Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31587 del 06/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 06/12/2018, (ud. 19/06/2018, dep. 06/12/2018), n.31587

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina M. – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M. G. – Consigliere –

Dott. LEUZZI S. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 2925/2011 R.G. proposto da:

Giuliauto s.r.l., in persona del suo legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dall’avv. Prof. Franscesco Moschetti e

dall’avv. Prof. Franscesco d’Ayala Valva, con domicilio eletto

presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, viale Parioli, n. 43.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., con sede in

(OMISSIS);

Agenzia delle Entrate – Ufficio di Cittadella, in persona del

Direttore p.t., con sede in (OMISSIS);

– resistenti –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto

n. 56/09, depositata 16 dicembre 2009;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 19 giugno 2018

dal Cons. Dott. Leuzzi Salvatore;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Federico Sorrentino, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Giovanni Moschetti, delegato dell’Avv. Francesco

Moschetti, per la ricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con avviso di accertamento n. (OMISSIS) notificato il 4 ottobre 2006, l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Cittadella contestava alla contribuente la detrazione IVA per l’anno 2004, per un importo di Euro 495.767,00, recuperava interessi e irrogava sanzioni; in pari data l’Ufficio notificava l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), con annesse sanzioni e recupero interessi, per l’anno 2003. Entrambi gli avvisi – i quali richiamavano una segnalazione della Guardia di Finanza di Bassano del Grappa del 12 settembre 2005 – rilevavano l’avvenuto acquisto di autovetture di importazione mediante società di comodo, con l’effetto di fruire dell’indebita detrazione dell’IVA esposta nelle fatture d’acquisto, IVA che le società di comodo non dichiaravano, tampoco versavano.

Avverso i predetti avvisi ricorreva la contribuente; la commissione tributaria provinciale, con sentenza n. 85 dell’11 giugno 2007, li annullava.

L’Agenzia delle entrate proponeva appello, accolto dalla Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre, con sentenza n. 56 del 16 dicembre 2009.

Contro la sentenza della Commissione regionale, propone ricorso per cassazione la Giuliauto s.r.l., affidandolo a diciassette motivi.

Si è costituita l’Agenzia delle Entrate, senza proporre controricorso.

Il P.G., dott. Federico Sorrentino, ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso la contribuente denuncia l’insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, lamentando l’attribuzione di valore decisivo, nella sentenza impugnata per cassazione, a documenti essenziali e, tuttavia, non allegati agli avvisi di accertamento, per quanto richiamati nella segnalazione di iniziativa della Guardia di Finanza del 12 settembre 2005.

2. Col il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 5, lamentando la mancata allegazione degli atti richiamati negli avvisi di accertamento, ancorchè le norme evocate detta allegazione prescrivano a tutela del diritto di difesa.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, , l’insufficiente ed illogica motivazione della sentenza, per aver posto a proprio esclusivo fondamento la sentenza di patteggiamento relativa ai fornitori di Giuliauto s.r.l..

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del “decreto IVA” e dell’art. 2729 c.c., per aver assunto “l’argomento del patteggiamento dei fornitori… ad argomento travolgente e vanificante ogni altra argomentazione contraria in fatto e in diritto, escludendo così la ponderazione di prove e controprove”.

5. Con il quinto argomento la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, per avere la Commissione tributaria erroneamente valutato,- nell’economia dei giudizio, la sentenza di patteggiamento, che non contempla riferimenti ad accordi trilaterali fra la ricorrente medesima, i suoi fornitori e i soggetti a monte, e concerne solo uno su quattro dei propri fornitori, ossia la Pilot s.r.l..

6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere, la Commissione tributaria regionale, preso in considerazione la domanda di conferma della sentenza di primo grado, nonostante fossero stati rimessi già all’attenzione del primo giudice “plurimi elementi indicativi di operatività” dei fornitori.

7. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia la contraddittoria motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, della sentenza, per avere la Commissione regionale considerato di esclusiva attinenza penale una sentenza penale di primo grado di condanna dell’amministratore di Giuliauto s.r.l., benchè incoerentemente la decisione impugnata per cassazione abbia valorizzato in misura assorbente la sentenza di patteggiamento riguardante i fornitori.

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1, richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, per avere la Commissione regionale ritenuto la pertinenza all’esame del giudice penale d’appello delle osservazioni della contribuente sulla sentenza penale di cui al motivo che precede.

9. Con il nono motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’illogicità della motivazione, per avere la Commissione regionale escluso la rilevanza del pagamento al soggetto indicato in fattura, benchè ciò costituisse “indice di contrattazione con tale soggetto e dunque… argomento contro l’accusa di operazione soggettivamente inesistente”.

10. Con il decimo motivo la ricorrente denuncia l’insufficiente ed errata motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per non essersi la Commissione regionale curata di “spiegare come si potessero ricavare elementi di conforto” dalla pronuncia dì condanna penale in primo grado dell’amministratore di Giuliauto, sebbene essa non riguardi i fatti relativi alla sentenza di patteggiamento relativa ai fornitori.

