Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31573 del 03/12/2019

Cassazione civile sez. I, 03/12/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 03/12/2019), n.31573

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1602/2016 proposto da:

V.B., e P.R., elettivamente domiciliati in Roma,

Via D. Cucchiari n. 57, presso lo studio dell’avvocato Toscano

Camillo, rappresentati e difesi dall’avvocato Biondo Ernesto, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Banca Carime S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Dell’Orso n. 74,

presso lo studio dell’avvocato Perugini Salvatore, che la

rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1739/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 02/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/09/2019 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – V.B. e P.R. convenivano in giudizio Banca Carime s.p.a. e Gaps s.p.a.; domandavano di condannare la prima alla restituzione di quanto indebitamente ricevuto per effetto della capitalizzazione trimestrale degli interessi e dell’applicazione di interessi oltre il tasso soglia, di dichiarare inesistente il credito ceduto alla seconda e di dichiarare la nullità della stessa cessione; chiedevano inoltre disporre la cancellazione della segnalazione effettuata presso la Centrale rischi e la condanna al risarcimento del danno dipendente da detta segnalazione. Deducevano che V. aveva intrattenuto con Carime un conto corrente assistito da un affidamento e un ulteriore conto per sconto effetti, pure affidato, di cui P.R. era fideiussore; rilevavano che a carico dello stesso V. era stata illegittimamente segnalata una sofferenza presso la Centrale rischi per Euro 7.283,00: poichè tale debito trovava ragione nella illegittima capitalizzazione di interessi passivi, nessun credito, relativo alla posizione di V., avrebbe potuto cedere Carime a Gaps.

Nella resistenza di Banca Carime, a seguito dell’esperimento di consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale di Paola accertava la nullità della clausola che programmava la capitalizzazione trimestrale e quantificava l’ammontare non dovuto degli interessi anatocistici in Euro 1.774,55: escludeva, pertanto, che dovesse farsi luogo a condanna per le restituzioni, visto che il conto corrente presentava un saldo passivo maggiore, pari a Euro 7.283,00; affermava, inoltre, la legittimità della segnalazione alla Centrale rischi e disattendeva la domanda proposta nei confronti di Gaps per la genericità e l’assenza di prova.

2. – V. e P. proponevano quindi appello che la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del 2 dicembre 2014, respingeva.

3. – Gli stessi ricorrono per cassazione con una impugnazione articolata in sei motivi illustrati da memoria. Resiste con cortroricorso Banca Carime.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 2033,1283 c.c. e art. 194 c.p.c. con riferimento all’affermazione del giudice di appello secondo cui essi istanti, chiedendo la condanna al pagamento della somma di Euro 2.771,29, oltre interessi, avevano fatto esplicito riferimento all’accertamento operato dal consulente tecnico d’ufficio nella consulenza integrativa, così limitando la domanda alle annualità 1999 e 2002, oggetto dell’indagine suppletiva. Sostengono i ricorrenti ne non vi era stata mai alcuna rinuncia alle conclusioni formulate in precedenza, onde la Corte territoriale avrebbe dovuto accogliere la domanda di ripetizione dell’indebito sulla base delle risultanze della prima perizia. Riaffermano il diritto di V. alla ripetizione delle somme corrisposte indebitamente per effetto dell’attuato anatocismo. Osservano, infine, che l’acquisizione degli estratti conto era avvenuta nell’ambito dei poteri attribuiti dalla legge al consulente tecnico d’ufficio, anche in considerazione del fatto che, sul punto, non vi era stato tempestivo dissenso delle parti, giacchè le stesse non avevano partecipato alle operazioni peritali.

Il motivo è infondato.

La Corte di appello, pronunciandosi sul primo motivo di appello, ha ricordato come gli odierni ricorrenti avessero concluso, in primo grado, chiedendo la condanna di Banca Carime al pagamento della somma di Euro 2.771,29, oltre interessi: ha osservato il giudice distrettuale che in tal modo gli appellanti avevano fatto esplicito riferimento all’accertamento operato dal consulente tecnico d’ufficio nella consulenza integrativa con esclusivo riguardo alle annualità del 1999 e 2002, “così implicitamente, ma chiaramente, limitando la domanda a tali due annualità e rinunciando all’accertamento del maggiore indebito riguardante le ulteriori annualità esaminate dal consulente della prima relazione dichiarata nulla”: tale nullità – è da aggiungere – dipendeva dal fatto che la prima indagine era stata condotta sulla base di documentazione bancaria (costituita da estratti conto) non ritualmente prodotta in giudizio. Da quanto sopra la Corte di merito ha tratto la conclusione che gli appellanti avevano riproposto una domanda di ripetizione dell’indebito già rinunciata, la quale, quindi, doveva ritenersi nuova, e quindi preclusa a norma dell’art. 345 c.p.c.. Nella sentenza impugnata è comunque rilevato come l’acquisizione degli estratti conto utilizzati nella prima consulenza tecnica fosse illegittima, tenuto conto del mancato consenso delle parti a che il c.t.u. fondasse l’indagine su documenti non prodotti in causa.

