Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31567 del 06/12/2018

Cassazione civile sez. III, 06/12/2018, (ud. 13/11/2018, dep. 06/12/2018), n.31567

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13912/2017 R.G. proposto da:

I.G. e I.A., rappresentati e difesi dagli

Avv.ti Corrado De Martini e Gian Luca Sellani, con domicilio eletto

presso lo studio del primo in Roma, via Francesco Siacci, n. 27;

– ricorrenti –

contro

Roma Capitale, rappresentata e difesa dall’Avv. Rodolfo Murra, con

domicilio eletto presso gli uffici dell’avvocatura capitolina in

Roma, via del tempio di Giove, n. 21;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e nei confronti di:

F. & I. per Costruzioni Edilizie S.p.A.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 7124/2016,

pubblicata il 26 novembre 2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13 novembre

2018 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto

Procuratore generale Dott. PEPE Alessandro, che ha chiesto il

rigetto.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. I.G., in proprio e quale procuratrice del fratello A., convenne in giudizio, nel 2005, avanti il Tribunale di Roma, il Comune della Capitale chiedendone la condanna al risarcimento del danno (quantificato in Euro 4.843.106,30, oltre interessi e rivalutazione) da lesione del diritto di credito, sottoposto a condizione sospensiva, avente ad oggetto il maggior corrispettivo convenuto con terzo soggetto per la cessione di quote societarie.

Tale lesione discendeva, in tesi, dal fatto che il Comune, adottando con ritardo provvedimenti amministrativi di propria competenza, aveva determinato il mancato avveramento della condizione pattuita.

1.1. Queste in sintesi le premesse in fatto, ricavate dai concordi riferimenti contenuti nella sentenza impugnata e negli atti di parte:

– nel 1990 I.G. e A. avevano ceduto le proprie quote di partecipazione nella società Barna S.r.l. alla Ing. F.F. S.p.A. (la quale aveva in tal modo ottenuto il controllo della F. & I. S.p.A. interessata allo sfruttamento edificatorio di un’area sita in piazza dei (OMISSIS), denominata (OMISSIS); con successiva scrittura del 3/12/1991, le parti avevano convenuto che, qualora entro dieci anni da tale data la P.A. avesse concesso sulla predetta area incrementi della volumetria per oltre 47.000 m3, i cedenti avrebbero avuto diritto ad una integrazione del corrispettivo pattuito; con riferimento alla regolazione urbanistica dell’area erano poi intervenuti i seguenti provvedimenti:

– in data 12/12/1996 il Consiglio comunale aveva adottato, con deliberazione n. 258, una variante di PRG, che a sua volta rimandava ad un adottando Protocollo d’intesa con la Regione Lazio e altri soggetti interessati a uno o più accordi di programma;

– in data 29/7/1999 era stato sottoscritto Protocollo d’intesa con il quale l’amministrazione comunale si impegnava a concedere ai soggetti interessati la possibilità di realizzare una cubatura edificabile complessiva sull’area non inferiore a 150.000 m3 ed inoltre a farsi promotrice, entro i successivi sette mesi, degli accordi di programma e della conferenza di servizi necessari alla compiuta attuazione del protocollo; le parti avevano subordinato l’esecuzione dell’accordo all’approvazione definitiva della variante di PRG da parte dei competenti organi regionali;

– in data 22/3/2000 la Giunta regionale del Lazio aveva approvato detta variante (deliberazione n. 862);

– in data 12/5/2001 il Comune aveva adottato la delibera n. 85, con la quale approvava il piano di utilizzazione dell’area in questione, attribuendo ad essa la cubatura di 150.000 m3.

1.2. Dedussero quindi gli attori che se il Comune si fosse fatto promotore dell’accordo di programma entro il termine del 28/2/2000, come stabilito nel Protocollo d’intesa del 29/7/1999, questo sarebbe stato certamente concluso entro il 2/12/2001, e cioè entro il termine decennale previsto nel contratto di cessione di quote per l’avveramento della condizione cui era subordinato il loro diritto a un maggior corrispettivo.