11. Con l’undicesimo motivo la ricorrente denuncia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 444 c.p.p., comma 1, e art. 445 c.p.p., comma 1, per avere la Commissione tributaria regionale equiparato la sentenza di patteggiamento ad una “ammissione di fatti penali contestati”.

12. Con il dodicesimo motivo la ricorrente denuncia l’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Commissione tributaria regionale ritenuto l’inconsistenza della questione relativa alla interposizione reale, anzichè meramente fittizia, dei fornitori di Giuliauto s.r.l..

13. Con il tredicesimo motivo la ricorrente denuncia l’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, della sentenza, per avere essa escluso la “necessità di un accordo trilatero tra interponente, interposto e terzo operatore economico nel campo tributario delle operazioni soggettivamente inesistenti”.

14. Con il quattordicesimo motivo la ricorrente denuncia l’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, della sentenza, per avere la Commissione tributaria regionale escluso l’efficacia probatoria su circostanze essenziali ai fini del giudizio dei “giudicati interni” relativi all’acquisto a prezzi di mercato dal fornitore, all’effettività delle operazioni, ai relativi pagamenti, alla operatività dei soggetti intermedi; con il medesimo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2909 c.c.

15. Con – il quindicesimo motivo la ricorrente denuncia l’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, della sentenza, circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, sul presupposto che, a fronte dell’avvenuto pagamento IVA ai fornitori, la pretesa fiscale duplicherebbe i soggetti passivi ai fini dell’imposta.

16. Con il sedicesimo motivo la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 2697 c.c., D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, per avere la Commissione tributaria regionale gravato la contribuente acquirente delle autovetture dell’onere di provare la sua estraneità alla frode fiscale in contestazione”, in contrasto con i principi invalsi nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

17. Con il diciassettesimo motivo la ricorrente denuncia l’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, della sentenza, per avere la Commissione tributaria regionale effettuato una “erronea valutazione degli atti e documenti di causa in relazione alla prospettazione di Giuliauto s.r.l. di elementi di fatto obiettivamente idonei a dimostrare la sua estraneità alla frode, in ipotesi, orchestrata da taluni fornitori”.

18. I primi due motivi contestano – l’uno sotto il profilo dell’insufficienza della motivazione, l’altro sotto quello della violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 1, st. contribuente e dell’art. 56, comma 5, – l’aspetto della mancata allegazione agli avvisi di accertamento di documenti che ne supportano la motivazione. I due motivi sono suscettibili di trattazione unitaria, appaiono infondati e vanno respinti. L’obbligo di motivare gli atti impositivi deve ritenersi, nel caso di specie, soddisfatto a sufficienza, posto che la motivazione di entrambi gli atti impositivi è tale da esternare bastevolmente le ragioni del provvedimento, evidenziandone i momenti ricognitivi e logico-deduttivi essenziali (tutti correlati ad un’ampia attività d’indagine penale, di cui è resa articolata traccia e menzione). Ciò si mostra talè da consentire al destinatario lo svolgimento efficace della propria difesa, potendo la contribuente cogliere a pieno gli aspetti materiali e giuridici della pretesa fiscale. In sostanza, la motivazione esplicitata dagli atti di accertamento appare capace di identificare gli elementi ai quali essi si riferiscono, in guisa da offrire immediata percezione al contribuente delle ragioni a supporto dell’imposizione fiscale. In altri termini, l’incidenza unilaterale nella sfera giuridica del contribuente-destinatario dell’atto si appaga, nella fattispecie, di una sufficiente informazione sugli elementi costitutivi dell’atto di accertamento. Delle circostanze contestate negli avvisi è tratta prova, per via indiretta, attraverso un richiamo che è ricco, chiaro e globale a quanto affermato dai verificatori della guardia di Finanza, per il tramite di diversi documenti tutti collegati ad un’indagine penale sulla connotazione fraudolenta di operazioni di importazione di veicoli. Ora, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, l’onere dell’Ufficio di mettere in grado il contribuente, attraverso la motivazione dell’atto impositivo, di conoscere le ragioni della pretesa tributaria, può essere assolto “per relationem” con il rimando a elementi offerti da altri documenti, purchè conosciuti o conoscibili dal destinatario (v. Cass. n. 18073 del 2008; Cass. n. 407 del 2015); in tale prospettiva non v’è motivo, perlomeno in astratto, di non riconoscere anche l’ammissibilità di una doppia motivazione “per relationem” laddove il processo verbale di constatazione o, in generale, il documento verificativo dei militari accertatori, a sua volta faccia richiamo ad altri documenti (v. Cass. n. 28060 del 2017; Cass. n. 4523 del 2012). La circostanza che nella segnalazione della

