Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31552 del 06/12/2018

Cassazione civile sez. III, 06/12/2018, (ud. 25/10/2018, dep. 06/12/2018), n.31552

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29921-2015 proposto da:

MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è difeso per legge;

– ricorrente –

contro

L.M.;

– intimato –

avverso la sentenza del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il

23/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/10/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Fatto

RITENUTO

che:

1. Il Ministero della Giustizia ricorre, affidandosi a tre motivi, per la cassazione del decreto del Tribunale di Napoli con il quale – L. n. 354 del 1975, ex art. 35 ter era stata parzialmente accolta la domanda di L.M., proposta al fine di ottenere il risarcimento previsto per il trattamento degradante, disumano e contrario all’art. 3 della CEDU al quale era stato sottoposto durante due periodi di detenzione nella casa circondariale di (OMISSIS).

2. L’intimato non si è difeso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 354 del 1975, art. 35 ter.

Assume che la norma, in relazione al risarcimento riconosciuto per il secondo periodo di carcerazione, era stata violata perchè il L., al momento della richiesta, non aveva ancora finito di espiare la pena e si trovava in stato di detenzione domiciliare: ragione per cui avrebbe avuto diritto ad una riduzione del periodo di restrizione e non al risarcimento mediante la liquidazione di una somma di danaro.

1.1. Il motivo è infondato.

La L. n. 354 del 1975, art. 35 ter presuppone, infatti, per la riduzione della pena detentiva ancora da espiare la condizione di restrizione in carcere.

Al riguardo, la norma individua, in presenza di tale situazione, la competenza del magistrato di sorveglianza che:

a. “dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio”;

b. “quando il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1, liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a Euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio” provvedendo allo stesso modo nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sia stato inferiore ai quindici giorni (cfr. L. n. 354 del 1975, art. 35ter, commi 1 e 2).

In tutte le ipotesi in cui, invece, la condizione di restrizione in carcere è cessata – venendo pertanto meno il presupposto per la riduzione della durata di essa che è strettamente correlato alle specifiche condizioni inumane e degradanti accertate in loco – ricorre la L. n. 354 del 1975, art. 35ter, comma 3 che prevede che “coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere possono proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza. L’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli artt. 737 c.p.c. e ss..

Il decreto che definisce il procedimento non è soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno è liquidato nella misura prevista dal comma 2.”

1.2. Pertanto la norme sancisce che in tutte le situazioni in cui sia cessato lo stato di carcerazione, l’interessato possa proporre l’azione, in sede civile, volta ad ottenere la provvidenza economica prevista dalla legge sulla cui natura indennitaria si è diffuso il recente arresto portato da Cass. SSUU 11018/2018, la cui motivazione deve intendersi, in questa sede, complessivamente riportata.

1.3. Conseguentemente, la censura in esame non ha pregio sia per una ragione letterale, visto che la formulazione della norma è chiara ed inequivoca nel correlare la riduzione della pena soltanto allo stato di detenzione in carcere che deve essere, oltretutto, di durata “capiente” rispetto alla misura della eventuale decurtazione richiesta; sia per una ragione di natura processuale, in quanto, pacifico che l’azione regolata dal comma 3 preveda lo speciale rito camerale regolato dall’art. 737 c.p.c. e segg. e la competenza del giudice civile (cfr. ex multis Cass. pen. 3803/2013; Cass. pen. 4772/2013; Cass. pen 42901/2013; Cass. pen 29971/2013), deve ritenersi che il procedimento sia governato dal principio della domanda fondata sull’art. 112 c.p.c., domanda che era volta, legittimamente, ad ottenere il ristoro economico previsto dalla legge.

2. Con il secondo ed il terzo motivo – da esaminarsi congiuntamente per la stretta connessione logica – il Ministero ricorrente deduce:

a. ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della pronuncia, per violazione degli artt. 135 e 737 c.p.c.. Si duole del fatto che il Tribunale avrebbe reso una motivazione apparente sulla richiesta compensazione fra quanto domandato a titolo risarcitorio e le spese di mantenimento in carcere sostenute dall’amministrazione ed oggetto di recupero (secondo motivo);

b. ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1241 e 1243 c.c. in quanto il giudice non aveva considerato che il credito dell’amministrazione, portato in una cartella esattoriale Equitalia, regolarmente notificata, era provato per tabulas e, conseguentemente, doveva ritenersi certo, liquido ed esigibile (terzo motivo).

2.2. Entrambe le censure sono infondate: la terza costituisce antecedente logico della seconda.

Infatti, questa Corte ha avuto modo di chiarire che “nel giudizio introdotto ai sensi della L. n. 354 del 1975, art. 35-ter, comma 3, il Ministero della giustizia, convenuto dal detenuto per il risarcimento dei danni patiti a causa delle condizioni di detenzione, non può opporre in compensazione il credito maturato verso il medesimo detenuto per le spese di mantenimento fintanto che non si sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione del debito, posto che prima della definizione del procedimento previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 6 il controcredito della P.A. non è certo ed esigibile.” (cfr. Cass. 17227/2018).

3. Sul punto, è stato anche precisato che “l’art. 6 cit. testo unico sulle spese di giustizia prevede un’ipotesi di remissione del debito, che il detenuto può invocare se si trova in disagiate condizioni economiche e ha tenuto in istituto una regolare condotta: istanza, questa, che può essere proposta “fino a che non è conclusa la procedura per il recupero, che è sospesa se in corso”.

Fintanto che l’amministrazione non abbia agito per il recupero e non si sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione, dunque, neppure può dirsi che il credito concernente le spese di mantenimento sia effettivamente sussistente.” (cfr. Cass. 20528/2018, preceduta, in termini, da Cass. pen. 10 ottobre 2017, n. 13377).

Il credito dell’amministrazione, in definitiva, non può, nel giudizio introdotto ai sensi della L. n. 354 del 1975, dell’art. 35-ter, comma 3, essere opposto in compensazione per la sua intrinseca incertezza, salvo che essa sia divenuta insussistente per essersi consumata la menzionata facoltà di chiedere la remissione.

3. Tanto premesso, non ricorrendo, nel caso in esame, il presupposto testè richiamato in quanto non è stata neanche allegata la richiesta di remissione del debito e l’eventuale conclusione del relativo procedimento, deve ritenersi che il terzo motivo sia infondato in quanto il credito dell’amministrazione non poteva considerarsi certo, liquido ed esigibile al momento della proposizione del ricorso L. n. 354 del 1975, ex art. 35 ter, comma 3; e che, in ordine alla seconda censura, la motivazione del Tribunale, pur fondata su una statuizione sintetica ed assertiva (“non potendosi operare qui ed ora la compensazione”: cfr. pag. 1 quint’ultimo rigo del provvedimento impugnato) si ponga all’interno del limite di sufficienza costituzionale, avendo fatto una corretta applicazione dei principi sopra richiamati per i quali non erano necessarie ulteriori argomentazioni.

4. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

La mancata difesa dell’intimato, esime la Corte dalla statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

Non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, in ragione della qualità della parte ricorrente, amministrazione pubblica, istituzionalmente esonerata dal materiale versamento del contributo stesso mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass. 9938/2014).

P.Q.M.

La Corte,

rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2018

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