2. Instaurato il contraddittorio anche nei confronti della società F. & I. per Costruzioni Edilizie S.p.A., chiamata in causa da Roma Capitale per esserne manlevata in forza di “atto d’obbligo” stipulato in data 5/6/2002, il tribunale accolse sia la domanda di risarcimento del danno, sia quella di manleva.

3. Pronunciando quindi sull’appello principale proposto da Roma Capitale e su quello incidentale della F. & I. per Costruzioni Edilizie S.p.A. (per i primi cinque motivi sovrapponibile al primo), la Corte d’appello di Roma, con la sentenza in epigrafe, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da I.G., in proprio e nella predetta qualità, condannando la stessa al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

Rigettati i primi due motivi di gravame (con i quali erano eccepiti il difetto di giurisdizione e l’esistenza di giudicato esterno ostativo all’accoglimento della domanda) la Corte ha accolto il quarto nella parte in cui entrambe le appellanti si dolevano del fatto che il primo giudice avesse ritenuto che il ritardo imputato al Comune fosse di per sè fonte di responsabilità, a prescindere da qualsiasi indagine sull’elemento psicologico.

Richiamata la giurisprudenza in tema di responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo, la Corte di merito ha in sintesi rilevato l’insussistenza nella specie sia di un danno ingiusto, conseguente alla condotta della p.a., sia del coefficiente soggettivo richiesto per l’imputabilità a quest’ultima dell’evento dannoso.

Sotto il primo profilo, ha rilevato che:

– Roma Capitale, estranea al contratto di cessione di quote, non poteva ritenersi vincolata al termine ivi previsto per l’avveramento della condizione;

– essendo rimessa a sua volontà l’avveramento della condizione, ritenere che il mancato avveramento sia per essa fonte di responsabilità nei confronti della parte titolare della corrispondente aspettativa, “significherebbe imputare (ad essa, n.d.r.) una qualche responsabilità sul piano giuridico, (ciò, n.d.r.) che appare evidentemente inammissibile stante la sua completa estraneità agli assetti negoziali che dalla condizione direttamente e indirettamente scaturiscono”.

Sotto il secondo profilo ha rilevato che il ritardato compimento di un atto amministrativo non può ritenersi fonte di responsabilità risarcitoria in modo automatico, occorrendo dimostrare, secondo la citata giurisprudenza, il dolo o la colpa dell’amministrazione, per il che “l’appellante (recte: parte attrice) non ha apportato nel presente giudizio alcun elemento probatorio”, ancorchè di natura indiziaria. Al riguardo “non è senza rilievo – si soggiunge in sentenza – il fatto che nell’iter amministrativo non ha preso parte solo Roma Capitale ma anche la Regione Lazio, con le conseguenti intuibili imputabilità a più soggetti dei vari segmenti che (lo) compongono nella sua interezza, oltre al fatto che non è rinvenibile un termine cogente per la sua definizione”.

3. Avverso tale decisione I.G. e A. propongono ricorso per cassazione articolando sette motivi; vi resiste Roma Capitale, depositando controricorso e proponendo a sua volta ricorso incidentale condizionato, con due mezzi, cui replicano i germani I. depositando controricorso.

F. & I. per Costruzioni Edilizie S.p.A. non svolge difese nella presente sede.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va preliminarmente rilevata l’irritualità del conferimento dell’incarico al nuovo difensore dell’amministrazione controricorrente, avvenuto attraverso il rilascio di procura speciale (non già nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, ma) in calce a “comparsa di costituzione di nuovo difensore”. Trattandosi di giudizio nella specie già pendente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 (v. art. 58, comma 1), non può trovare applicazione il nuovo disposto dell’art. 83 c.p.c., comma 3, (come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 9), che ora ammette (integrando, sul punto, la precedente versione della medesima norma) la costituzione in giudizio della parte anche mediante il conferimento della procura speciale con apposizione in calce o a margine “della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato”.