Guardia di Finanza si richiamino un’ordinanza di custodia cautelare in carcere di un rappresentante legale p.t. di una delle società che avrebbero funto da “cartiere” e taluni “decreti di perquisizione locale” per i quali difetta una specifica allegazione, non esclude la piena comprensibilità della pretesa fiscale e degli atti impositivi che la veicolano, posto che la segnalazione allega – come riconosciuto dalla parte ricorrente – una scheda informativa dettagliata che ne illustra il contenuto essenziale, in riferimento a soggetti, oggetto, circostanze, contesto, contenuto, implicazioni. Alla luce di tali constatazioni ricostruttive, è evidente che l’Agenzia, proprio per il tramite della scheda informativa, ha pienamente raggiunto la finalità “integrativa” delle ragioni che giustificano ciascun atto impositivo, in quanto il contribuente è stato salvaguardato nelle sue esigenze difensive, che non attengono ad una cognizione formale degli atti, ma alla conoscenza reale e concreta del contenuto complessivo degli atti connessi all’indagine penale per frode richiamata negli avvisi. E del resto, l’obbligo di motivazione degli atti “per relationem” postula che i documenti richiamati, qualora non allegati, siano riprodotti nel loro contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato (v. Cass. n. 23923 del 2016). E’ esattamente quanto accaduto nel caso di specie.

19. I motivi terzo e quinto denunciano il profilo dell’insufficienza della motivazione avuto riguardo all’assunzione della sentenza di patteggiamento relativa ai fornitori di Giuliauto s.r.l. a prova assorbente delle operazioni soggettivamente inesistenti. I due motivi, che si prestano ad una trattazione unitaria, appaiono infondati e vanno disattesi. Un principio assodato nella giurisprudenza di questa Corte è quello in virtù del quale la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. “patteggiamento”) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, peraltro, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità,’ ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (anzichè addivenire al proscioglimento, constandone in concreto i presupposti). Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato – il che ha mostrato rigorosamente di fare la Commissione tributaria regionale come prova nel giudizio di legittimità dell’accertamento (v. per questo consolidato avviso ermenutico ex multis Cass. n. 24587 del 2010; Cass. n. 2724 del 2001, Cass. n. 11301 del 1998). Il principio compendiato viene certamente in marcato rilievo in rapporto all’imputato che accedendo al patteggiamento veicola un’ammissione della propria responsabilità, esso, tuttavia, non retrocede nè si attenua in rapporto al soggetto terzo – nel caso di specie la società contribuente – che, pur estraneo al patteggiamento, ha nondimeno l’onere di fornire la prova contraria rispetto ad esso, ossia la dimostrazione della buona fede con cui ha acquistato le autovetture. Detta prova, secondo la libera e ponderata valutazione del giudice d’appello non è stata resa, a fronte dell’articolato, circostanziato e contestualizzato compendio di informazioni contemplato dalla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. In tal senso, ciò che incisivamente rileva è la permanenza in capo al collegio di merito del potere discrezionale di utilizzare quali elementi di prova le prove raccolte nel diverso giudizio tra altri soggetti, delle quali la relativa sentenza costituisce certamente idonea documentazione (Cass. 11 giugno 2007, n.13619; Cass. 31 ottobre 2005, n. 21115), assurgendo essa, fuori dai limiti di cui all’art. 654 c.p.p., a prova atipica, giustappunto liberamente valutabile – e nel caso che occupa liberamente apprezzata – dal giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c.. Detta prova è certamente suscettibile – e tale è stata stimata – di fondare il giudizio, posto che – come rilevato nella sentenza d’appello – a fronte della sua icastica efficacia probatoria la contribuente non assolveva al “dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità”. Nel tessuto motivazionale della decisione adottata dalla Commissione regionale si puntualizza congruamente, d’altronde, che le controdeduzioni della odierna ricorrente si concentravano su circostanze – quelle relative alla reale operatività delle società interposte (c.d. “cartiere”), quella della effettività delle operazioni commerciali e quella della gestione delle operazioni secondo prezzi di mercato – che non rivelavano, nell’economia del giudizio, un peso utile a contraddire e sovvertire la fattispecie elusiva riscontrata, la quale a fronte di operazioni commerciali infracomunitarie oggettivamente reali, comprendevano l’indicazione di soggetti diversi da quella che delle stesse rimaneva l’effettiva cessionaria-acquirente, ossia l’odierna ricorrente. In buona sostanza, ciò che puntualmente emergeva dalle circostanze correlate al giudizio conclusosi col patteggiamento – circostanze delle quali la pronuncia impugnata per cassazione dà atto dettagliatamente – è la creazione di un’associazione tesa a costituire società deputate, nel corso del tempo, all’acquisto sistematico di autovetture nei paesi membri dell’Unione Europea, società che interponendosi fra cedente intracomunitario ed acquirente effettivo faceva sì che l’obbligo di versamento dell’IVA sul singolo acquisto venisse “trasferito dall’effettivo acquirente alle “cartiere” dell’associazione (che non lo adempivano), mentre l’effettivo acquirente poteva detrarre l’IVA apparentemente addebitatagli a titolo di rivalsa dalle “cartiere”. Appare evidente che la decisione della Commissione tributaria regionale non si è limitata a mutuare pedissequamente le risultanze della sentenza di patteggiamento relativa a soggetti terzi rispetto alla contribuente e al suo legale rappresentante, elevandole a argumentum totalizzante, ma ha valorizzato le ragioni per le quali non ha inteso disconoscere l'”efficacia probatoria” di detta sentenza. Se queste sono le coordinate d’approccio si palesa evidente la piena sufficienza della motivazione della decisione impugnata, avendo essa chiarito che la connotazione reale dell’interposizione non contraddiceva all’inesistenza soggettiva delle operazioni, proprio in quanto queste ultime si iscrivevano in un quadro associativo finalizzato a fungere di volta in volta un elemento societario “filtro” rispetto a quello che rimaneva sullo sfondo alla stregua di acquirente effettivo finale. Proprio in questo contesto di “schermatura” reale delle operazioni affievolisce la portata che parte ricorrente insiste nel voler ricondurre alla “reale operatività delle… società” cedenti, alla “effettività delle operazioni commerciali” e ai “prezzi di mercato praticati”, ossia ad aspetti che non sono suscettibili di ridondare nè sulla fisionomia riassunta del meccanismo societario elusivo, nè sulla sua persistente concretezza, nè – infine – sul profilo della consapevolezza in capo alla contribuente di quella che rimane un’interposizione fraudolenta, ancorchè organizzata pure sul passaggio formale e in apparenza concreto degli acquisti di autovetture da parte delle società “filtro” e sulla successiva cessione dei beni a quello che ab origine assurge, nel congegno associativo, quale acquirente effettivo e “di ruolo” (la Giuliauto s.r.l.).