Ora, è ben vero che, in base a una giurisprudenza che merita convinta adesione, affinchè una domanda possa ritenersi abbandonata dalla parte, non è sufficiente che essa non venga riproposta nella precisazione delle conclusioni, costituendo tale omissione una mera presunzione di abbandono, dovendosi, invece, necessariamente accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla domanda pretermessa (Cass. 10 luglio 2014, n. 15860; in senso conforme: Cass. 10 settembre 2015, n. 17875; si vedano pure: Cass. 14 luglio 2017, n. 17582; Cass. Sez. U. 24 gennaio 2018, n. 1785 – non resa, peraltro, su questione rimessa ex art. 374 c.p.c., comma 2 – secondo cui, affinchè una domanda possa ritenersi abbandonata, non è sufficiente che essa non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi avere riguardo alla condotta processuale complessiva della parte, antecedente a tale momento, senza che assuma invece rilevanza il contenuto delle comparse conclusionali). E’ altrettanto vero, però, che nel caso in esame tale criterio è stato osservato. Infatti, la Corte di appello non si è limitata ad apprezzare il dato della mancata riproposizione di quella parte della domanda che concerneva annate diverse da quelle sopra indicate (evenienza, questa, atta pur sempre a fondare una presunzione di abbandono con riguardo a tale frazione della pretesa), ma ha circostanziato la nominata condotta omissiva avendo riguardo sia al fatto che l’importo domandato era esattamente corrispondente all’entità dell’indebito accertato dal consulente nella consulenza integrativa, sia al dato della dichiarata nullità del primo accertamento peritale (che quindi – può aggiungersi – non era utilizzabile allo scopo di ottenere un importo superiore). In definitiva, il contenimento della domanda nella misura di Euro 2.771,29 è stato considerato espressione di una precisa volontà che trovava la sua spiegazione nel descritto quadro processuale. D’altro canto, ricorrenti non si mostrano capaci di contrastare efficacemente il ragionamento del giudice del gravame e si limitano ad opporre che non era stata da loro mai formulata una esplicita rinuncia alle conclusioni rassegnate in precedenza: il che, proprio a fronte del significato da attribuire alla nuova formulazione della domanda, non è punto decisivo.

Tanto evidenziato, la censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 1283 e 2033 c.c., non coglie evidentemente nel segno, giacchè la Corte di appello non ha negato l’illegittimità della clausola anatocistica, nè, tantomeno escluso che a fronte di somme indebitamente trattenute dalla banca spettasse la ripetizione: ha invece rilevato che nessuna pretesa restitutoria era stata coltivata con riguardo alle annualità che il secondo elaborato non aveva preso in considerazione. Ed è qui appena il caso di osservare che la censura svolta nulla ha a che vedere con i vizi denunciati, giacchè quello di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, mentre il vizio di falsa applicazione di legge consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista, pur rettamente individuata e interpretata, non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (Cass. 14 gennaio 2019, n. 640).

Inammissibile si profila, poi, la doglianza vertente sull’asserita violazione o falsa applicazione dell’art. 194 c.p.c., dal momento che la Corte di appello ha reputato inammissibile il primo motivo di gravame, rilevando come esso sottendesse la riproposizione di una domanda precedentemente rinunciata, e quindi nuova. In tal senso, le ulteriori considerazioni svolte nel merito, quanto alla rilevata infondatezza della pretesa precedentemente abbandonata, non sono censurabili in questa sede di legittimità. Va fatta applicazione del principio per cui qualora il giudice, definito il giudizio con una statuizione, in rito, di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), inserisca nella decisione anche delle argomentazioni di merito rese ad abundantiam, la parte soccombente non ha l’onere, nè l’interesse, a richiedere, con il mezzo di impugnazione, un sindacato in ordine a tale parte di motivazione, siccome ininfluente ai fini della decisione (ex plurimis: Cass. 4 gennaio 2017, n. 101; Cass. 21 giugno 2018, n. 16410).