Pertanto, nel caso in esame, ricadente sotto la previgente disciplina del citato art. 83 c.p.c., comma 3, per la nomina del nuovo difensore sarebbe stato necessario osservare, in via esclusiva, le forme prescritte dal comma secondo dello stesso art. 83 del codice di rito, non essendo ammesse altre modalità (v. ex aliis Cass. 21/11/2011, n. 24632; 09/02/2011, n. 3187).

2. Con il primo motivo del ricorso principale I.G. e A. denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto applicabile alla fattispecie i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo.

Sostengono che tali principi postulano che la p.a. sia parte di un vero e proprio rapporto giuridico e non mero terzo e che, pertanto, nella specie, vertendosi in tema di tutela aquiliana del credito, i parametri per valutare l’ingiustizia e la colpa sono quelli dettati per tale diversa ipotesi.

3. Con il secondo motivo essi poi denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1353,1955 e 1356 c.c., nonchè dell’art. 2043 c.c., con specifico riferimento al requisito della ingiustizia del danno.

Rilevano che, diversamente da quanto postulato in sentenza, la responsabilità del Comune non era stata dedotta ex contractu per il mancato avveramento della condizione, dal momento che è indiscusso che il Comune è terzo rispetto al contratto di cessione di quote; essi piuttosto avevano dedotto che il colpevole ritardo con cui il Comune aveva dato avvio alla procedura finalizzata all’accordo di programma era stata la causa unica per cui la condizione apposta al contratto non si era avverata.

4. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione delle medesime disposizioni, “sotto diversa angolazione”.

Evidenziano che “l’interesse da prendere in considerazione ai fini della valutazione sulla “ingiustizia” del danno… è quello dei ricorrenti alla tutela del proprio credito nei confronti della ditta F. & I. S.p.A. e non – come pretenderebbe la Corte di Roma – l’interesse del Comune di Roma”.

Censurano inoltre l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui l’interesse dei ricorrenti non sarebbe rilevante per l’ordinamento, atteso che, al contrario, quello sottostante alla controversia costituisce – affermano – “un diritto soggettivo o quantomeno una aspettativa legittima”.

5. Con il quarto motivo i ricorrenti reiterano in sostanza la medesima censura, rilevando che la posizione dell’acquirente di un diritto sottoposto a condizione sospensiva, in pendenza della stessa, riceve specifica tutela dall’ordinamento.

6. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano inoltre, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 43 cod. pen. e dell’art. 2043 c.c., in relazione alla ritenuta insussistenza della colpa.

Sostengono in sintesi che, a radicare la dedotta responsabilità della p.a., è sufficiente il rilievo che il ritardo nel condurre a termine il procedimento amministrativo costituisce comportamento illegittimo, senza che sia necessaria alcuna ulteriore indagine in relazione alla colpa nella causazione del danno.

Rilevano che, comunque, il consistente ritardo registratosi nella specie è di per sè indice di un comportamento quantomeno negligente.

7. Con il sesto motivo i ricorrenti deducono, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., in relazione alla ritenuta non imputabilità dell’evento dannoso.

Rilevano che, in base a una corretta applicazione di tali norme, la Corte territoriale avrebbe dovuto ravvisare la colpa nell’operato della Comune di Roma anche se i criteri da essa richiamati fossero stati applicabili alla fattispecie. Rileva che dalla lettura del menzionato Protocollo d’intesa si evince la violazione da parte del comune di uno specifico obbligo di risultato, ragione per cui i giudici a quibus avrebbero dovuto ravvisare la ricorrenza di una c.d. culpa in re ipsa e/o di una colpa specifica idonea a introdurre una presunzione di legge e invertire l’onere della prova.

8. Con il settimo motivo i ricorrenti infine denunciano, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2055 c.c., per avere la Corte d’appello attribuito rilievo al fatto che all’iter amministrativo abbia partecipato anche altra amministrazione, trattandosi di questione mai discussa e comunque del tutto irrilevante. Rilevano che, rispetto al ritardo denunciato, la Regione non ha avuto nè poteva avere alcun ruolo. Soggiungono che, quand’anche invece lo avesse avuto, ciò non varrebbe a escludere la piena responsabilità solidale del comune, ai sensi dell’art. 2055 c.c..

9. Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato Roma Capitale denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., comma 2, artt. 2043 e 2909 c.c., in relazione al rigetto dell’eccezione di giudicato esterno da essa opposta sul rilievo che la domanda risarcitoria per cui è causa non sarebbe altro che una reiterazione di quella proposta in precedente giudizio concluso con sentenza, divenuta definitiva, del Tribunale di Roma n. 18866/04.

Lamenta che l’assunto posto a base, sul punto, della decisione impugnata, secondo cui si tratterebbe di azioni diverse, quanto a causa petendi (nel primo giudizio la pretesa risarcitoria essendo fondata dalla dedotta esistenza di accordi fraudolenti intercorsi fra la cessionaria delle quote e non precisati membri del comune, volti a ledere il diritto al maggior corrispettivo), è frutto di un errore di prospettiva, dal momento che – sostiene – in entrambi i giudizi a fondamento della pretesa risarcitoria è posta una asserita condotta illecita della p.a. a danno del diritto di credito degli odierni ricorrenti, mentre la differente prospettazione attinge solo le modalità attraverso le quali tale condotta si sarebbe esplicata.

10. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale denuncia poi violazione e falsa applicazione dell’art. 37 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello rigettato anche l’eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione sul rilievo che non si verte, nella fattispecie, in ipotesi di risarcimento del danno da ritardo in favore di soggetto interessato al rilascio in modo diretto di un provvedimento amministrativo.

Osserva di contro parte ricorrente che, vertendosi in materia urbanistica ed edilizia, già devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 34 e dalla L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 7, il giudice amministrativo, ai sensi del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 7, comma 1, (Codice del processo amministrativo), ha competenza non solo riguardo alle controversie inerenti ad interessi legittimi, ma anche su quelle relative a diritti soggettivi concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo.

11. Nell’esame delle questioni poste dai contrapposti ricorsi, rilievo prioritario occorrerebbe assegnare sul piano logico a quello incidentale condizionato proposto da Roma Capitale, investendo lo stesso questioni processuali e di merito di carattere evidentemente pregiudiziale.

Trattandosi però di questioni esplicitamente esaminate e disattese dal giudice a quo e avendo la ricorrente incidentale comunque ottenuto, seppur per ragioni subordinate di merito, il rigetto della domanda nei suoi confronti proposta, viene in rilievo il principio -nettamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità e al quale questo collegio intende dare continuità – secondo cui, alla luce del parametro costituzionale della ragionevole durata del processo, alla stregua del quale fine primario di questo è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel merito, “il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di condizionato, indipendentemente parte, e deve essere esaminato pregiudiziali di rito o preliminari siano state oggetto di decisione merito, ha natura di ricorso da ogni espressa indicazione di con priorità solo se le questioni di merito, rilevabili d’ufficio, non esplicita o implicita da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione, solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale” (Cass., Sez. U, n. 5456 del 06/03/2009, Rv. 606973; Sez. U, n. 23318 del 04/11/2009; Sez. U, n. 7381 del 25/03/2013; cui adde Cass. 06/03/2015, n. 4619; 14/03/2018, n. 6138; contra Cass. 18/11/2016, n. 23531; 19/04/2018, n. 9671).

Ne deriva la necessità di assegnare priorità, nell’esame dei ricorsi, a quello principale, dipendendo dalla riconosciuta fondatezza, o meno, di almeno taluno dei motivi che ne sono posti a fondamento la reviviscenza, o meno, dell’interesse di controparte all’esame delle questioni preliminari da essa poste.

12. Tale vaglio ha esito negativo.

I sopra esposti motivi del ricorso principale, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, sono infatti manifestamente infondati.