20. Infondato è anche il quarto motivo di ricorso che contesta la valutazione in chiave esclusiva della sentenza di patteggiamento da parte della Commissione tributaria regionale, rinvenendovi una violazione dell’art. 2729 c.c., per essere state escluse dall’apprezzamento giudiziale tutte le altre prove. Secondo il sedimentato avviso di questa Corte, in tema di prova civile conseguente ad accertamento tributario, gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente multipli benchè l’art. 2729 c.c., comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 4 e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, si esprimano al plurale – potendosi il convincimento del giudice finanche fondare su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (v. ex multis Cass. n. 656 del 2014; Cass. n. 30803 del 2017; Cass. n. 3276 del 2018). Nel caso che occupa, la Commissione tributaria regionale ha certamente motivato in punto di gravità, precisione, coerenza e reciproca connessione dei molteplici aspetti emergenti sul fronte del giudizio conclusosi con il patteggiamento in sede penale, corroborando la propria decisione sulla fondatezza della pretesa fiscale con una congrua e sufficiente motivazione. La stessa doglianza sulla valutazione assorbente e totalizzante del patteggiamento è, nondimeno, in nuce contraddetta dall’ampio e dettagliato apprezzamento, svolto in sentenza (segnatamente a pg. 12 e 13), della sentenza resa dal g.u.p. del Tribunale di Padova in data 15 novembre 2007 (sent. n. 683/2007 di condanna del legale amministratore di Giuliauto s.r.l. alla pena della reclusione per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, per avere importato dalla Germania autovetture attraverso le società “cartiere” New trade s.r.l. e Time Port s.r.l., che acquistavano in regime di esenzione comunitaria per poi rivendere al vero importatore, ossia a Giuliauto s.r.l.. In tal senso, la pronuncia di condanna viene valorizzata nella misura in cui è venuta “raccordandosi in modo logico e consequenziale con la sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti dei fornitori” – così testualmente la sentenza d’appello -, deponendo per l’esistenza di operazioni commerciali che, pur presentandosi oggettivamente reali, indicavano soggetti diversi da quelli effettivi, obliterando il dato soggettivo del vero importatore, che risultava essere Giuliauto s.r.l..

21. Infondato è anche il sesto motivo di ricorso, il quale denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere, la Commissione tributaria regionale, preso in considerazione la domanda di conferma della sentenza di primo grado, nonostante fossero stati rimessi già all’attenzione del primo giudice “plurimi elementi indicativi di operatività” dei fornitori. E’ sufficiente rilevare che il denunciato vizio di omessa pronuncia confligge in realtà con la compiutezza dell’esame, in sentenza, dei rilievi proposti dalla difesa della contribuente nell’atto di appello; la Commissione tributaria regionale ha, infatti, esposto e argomentato dettagliatamente le ragioni relative alle conclusioni dell’iter logico giuridico che ha condotto alla decisione, facendo riferimento alle risultanze del patteggiamento sopra menzionato e alla sentenza di condanna nei confronti dell’amministratore legale di Giuliauto, quindi evidenziando che l’insistente richiamo di parte ricorrente alla operatività reale delle società che ponevano in essere gli acquisti intracomunitari IVA esenti non escludeva la fittietà soggettiva delle operazioni, rilevando una architettura associativa tesa all’elusione dell’imposta, nel cui sfondo spiccava costantemente un unico importatore reale: sempre Giuliauto s.r.l..

