta che con il D.L. n. 262 del 2006, convertito in L. n. 286 del 2006, la plusvalenza, in assenza delle condizioni introdotte, costituisce reddito di lavoro dipendente, e non reddito diverso di natura “finanziaria”, non può tenersi conto della rivalutazione nel frattempo effettuata.

Per questa Corte, infatti, la L. n. 448 del 2001, art. 5, destinato a disciplinare la tassazione di plusvalenze derivanti da redditi diversi di natura finanziaria, non può essere invocata ed applicata ai fini della tassazione di plusvalenze imputabili a redditi di lavoro dipendente (Cass., 1 marzo 2019, n. 6118).

Nè tale reddito può mutare natura, solo perchè il contribuente, nel momento in cui, nel 2005, ha provveduto alla rivalutazione del diritto di opzione, confidava nella circostanza che non vi sarebbero stati mutamenti normativi, con conseguente futura tassazione in regime di “redditi diversi”.

4.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rimborsare in favore dell’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 4.000,00, oltre spese prenotate al debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 settembre 2019.

Depositato in cancelleria il 4 dicembre 2019

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