La Corte territoriale pone in premessa e fa corretta applicazione del principio, ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, a cominciare dal fondamentale arresto di Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500, secondo cui il giudice ordinario, davanti a cui sia stata introdotta una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per illegittimo esercizio di una funzione pubblica, deve procedere alle seguenti indagini: a) in primo luogo, accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) stabilire, poi, se l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) accertare, inoltre, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della p.a.; d) accertare, infine, se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della p.a., non soltanto sulla base del dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, ma anche sulla base del requisito soggettivo del dolo o della colpa, configurabile qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa e che costituiscono limiti esterni alla discrezionalità amministrativa (v. ex aliis Cass. 22/12/2006, n. 27498, che ha respinto il ricorso della società danneggiata, la quale non aveva prospettato la sussistenza del carattere illegittimo e colpevole del comportamento del Comune, che non aveva eseguito le opere di urbanizzazione dopo averle rilasciato concessione edilizia ed aver riscosso il relativo contributo, ma si era limitata a sostenere -infondatamente, attesa la discrezionalità di cui è in proposito fornita la p.a. – la sussistenza di una vera e propria obbligazione del Comune ad eseguire dette opere).

L’assunto (posto a fondamento del primo motivo) secondo cui tali principi postulano che l’amministrazione sia parte di un vero e proprio rapporto giuridico e non mero terzo è certamente destituito di fondamento.

Al contrario è univocamente presupposta, nella giurisprudenza citata, la natura extracontrattuale della responsabilità della P.A. da provvedimento illegittimo i cui presupposti essa è diretta a chiarire.

I principi richiamati vengono dunque in rilievo ogni qual volta venga dedotto il diritto al risarcimento del danno, ex lege Aquilia (art. 2043 c.c.), in dipendenza di un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione. In tali casi, l’esistenza di un rapporto peculiare che correli l’interesse del danneggiato con l’attività amministrativa e lo elevi rispetto a quello generico della collettività, rileva solo ove il danno di cui si chiede il risarcimento venga dedotto come conseguenza di una lesione di un interesse legittimo (recte: della “lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla… e che risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo”: Cass. Sez. U. n. 500 del 1999).

Ma il danno da provvedimento illegittimo può conseguire anche dalla lesione di interessi, meritevoli di tutela per l’ordinamento, cui non si correli alcun interesse diretto, pretensivo o oppositivo, della parte all’azione amministrativa che sia come tale qualificabile in termini di vero e proprio interesse legittimo. Il principio affermato da Cass. Sez. U. n. 500 del 1999 va ben oltre l’affermazione, comunemente da essa tratta, della tutela risarcitoria degli interessi legittimi, condensandosi nella più ampia affermazione secondo cui “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poichè la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante” (sentenza citata, p. 8).

Ciò precisato ne discende anche, per converso, che non v’è ragione alcuna, nè logica nè sistematica, che possa condurre a ritenere che gli altri presupposti della responsabilità extracontrattuale da provvedimento illegittimo, quali delineati dalla richiamata giurisprudenza, abbiano a mutare a seconda della natura dell’interesse leso (diritto soggettivo, interesse al bene della vita correlato all’interesse legittimo o altro interesse giuridicamente rilevante).

Questo infatti – e la valutazione che occorre compiere, da parte del giudice di merito, circa la sua rilevanza per l’ordinamento giuridico – attengono solo al presupposto della ingiustizia del danno (danno contra ius) e sono indifferenti rispetto agli altri elementi che integrano il fatto costitutivo del diritto al risarcimento, rappresentati:

a) dal fatto, commissivo od omissivo, dannoso;

b) dalla necessario criterio di imputazione soggettiva (per la responsabilità aquiliana occorrendo trattarsi di condotta dolosa o colposa);

c) dall’assenza di cause di giustificazione (condotta non iure);

d) dal nesso causale tra il fatto e l’evento lesivo, oltre che, ancora a valle:

e) dalle conseguenze pregiudizievoli dell’evento e dal nesso causale tra questo e quelle.

Ciò indubbiamente deve affermarsi, all’opposto di quanto argomentato dai ricorrenti, anche nel caso in cui l’interesse leso sia un diritto di credito (ovvero, come nella specie, altra situazione soggettiva giuridicamente tutelata) inerente a rapporto obbligatorio cui sia estranea l’amministrazione.