22. Il settimo motivo e l’ottavo motivo denunciano – l’uno sotto l’aspetto della contraddittorietà della motivazione, l’altro sotto l’aspetto della violazione di legge – l’asserita esclusione, dall’alveo delle valutazioni del giudice d’appello, della sentenza penale di condanna dell’amministratore legale di Giuliauto s.r.l. (sentenza n. 683 del 2007 sopra richiamata). In quanto afferenti, sia pur sotto distinti profili, il medesimo aspetto correlato all’asserita omessa considerazione di una pronuncia penale nei confronti del titolare pro tempore di una carica sociale, i due motivi suggeriscono una trattazione unitaria. Essi sono infondati e vanno respinti, sol che si consideri che sono incisivamente contraddetti dal tenore sostanziale e testuale della decisione d’appello, la quale, invero, non estromette affatto la pronuncia penale dal quadro del discrezionale apprezzamento delle prove che la sorregge,- ma anzi ne travasa specifici e salienti argomenti nel tessuto della propria motivazione. Ed infatti, a pg. 13 della sentenza d’appello si legge “nessun rilievo riveste la circostanza che Giuliauto risulta aver pagato l’IVA al fornitore indicato in fattura, dal momento che, nella fattispecie in esame, è irrilevante che le operazioni commerciali si presentino oggettivamente reali, poichè ciò che è in discussione è l’indicazione di soggetti diversi da quelli effettivi”. La sentenza d’appello viene letta come elemento che rinforza le evidenze correlate alla sentenza di patteggiamento, ad essa “raccordandosi in modo logico e consequenziale”. La considerazione contenuta nella sentenza d’appello sulla pertinenza al giudice penale delle osservazioni del contribuente è perspicuamente riferita a quella porzione di esse in cui l’odierna ricorrente deduceva testualmente “l’erroneità del giudizio penale di condanna”, la “inutilizzabilità delle intercettazioni” e delle “sommarie informazioni”, l’erroneità della pronuncia penale di condanna nella parte in cui affermava che “per la realizzazione del reato tributario è sufficiente che l’IVA portata in detrazione non sia stata in realtà pagata”. Trattavasi, in buona sostanza, di profili tutti afferenti alla integrazione della fattispecie illecita penale, che non mostravano – nella ricostruzione fattuale e nella qualificazione coerentemente offerta dalla Commissione tributaria regionale – alcuna refluenza in punto di integrazione della fattispecie tributaria elusiva, bastando a tale ultimo fine la messa in opera di una impalcatura associativa volta a favorire l’importazione di autovetture IVA esente, nella prospettiva della immediata loro cessione alla odierna ricorrente, con il vantaggio della detraibilità fiscale da parte di quest’ultima. In questo quadro, nessun rilievo postulava la concretezza delle operazioni e delle fatturazioni – a più riprese ribadita dalla ricorrente – essendo le une e le altre innestate su un piano complessivamente frodatorio sistematico dell’imposta dovuta da parte delle società “filtro”, piano rispetto al quale la contribuente non ha dimostrato elementi circostanziati e contestualizzati idonei a denotare una qualche estraneità. In ultima analisi, non v’è stata alcuna marginalizzazione delle risultanze della sentenza penale, ma la sua lettura coerente alla declinazione non definitiva di essa (appellata dal condannato) e alla sua inidoneità a contraddire un dato saliente: quello per cui nelle “frodi carosello” complesse, ben può sussistere una catena di passaggi in relazione al bene, senza che rilevi in senso sterilizzante l’eventuale riscontrabilità di fatturazioni per le operazioni connesse a tali passaggi, qualora le interposizioni delle società “filtro”, sebbene concrete, siano – come nel caso di specie ha ritenuto discrezionalmente e motivatamente la Commissione tributaria regionale – strumentali a consentire il sistematico inadempimento degli obblighi fiscali da parte delle società “schermo”, l’importazione delle autovetture sempre a vantaggio di un unico, accomunante e onnicomprensivo soggetto finale, il costante beneficio in capo a quest’ultimo cessionario delle detrazioni d’imposta.