2. – Col secondo mezzo è lamentata la violazione o falsa applicazione dell’art. 5 della circolare della Banca d’Italia n. 139 dell’11 febbraio 1991, nonchè dell’art. 2043 c.c.; è altresì lamentata la erroneità o l’assenza di motivazione. Viene in sintesi dedotto che il giudice del gravame aveva omesso qualsiasi considerazione con riguardo alla situazione patrimoniale di essi ricorrenti: ciò che sarebbe stato necessario per valutare la correttezza della segnalazione a sofferenza posta in atto ai loro danni. Viene inoltre contestata l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, per cui non era stata sollevata, nel primo grado del giudizio, una contestazione dello stato di insolvenza dei medesimi istanti: si rileva in proposito che nell’atto introduttivo era stata lamentata l’illegittimità della segnalazione. Gli istanti asseriscono, inoltre, che la Corte del merito aveva mancato di rilevare che la pretesa volontà di non adempiere fosse, nella fattispecie, non configurabile, avendo essi opposto alla banca specifiche questioni inerenti alla loro posizione debitoria. Viene rilevato, inoltre, che il giudice del merito non aveva tenuto conto che il credito oggetto di causa era stato ceduto in data 7 gennaio 2004, onde la controparte “non avrebbe avuto più alcun titolo per proseguire alla segnalazione mensile a sofferenza”. Infine la sentenza impugnata è censurata nella parte in cui era stata esclusa la legittimazione passiva di Banca Carime con riferimento la domanda di cancellazione del nome degli istanti dalle evidenze della Centrale rischi presso la Banca d’Italia.

Il terzo motivo oppone la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2043 c.c.. Viene rilevato che era stata data prova testimoniale, nel giudizio di primo grado, della difficoltà o impossibilità dei ricorrenti di accedere al credito; inoltre era stata prodotta documentazione, esaminata dal consulente tecnico, che attestava l’andamento decrescente del volume di affari dal 2001 al 2004. Secondo i ricorrenti la Corte di appello non aveva quindi posto a base della sua decisione le risultanze probatorie in atti, così negando ad essi il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali subiti in ragione della illegittima segnalazione a sofferenza.

Col quarto motivo è formulata una doglianza di violazione o falsa applicazione dell’art. 2059 c.c.. Viene sostanzialmente lamentato il mancato riconoscimento del danno non patrimoniale, con particolare riguardo ai profili di pregiudizio relativi all’immagine e alla reputazione commerciale.

I motivi si prestano a una trattazione congiunta e sono da disattendere nei termini che si vengono a esporre.

La Corte di merito, con riguardo alla segnalazione a sofferenza, ha osservato: che in base all’accertamento del Tribunale l’indebito risultava essere inferiore al credito maturato dalla banca e che ciò, secondo il giudice di prima istanza, rendeva legittima la segnalazione presso la Centrale rischi della Banca d’Italia; che, d’altro canto, gli appellanti, in primo grado, avevano posto a fondamento della prospettata illegittimità della segnalazione il fatto di non essere debitori nei confronti di Banca Carime, senza dedurre ulteriori profili di illiceità nel comportamento di quest’ultima; che quindi risultava inammissibile ex art. 345 c.p.c., la contestazione dello stato di insolvenza formulata in fase di gravame; che, inoltre, gli appellanti non avevano fornito prova del danno subito per effetto della segnalazione alla Centrale rischi, neppure sotto il profilo dell’impossibilità di accesso al credito e delle conseguenti ripercussioni di quest’ultima sull’attività imprenditoriale di V.; che con riferimento alla domanda di cancellazione dell’iscrizione dei nominativi degli appellanti presso la Centrale dei rischi doveva ravvisarsi un difetto di legittimazione passiva in capo a Banca Carime competendo tale cancellazione alla Banca d’Italia.

A fronte del rilievo per cui gli odierni ricorrenti avevano mancato di dedurre, in primo grado, che ad essi non era riferibile una situazione di insolvenza, viene semplicemente opposto che nell’atto di citazione era stato domandato il “risarcimento dei danni causati con l’illegittima e/o l’erronea segnalazione” (pag. 12 del ricorso): espressione questa, del tutto generica, da cui non è dato desumere alcuna precisa prospettazione quanto all’inesistenza al richiamato stato di insolvenza.

Sotto tale profilo, il secondo motivo non appare idoneo a contrastare efficacemente la ratio decidendi che sorregge, sul punto, la pronuncia impugnata.