L’estraneità della P.A. rispetto al rapporto obbligatorio in ipotesi inciso dal provvedimento illegittimo non esclude infatti che il fondamento della sua responsabilità vada pur sempre ricercato negli stessi presupposti per i quali essa è affermata con riferimento alla lesione dell’interesse legittimo (cfr., sia pure con riferimento ad altra fattispecie, Cass. 27/10/2011, n. 22402, secondo cui, in tema di tutela aquiliana del credito, ove la lesione della pretesa creditoria (nella specie, da prestazione lavorativa del dipendente) derivi da un fatto per la cui imputabilità la legge preveda uno speciale criterio di imputazione – come nel caso dell’art. 2054 c.c., comma 2, – quello stesso criterio trova applicazione anche nella causa promossa dal creditore nei confronti del responsabile del fatto illecito, non essendovi ragioni per limitarne l’applicabilità al solo caso della domanda proposta direttamente dalla vittima primaria, giacchè il fatto genetico del danno è il medesimo anche per gli altri soggetti danneggiati. Ne consegue – nella fattispecie ivi esaminata di lesione del credito derivante da sinistro stradale cui trovi applicazione l’art. 2054 c.c. – che il diritto al risarcimento del terzo titolare del diritto di credito è soggetto allo stesso termine di prescrizione (due anni ex art. 2947 c.c., comma 2) ed alle stesse condizioni di proponibilità contemplate dalla legge per far valere i diritti derivanti dai danni da circolazione stradale)).

13. Ciò posto del tutto correttamente la Corte ha escluso che nella specie possano ravvisarsi sia il presupposto di cui alla lettera b) del principio sopra enunciato (danno ingiusto), sia quello di cui alla lett. d) (imputabilità soggettiva).

13.1. Sotto il primo profilo varrà anzitutto rimarcare l’evidente intrinseca contraddittorietà della prospettazione di parte ricorrente laddove, da un lato, riferisce la pretesa risarcitoria (e sembra anche correlarla in concreto per la sua quantificazione) al diritto di credito al maggior corrispettivo pattuito per la cessione di quote societarie, per l’ipotesi (posta quale condizione sospensiva) che entro dieci anni dalla cessione la P.A. avesse concesso sull’area edificabile sopra descritta incrementi della volumetria per oltre 47.000 m3; dall’altro essa stessa esplicitamente ammette (terzo motivo, pag. 17 del ricorso) che, non essendosi detta condizione mai verificata nè potendosi più verificare, “il diritto di credito non è dunque sorto”.

Da tale ovvio e indiscusso rilievo nasce però una prima elementare, quanto dirimente, constatazione: il mancato avveramento della condizione non può mai aver determinato la “lesione” del diritto di credito che era ad essa subordinato, avendone piuttosto impedito il suo stesso sorgere.

Ne discende la manifesta infondatezza se non l’inammissibilità della pretesa risarcitoria, e dei motivi di ricorso tutti in quanto in tesi invece a sostenerne la fondatezza, in quanto riferita ad una causa petendi che, nella sua stessa prospettazione, è inesistente (la lesione di un diritto di credito che si ammette non essere mai nato).

13.2. La prospettiva è destinata a non mutare in modo rilevante anche laddove possa ritenersi implicito nella domanda originaria il riferimento, quale interesse leso, alla situazione soggettiva attiva di cui è titolare l’acquirente di un diritto sottoposto a condizione sospensiva durante la pendenza della stessa.