23. Il nono motivo è, del pari, infondato. Con esso viene censurata la motivazione nella parte in cui esclude la rilevanza del pagamento al soggetto indicato in fattura, benchè ciò costituisse “indice di contrattazione con tale soggetto e dunque… argomento contro l’accusa di operazione soggettivamente inesistente”. Invero, la Commissione tributaria regionale ha motivatamente escluso che l’esistenza oggettiva delle operazioni – quindi dei pagamenti correlati ai passaggi fatturati delle autovetture – fosse suscettibile di escluderne la conclamata inesistenza soggettiva, dal momento che il versamento dei corrispettivi d’acquisto dei beni non vale a dimostrare l’estraneità del cessionario degli stessi al congegno fraudolento, nella misura in cui quest’ultimo non fornisca – come in effetti non ha fornito nel caso di specie, secondo la valutazione discrezionale svolta dal giudice d’appello – elementi idonei a dimostrare, a fronte di un meccanismo “generalizzato e sistematizzato”, la propria giustificata inconsapevolezza della connotazione elusiva e fraudolenta dell’apparato societario in essere. Del resto, in capo alla Giuliauto s.r.l., quale operatore professionale, facevano capo precisi oneri di prova della propria buona fede, direttamente rinvenienti la propria fonte generale negli artt. 1175 e 1375 c.c., che postulavano la necessità di dimostrare di avere svolto le trattative ritenendo incolpevolmente che le autovetture fossero fornite realmente dalle società interposte. Tali oneri sono rimasti inevasi, ancorchè, in rapporto agli elementi oggettivi e circostanziali di cui l’Amministrazione aveva fatto ostensione, tenendo nel debito conto le concrete circostanze, spettasse alla contribuente, quale normale operatore indotto a sospettare dell’irregolarità delle operazioni, provare il contrario, quindi, non solo di aver concluso realmente le operazioni con le cedenti, ma di essersi trovata nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l’impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato d’ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni; a tal fine non può dirsi sufficiente la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che i beni siano stati consegnati o i corrispettivi effettivamente pagati, trattandosi di circostanze non concludenti (v. per il sedimentato avviso di legittimità: Cass. n. 17818 del 2016 e Cass. 12258 del 2018).

24. Infondato è anche il decimo motivo, che denuncia l’insufficiente ed errata motivazione, per non essersi la Commissione regionale curata di “spiegare come si potessero ricavare elementi di conforto” dalla pronuncia di condanna penale n. 683 del 2007 (summenzionata) nei confronti dell’amministratore di Giuliauto s.r.l.. Va reiterato quanto evidenziato sopra, in sede di reiezione del quarto motivo: la pronuncia di condanna è all’evidenza valorizzata alla stregua di elemento di supporto che, “raccordandosi in modo logico e consequenziale con la sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti dei fornitori” (così testualmente la pronuncia d’appello), depone per l’esistenza di operazioni commerciali che, pur presentandosi oggettivamente reali, indicavano soggetti diversi da quelli effettivi, obliterando il dato soggettivo del vero importatore, che risultava essere (sempre) Giuliauto s.r.l.. La circostanza che la pronuncia – secondo la ricostruzione veicolata dalla ricorrente riguardasse solo l’anno 2003 e investisse soltanto due dei fornitori “fittizi” non è aspetto che valga a travolgere la pregnanza argomentativa di quello che, in ogni caso, è un elemento di mero supporto, rivelando sintomaticamente, sia l’esistenza del sistema della frode carosello, che la sua consapevolezza in capo all’amministratore legale di Giuliauto. Detta connotazione sintomatica non è neutralizzata dalla riferibilità di quella condanna ad uno solo dei due anni cui si poggia la pretesa impositiva, nè dal riferimento in condanna a due “cartiere” soltanto in luogo di tutte.

25. L’undicesimo motivo – che lamenta l’equiparazione della “sentenza di patteggiamento ad una ammissione dei fatti penali contestati e ne trae effetti pregiudizievoli nel processo tributario” – è anch’esso infondato e va rigettato. A quanto esposto sopra, in sede di reiezione contestuale dei motivi terzo e quinto del ricorso per cassazione, giova soggiungere che la pronuncia della Commissione tributaria regionale è coerente ed allineata, in parte qua, all’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. assurge ad elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell’accertamento (Cass. n. 24587 del 2010; Cass. n. 2724 del 2001; Cass. n. 11301 del 1998). Nè rileva che la pronuncia di patteggiamento emessa in sede penale non sia resa nei confronti della società contribuente (che in quanto persona giuridica non potrebbe neppure astrattamente rispondere di fatti penalmente rilevanti), posto che essa nondimeno contempla – per definizione un accertamento di fatto, spendibile in chiave presuntiva e probatoria nel distinto giudizio tributario. Nel caso che occupa il giudice del gravame ha mostrato, non di voler ricavare dal patteggiamento riflessi di natura confessoria, ma di apprezzare discrezionalmente e motivatamente le circostanze emerse dalla relativa sentenza. In tal senso, la Commissione tributaria regionale ha valutato liberamente e criticamente il materiale probatorio acquisito nel procedimento penale definito ex art. 444 c.p.p., in quanto contenente un accertamento di fatto, ritualmente introdotto nel giudizio tributario.