Non si ravvisa, del resto, il denunciato vizio di motivazione, vertente sulla “pretesa volontà inadempiente” degli odierni istanti, proprio in quanto, secondo quanto rilevato nella sentenza impugnata, ciò che era stato contestato, ai fini della affermata illegittimità della segnalazione a sofferenza, era la sola insussistenza del debito: debito che, di contro era stato accertato giudizialmente dal giudice di prime cure.

La questione relativa alla segnalazione a sofferenza nel periodo successivo al 7 gennaio 2014 presenta invece carattere di novità, visto che la Corte di merito non ne parla e i ricorrenti mancano di indicare se e come abbiano fatto valere il tema in appello (Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 9 agosto 2018, n. 23694).

Per quel che concerne, poi, la lamentata assenza di una pronuncia che ordinasse a Banca Carime la “cancellazione della segnalazione periodica mensile a sofferenza”, la Corte di merito, citando Cass. 1 aprile 2009, n. 7958, ha spiegato come spettasse alla Banca d’Italia la legittimazione passiva in ordine all’azione proposta dall’interessato per ottenere la rettifica o la cancellazione della segnalazione erroneamente effettuata. Tale affermazione non è stata efficacemente contrastata; nè il ricorrente ha spiegato per quale motivo il giudice del merito, in considerazione del preciso tenore della domanda proposta, dovesse rendere una pronuncia diversa da quella emessa.

Essendo stato disatteso il quarto motivo, risultano inammissibili le censure svolte nei successivi due motivi, che attengono alla prova del danno. E infatti, la statuizione reiettiva quanto al risarcimento trova idonea, e sufficiente, giustificazione nel mancato accoglimento delle deduzioni intese a dar conto dell’illegittimità della segnalazione a sofferenza; si ricorda, in proposito, che qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, il mancato accoglimento delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (per tutte: Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 18 aprile 2017, n. 9752).

3. – Il quinto mezzo lamenta violazione o falsa applicazione della L. n. 108 del 1996 e dell’art. 1815 c.c., comma 2 e difetto di motivazione. Gli istanti si dolgono che il giudice distrettuale non abbia preso in considerazione il principio per cui debbono considerarsi usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, e quindi anche a titolo di interessi moratori. Si sottolinea in proposito come avrebbe dovuto disporsi una rinnovazione della consulenza tecnica al fine di verificare il superamento della soglia di legge anche con riguardo a tali interessi.

Il motivo è inammissibile per la sua genericità.

Gli istanti non chiariscono i termini della questione sollevata, che declinano astrattamente, facendo riferimento a un principio di diritto che non spiegano come correlare alla fattispecie concreta. Che l’usurarietà possa riguardare anche gli interessi moratori è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. 30 ottobre 2018, n. 27442); non è però spiegato come tale principio debba trovare applicazione nella controversia in esame, in cui vengono in questione affidamenti riferiti a contratti di conto corrente, e cioè finanziamenti a utilizzo flessibile (e non finanziamenti a piano di ammortamento prestabilito, quali i mutui), in cui l’interesse moratorio coincide con quello convenuto per gli scoperti di conto. E a tale proposito è da rilevare che i ricorrenti nemmeno indicano quale tasso, diverso da quello preso in considerazione dal c.t.u., avrebbe dovuto essere applicato per dar ragione del lamentato superamento della soglia usuraria.

4. – Col sesto motivo la sentenza è censurata per violazione dell’art. 112 c.p.c. e per difetto o insufficienza di motivazione. I ricorrenti osservano come, in base alla sentenza impugnata, non fosse dato comprendere in modo chiaro a chi spettasse la titolarità del credito; rilevano, poi, che “la sentenza nel dispositivo non (aveva) in alcun modo dato risposta alla domanda proposta”.

Il motivo è inammissibile.

La Corte di appello si è pronunciata sul quinto motivo di gravame, vertente sulla nullità della cessione, osservando come il permanere dell’esposizione debitoria in capo agli appellati non privasse di oggetto il contratto con cui il credito era stato trasferito da Banca Carime a Gaps.

La censura svolta in fase di gravame è stata dunque decisa e la pronuncia resa sul punto non è affatto mancante di motivazione (tenuto conto che è oggi denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante: Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Nè si comprende la doglianza vertente sul contenuto del dispositivo di sentenza; il giudice di appello è certo tenuto a pronunciarsi, nel dispositivo, sulla sorte complessiva del gravame: ciò è nondimeno avvenuto, essendo stata resa, in continuità logica con quanto esposto nel corpo della motivazione, puntuale statuizione di rigetto dell’impugnazione proposta.

5. – Il ricorso per cassazione è respinto.

6. Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al paga vento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2019

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