E’ ben vero che, come affermano i ricorrenti (nel terzo e quarto motivo), la pendenza della condizione sospensiva dà vita ad una aspettativa di diritto che è essa stessa situazione soggettiva tutelata dall’ordinamento (artt. 1356 – 1359 c.c.); trattasi però, evidentemente, di situazione:

a) per definizione diversa e non sovrapponibile al diritto sottoposto a condizione (che, proprio per tal motivo, non si sa ancora se sorgerà oppure no), non rilevando che, sul piano della fattispecie, il contratto sottoposto a condizione sospensiva configuri, in pendenza di questa, secondo tradizionale ricostruzione, lo stadio intermedio di una fattispecie a formazione progressiva, occorrendo ai fini in esame aver riguardo non alla fattispecie ma all’effetto, ossia alla tutela che per essa appresta l’ordinamento e alla situazione giuridica che ne scaturisce, certamente diversa e non rapportabile al diritto sottoposto a condizione (quasi fosse mera proiezione o misura intermedia dello stesso);

b) tutelata solo in quanto tale, ossia in quanto portatrice di mere possibilità e speranze del sorgere del diritto, sottoposto a condizione; possibilità e speranze che, per l’appunto, il codice si premura di tutelare come tali, con rimedi e regole tendenti ad uno scopo puramente conservativo e cautelare (artt. 1356 e 1358 c.c.).

La tutela risarcitoria, ex art. 2043 c.c., di una siffatta situazione può dunque bensì in astratto ammettersi, nella prospettiva aperta da Cass. n. 500 del 1999, trattandosi di interesse tutelato dall’ordinamento, ma entro i ristretti limiti (ancorchè più propriamente apprezzabili sul piano del danno-conseguenza che su quello dell’evento lesivo) del valore economico ad essa attribuibile, evidentemente e per definizione ben diverso da quello del diritto di credito: valore per il quale non risulta che parte ricorrente abbia mai offerto, nè tanto meno provato, validi elementi di giudizio.

13.3. La differenza ontologica tra aspettativa di diritto durante la pendenza della condizione sospensiva e diritto sottoposto a condizione consente peraltro di apprezzare l’esattezza del rilievo contenuto in sentenza secondo cui il mancato avveramento della condizione rimessa al fatto volontario di un terzo (nella specie, l’aumento dei limiti di edificabilità da parte dell’amministrazione comunale) non può mai di per sè costituire, per quest’ultimo, fonte di responsabilità.

La scelta infatti del se porre in essere (oppure no) l’evento (che altri nell’ambito di contratto cui il terzo è per definizione estraneo, hanno dedotto in condizione), ovvero del se porlo in essere (oppure no) entro il termine che le parti del contratto avevano fissato per l’avveramento, costituisce essa stessa l’evento (futuro e incerto) dedotto in condizione e non può mai pertanto incidere sull’aspettativa in quanto tale (collocandosi rispetto ad essa su di un piano esterno, quello appunto dell’evento futuro e incerto dal quale quella aspettativa ripete la propria stessa ragion d’essere).

L’aspettativa, in altre parole, in quanto tale, rimane integra finchè l’evento è atteso e viene a cessare (per ragioni per così dire fisiologiche, legate alla sua stessa conformazione secondo contratto) una volta che la condizione non si sia verificata nel termine previsto e/o non possa più verificarsi. Il mancato avveramento della condizione, dunque, non “lede” l’aspettativa ma ne determina puramente e semplicemente l'”estinzione”, quale uno dei due alternativi eventi da essa stessa previsti e, appunto, in certo senso, attesi.

14. Le considerazioni che precedono, conducendo necessariamente al rigetto del ricorso, assorbono e rendono ultroneo l’esame dei restanti motivi di impugnazione (dal quinto al settimo), i quali investono il secondo fondamento motivazionale rappresentato dalla ritenuta insussistenza dei presupposti per la imputabilità soggettiva all’amministrazione comunale dell’evento dannoso.

Anche di essi può comunque incidentalmente rilevarsi, ad abundantiam, la manifesta infondatezza.

In base ai principi già sopra richiamati, perchè possa affermarsi la responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione dai provvedimento illegittimo non è sufficiente il solo dato della illegittimità del provvedimento, occorrendo anche poter configurare il requisito soggettivo del dolo o della colpa, predicabile “qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa e che costituiscono limiti esterni alla discrezionalità amministrativa”.