26. Il dodicesimo motivo, nell’evidenziare l’insufficienza della motivazione in punto di ritenuta “inconsistenza” dell’interposizione reale delle società fornitrici dell’odierna ricorrente, appare infondato. Giova richiamare quanto già esposto in sede di reiezione dei motivi terzo e quinto del ricorso. Invero, l’operatività reale delle società interposte – quindi la loro effettiva interposizione – così come l’effettività delle operazioni commerciali e quella della gestione delle operazioni, non contraddicono, nè sovvertono, la fattispecie elusiva riscontrata, la quale, a fronte di operazioni commerciali infracomunitarie oggettivamente reali, invero comprendeva nell’efficace e critica ricostruzione riassunta dalla Commissione tributaria regionale – l’indicazione di soggetti diversi da quella che delle operazioni medesime rimaneva, a valle della “frode carosello”, l’effettiva cessionaria-acquirente, ossia l’odierna ricorrente. In buona sostanza, ciò che puntualmente emergeva dalle circostanze correlate al giudizio conclusosi col patteggiamento – circostanze delle quali la pronuncia impugnata per cassazione dà atto dettagliatamente – è la creazione di un’architettura associativa tesa a far fulcro su società deputate, nel corso del tempo, all’acquisto sistematico di autovetture nei paesi membri dell’Unione Europea, società che interponendosi compiutamente fra cedente intracomunitario ed acquirente effettivo consentivano che l’obbligo di versamento dell’IVA sul singolo acquisto venisse “trasferito dall’effettivo acquirente alle “cartiere” dell’associazione (che non lo adempivano), mentre l’effettivo acquirente poteva detrarre l’IVA apparentemente addebitatagli a titolo di rivalsa dalle “cartiere””: così icasticamente la sentenza d’appello, da qui l'”inconsistenza” ritenuta del profilo dell’interposizione reale, pur dedotto in ricorso siccome decisivo.

27. Il tredicesimo motivo stigmatizza l’insufficienza e illogicità della motivazione in punto di esclusione di necessità di un accordo trilatero tra interponente, interposto e terzo; esso è infondato. Se nelle vicende di interposizione più semplici, caratterizzate in genere da un’immediatezza di rapporti tra cedente/prestatore e cessionario/committente il fisco può addivenire ad una prova della c.d. frode mediante l’allegazione in genere di un elemento sintomatico dell’assenza di buona fede in capo al contribuente quale è l’inadeguatezza organizzativa del cedente/prestatore a poter eseguire l’operazione, perchè sfornito delle necessarie dotazioni di mezzi e personale (Cass. n. 6229 del 2013), nelle vicende più complesse, che si iscrivono nello scenario delle “frodi carosello”, il fine fraudolento è la risultante di una combinata orchestrazione di operazioni successive. In tal senso, il compito probatorio gravante sull’erario risulterebbe indiscutibilmente più gravoso se si dovesse provare la consapevole partecipazione del contribuente all’accordo fraudolento, quindi esigendo la dimostrazione di un patto trilaterale. Pertanto l’onere probatorio deve reputarsi certamente adempiuto con la dimostrazione che il contribuente, qualora in relazione alle circostanze concrete del caso avesse fatto uso dell’ordinaria diligenza che si richiede all’uomo d’affari mediamente avveduto, “avrebbe dovuto sapere” (v. Cass. n. 25778 del 2014) che con i propri acquisti partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA. “In circostanze del genere – si annota dal giudice eurounitario – il soggetto passivo interessato deve essere considerato, ai fini della sesta direttiva, partecipante a tale evasione e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette ad imposta da lui effettuate a valle” (Corte Giust. UE C-277/14, punto 48). Sarà in tal caso onere del contribuente dimostrare, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta, di non essere stato in grado di superare l’ignoranza del carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti coinvolti (Cass. n. 20059 del 2014). Si è, peraltro, previsto, proprio in relazione all’allegazione più frequente nella pratica a supporto della legittimità dell’operazione, che non è affatto sufficiente dedurre che la merce sia stata consegnata e rivenduta e la fattura, IVA compresa, effettivamente pagata, poichè trattasi di circostanze pienamente compatibili con la frode fiscale perpetrata mediante un’operazione soggettivamente inesistente (v. Cass. n. 15044 del 2014; v. anche Cass. n. 8132 del 2011 e 23074 del 2012).

28. Il quattordicesimo motivo lamenta in punto di insufficienza della motivazione l’elusione dei “giudicati interni” relativi all’acquisto a prezzi di mercato dal fornitore, all’effettività delle operazioni, ai relativi pagamenti, alla operatività dei soggetti intermedi; con il medesimo quattordicesimo motivo di ricorso si deduce anche la violazione dell’art. 2909 c.c.L’infondatezza attinge il motivo avuto riguardo ad ambedue i profili che lo articolano. La sentenza d’appello puntualizza con argomentazioni rigorose e stringenti quella che definisce l'”inconferenza oltre che l’irrilevanza dell’eccepita

formazione del giudicato interno in ordine alla effettività delle operazioni, dei relativi pagamenti, dell’operatività dei soggetti intermedi”. In effetti, come evidenziato da questa Corte a più riprese non è sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che i beni siano stati consegnati e le fatture, IVA compresa, siano state effettivamente pagate, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un’operazione soggettivamente inesistente (v. ex multis Cass. n. 17377 del 2009, Cass. 23074 del 2012). E’ stata anche esclusa la pregnanza della dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. 1950 del 2007 e Cass. 12802 del 2011). Ciò premesso, è – pertanto evidente che, nel caso di specie, non giova affatto alla contribuente, rievocando i giudicati anzidetti, comprovare l’avvenuto pagamento delle fatture, compresa VIVA addebitatale in rivalsa, e l’effettivo ricevimento e successiva rivendita dei beni, nonchè l’operatività del fatturante “di transito”, a fronte di elementi di forte spessore indiziario e presuntivo, forniti in giudizio dall’Amministrazione finanziaria, ripresi criticamente nella sentenza d’appello, a riprova del fatto che le autovetture venivano importate direttamente a beneficio della Giuliauto s.r.l., quale cessionaria finale e reale. Il che nitidamente ed energicamente emergeva anche dalla circostanza segnalata dalla Commissione tributaria regionale in sentenza secondo cui “tutti i prezzi di vendita applicati dal fornitore comunitario alle società intermedie erano superiori al prezzo di acquisto da parte della Giuliauto s.r.l. al netto dell’IVA”.