Come già sopra rilevato non si vede ragione nè logica nè sistematica perchè a questi principi abbia a derogarsi nella fattispecie, tale ragione non potendo in particolare essere rappresentata, come sostenuto dai ricorrenti, dalla peculiare natura dell’interesse leso (non interesse legittimo ma aspettativa di diritto in pendenza di condizione sospensiva in contratto cui è estranea la p.a.).

14.1. L’assunto poi secondo cui nella specie la colpa sarebbe in re ipsa, discendendo dal mero ritardo (quinto motivo), si risolve in mero assetto apodittico e, soprattutto, aspecifico, non confrontandosi con le ragioni della decisione, la quale al riguardo poggia a monte sul rilievo che non è neppure con certezza predicabile l’esistenza di un ritardo nello svolgimento del procedimento amministrativo de quo, nè comunque esso può con certezza imputarsi al comune, atteso che:

a) “non è rinvenibile un termine cogente per la sua definizione”;

b) “nell’iter amministrativo non ha preso parte solo Roma Capitale ma anche la Regione Lazio, con le conseguenti intuibili imputabilità a più soggetti dei vari segmenti che (lo) compongono”.

Gli argomenti in ricorso spesi in relazione a ciascuna di tali affermazioni sono rispettivamente, il primo (esposto nel sesto motivo), infondato, il secondo (esposto nel settimo), in parte generico e apodittico, in altra parte inconferente.

14.2. In ordine al primo punto i ricorrenti sostengono invero (v. ricorso, pag. 26, in fine) che il termine per lo svolgimento del procedimento amministrativo sarebbe nella specie rappresentato da quello fissato nel Protocollo d’intesa siglato il 29/7/1999 tra il comune e i soggetti interessati allo sfruttamento edilizio dell’area sopra indicata.

Tale assunto è però destituito di fondamento.

Il menzionato Protocollo d’intesa deve infatti ritenersi siglato nell’esercizio della facoltà concessa alle amministrazioni, dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 11, di “concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo”.

A norma del comma 3, secondo periodo, di tale disposizione, a tali accordi “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”.

Il contenuto dunque di tali accordi vincola l’amministrazione nei soli confronti delle parti che li hanno con essa siglati, ma non può fondare pretese o aspettative di sorta in capo a soggetti ad essi rimasti estranei, non potendo in particolare assurgere a parametro di legittimità dell’azione amministrativa da valere erga omnes, quanto in particolare a termini o modalità dell’azione amministrativa.

14.3. In merito poi al secondo rilievo i ricorrenti oppongono (settimo motivo) due censure: a) la Regione non ha avuto nè poteva avere alcun ruolo; b) quand’anche lo avesse avuto, ciò non varrebbe a escludere la piena responsabilità solidale del comune, ai sensi dell’art. 2055 c.c..

E’ agevole tuttavia rilevare che la prima censura si risolve – ben al di là dei paradigmi censori consentiti dai tipi di vizio previsti dall’art. 360 c.p.c. – in un mero asserto contrario rispetto all’accertamento di fatto contenuto in sentenza secondo cui, in buona sostanza, dalle conoscenze acquisite al processo non è consentito risalire ai motivi e ai soggetti cui il protrarsi dei tempi della definizione del procedimento amministrativo sia da imputare.

La seconda si appalesa poi inconferente dal momento che la sentenza impugnata, ricordando la partecipazione al procedimento anche di altro ente, non intende affatto desumerne una limitazione all’eventuale responsabilità solidale del comune, quanto piuttosto, a monte, evidenziare l’incertezza che (anche) da quel dato deriva circa l’attribuzione di alcuna responsabilità, anche soltanto concorrente, in capo all’amministrazione comunale.

15. In ragione delle considerazioni che precedono deve, in definitiva, pervenirsi al rigetto del ricorso, restando conseguentemente assorbito anche l’esame dei motivi posti a fondamento del ricorso incidentale condizionato.

Alla soccombenza segue la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore dell’amministrazione comunale controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali, che liquida in Euro 20.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2018

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