29. Il quindicesimo motivo che denuncia la duplicazione della pretesa fiscale è infondato. Questi: Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sulla questione degli effetti della frode IVA, perpetrata mediante l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e, segnatamente, sulle conseguenze ai fini del diritto di detrazione dell’Iva in capo al cessionario: è stato, in particolare, precisato che la frode fiscale posta in essere mediante l’emissione delle fatture per dette operazioni rappresenta un limite al principio fondamentale della neutralità dell’IVA, principio in base al quale la detrazione spetta se i requisiti dell’operazione sono stati comunque soddisfatti (v. Cass. n. 16679 del 2016). Del resto, in presenza di operazioni inesistenti non si realizza l’ordinario presupposto impositivo, nè la configurabilità stessa di un “pagamento a titolo di rivalsa” nè i presupposti del diritto alla detrazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1. E la previsione del successivo art. 21, comma 7, d’altro canto, se per un verso incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d’imposta pur in assenza del suo ordinario presupposto, sulla base del solo principio di cartolarità, per altro verso incide, indirettamente, anche sul destinatario della fattura, confermandone, in combinato disposto con il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1 e art. 26, comma 3, la preclusione a esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta, in assenza del relativo presupposto costituito dall’acquisto o dalla importazione di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione (cfr. Cass. n. 26854 del 2014; Cass. n. 12353 del 2005).

30. Il sedicesimo motivo – che denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, escludendo che alla contribuente fosse ascrivibile l'”onere di provare la sua estraneità alla frode fiscale in contestazione” – è infondato e va respinto. La sentenza impugnata per cassazione si mostra in realtà del tutto allineata alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, secondo la quale il diritto alla detrazione dell’IVA, previsto dall’art. 167 e ss. della Direttiva n. 2006/112 e costituente parte integrante del meccanismo di traslazione dell’imposta proprio dell’IVA in ambito comunitario, può essere negato solo quando l’amministrazione finanziaria dimostri, “alla luce di elementi oggettivi” – tra i quali vanno annoverati anche gli “indizi” che inducano un operatore avveduto a sospettare dell’esistenza di irregolarità o evasioni e quindi ad assumere maggiori informazioni – che il soggetto passivo al quale siano stati forniti i beni o i servizi “sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore a monte”. In tale evenienza, infatti, il soggetto che intende fruire della detrazione viene considerato, ai fini della menzionata direttiva, come “partecipante a tale evasione”, sempre che non fornisca la prova della circostanza liberatoria della sua incolpevole ignoranza (v. Corte di giustizia dell’Unione Europea, 21 febbraio 2006, in C – 255/02; 6 luglio 2006, in C-439/04 e C440/04; 21 giugno 2012, in C – 80/11; 6 dicembre 2012, in C285/11; 31 gennaio 2013, in C-642/11). La decisione d’appello dunque in sintonia con il suddetto indirizzo giurisprudenziale fa leva sull’affermazione per cui il cessionario (o committente), il quale si sia vista contestare dall’amministrazione, anche sulla base di presunzioni (v. D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 2), la detrazione dell’IVA versata in rivalsa, ha l’onere di provare che non sapeva – o non avrebbe potuto sapere, nonostante l’uso dell’ordinaria diligenza – di partecipare ad un’operazione fraudolenta posta in essere dagli altri soggetti collegati all’operazione (cfr. Cass. n. 25778 del 2014; Cass. n. 8132 del 2011; Cass. n. 15741 del 2012; Cass. 23704 del 2012).

31. Il diciassettesimo motivo – che denuncia l’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, della sentenza, per avere la Commissione tributaria regionale effettuato una “erronea valutazione degli atti e documenti di causa in relazione alla prospettazione di Giuliauto s.r.l. di elementi di fatto obiettivamente idonei a dimostrare la sua estraneità alla frode, in ipotesi, orchestrata da taluni fornitori” – è inammissibile. In tema di accertamento dei fatti storici, i vizi motivazionali deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modif. in L. n. 134 del 2012, non possono riguardare apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, poichè, a norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale, come tale insindacabile, del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. n. 18665 del 2017; Cass. n. 22985 del 2004). Giova soggiungere che il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte; in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5); in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. n. 9233 del 2006; Cass. 14084 del 2007).

32. Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato;

33. Nulla va disposto sulle spese, in ragione della mancata costituzione dell’Agenzia delle Entrate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 19 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2018

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