Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31532 del 03/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 03/12/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 03/12/2019), n.31532

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23454/2018 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARRIGO

DAVILA 43/20, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI FARAGASSO, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GENZIANA GIORGETTI;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SERVIZI MUNICIPALI RIETI S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA GENTILE DA FABRIANO 3, presso lo studio dell’avvocato SERENA

SAMMARCO, rappresentata e difesa dall’avvocato FEDERICO FIGRAVANTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2158/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 22/05/2018 R.G.N. 394/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/10/2019 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine per il rigetto;

uditi gli Avvocati GIOVANNI FARAGASSO e GENZIANA GIORGETTI;

udito l’Avvocato FEDERICO FIORAVANTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza pubblicata in data 2 maggio 2018, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto l’impugnazione della destituzione dal servizio per ragioni disciplinari proposta da C.E. nei confronti della Azienda Servizi Municipali Rieti Spa.

2. La Corte romana ha ritenuto provati gli addebiti contestati al dipendente, addetto a mansioni di conducente di autobus, per essersi appropriato in più occasioni di somme ricevute in contanti da utenti, con conseguente sottrazione alle casse aziendali, il tutto aggravato dalla contestata recidiva specifica infraannuale.

Ravvisata “la ricorrenza dell’elemento volitivo dell’autore con riguardo alle plurime condotte addebitate, anzi risultando esso di elevata intensità alla luce della reiterazione dei fatti posti in essere con analoghe e spregiudicate modalità”, e considerato anche il “danno patrimoniale e non patrimoniale causato all’Azienda”, la Corte ha ritenuto “la legittimità, anche con riguardo alla proporzione, della sanzione espulsiva”.

Quanto poi all’eccepita possibilità dell’Azienda di venire a conoscenza anteriormente dei fatti poi contestati, la Corte di Appello ha richiamato il principio della giurisprudenza di legittimità secondo cui il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini dell’immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall’avvenuta conoscenza del datore di lavoro e non dall’astratta percepibilità o conoscibilità dei fatti stessi.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il C. con 3 motivi, cui ha resistito con controricorso la società.

Il ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati.

1.1. Con il primo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione o falsa applicazione di norme di diritto – L. n. 604 del 1966, art. 5 – art. 2697 c.c. – art. 2727 c.c. – artt. 101,112,113 e 115 c.p.c. – art. 24 e 111 Cost. – CEDU, in particolare art. 6”, per avere la Corte territoriale “ritenuto che la parte datoriale abbia fornito la prova della sussistenza dei presupposti giustificativi del licenziamento comminato per giusta causa”.

1.2. Con il secondo mezzo si denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, oltre che delle norme del codice di rito, della Costituzione e della CEDU di cui al primo motivo, per avere la sentenza impugnata “ritenuto tempestive le contestazioni disciplinari al lavoratore, benchè avvenute in epoca risalente rispetto alle contestazioni stesse”.

1.3. Con il terzo motivo si lamenta “violazione o falsa applicazione delle norme di diritto – R.D. n. 148 del 1931, art. 37, nn. da 1 a 5, in relazione all’art. 2119 c.c.”, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto proporzionata la sanzione del licenziamento in relazione alla condotta ascritta al lavoratore.

2. Il primo motivo è inammissibile innanzitutto perchè contiene promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, oltre all’invocazione della Costituzione e della CEDU, senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dell’art. 360 c.p.c., comma 1, così non consentendo una adeguata identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016; tra le più recenti v. Cass. n. 3141 del 2019, Cass. n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019; Cass. n. 18560 del 2019).

Inoltre, nonostante la veste solo formale di una denuncia di pretesi errores in iudicando, nella sostanza parte ricorrente critica la sentenza impugnata per aver ritenuto provati gli addebiti contestati al C., il che attiene evidentemente all’accertamento di merito, devoluto ai giudici cui compete, risultando estraneo al giudizio di legittimità.

3. Parimenti non può trovare accoglimento il secondo motivo di ricorso che pure soffre nell’articolazione della censura la medesima promiscuità già evidenziata per il primo mezzo, non supportata da una adeguata illustrazione del come la vasta congerie di vizi denunciati sia decifrabile al punto da consentirne l’identificazione.

Inoltre l’accertamento della violazione del principio della tempestività della contestazione disciplinare spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr., ex plurimis, Cass. n. 1247 del 2015, Cass. n. 25070 del 2013, Cass. n. 29480 del 2008, Cass. n. 22066 del 2007, Cass. n. 14115 del 2006).

In particolare rileva l’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non l’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (Cass. n. 23739 del 2008; Cass. n. 21546 del 2007).

Parte ricorrente neanche si confronta adeguatamente con tale orientamento della giurisprudenza di legittimità, nonostante esso sia espressamente richiamato nella sentenza impugnata, così violando pure l’art. 360 bis c.p.c., n. 1.

4. Infine insuscettibile di accoglimento anche il terzo mezzo di impugnazione.

Questa Corte insegna che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta – come nella specie – da motivazione sufficiente e non contraddittoria (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003).

Orbene la Corte di Appello ha evidenziato, per sostanziare il giudizio di proporzionalità esplicitamente espresso, sia la reiterazione della condotta, sia l’elevata intensità dell’elemento volitivo, sia la spregiudicatezza delle modalità attuative, sia il danno patrimoniale e non patrimoniale inferto all’azienda.

Trattandosi di un apprezzamento che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di altri elementi ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare l’omesso esame di un fatto, ai fini del giudizio di proporzionalità, avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; invece l’istante si limita ad invocare che per 25 anni di servizi – non era incorso in alcuna sanzione disciplinare – oltre a ribadire, inconferentemente circa il motivo in esame, l’insufficienza della prova degli addebiti – ma detta illibatezza disciplinare, peraltro contrastata dall’accertata recidiva, non può ritenersi autonomamente decisiva nel senso sopra specificato, sicchè le doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione del merito, evidentemente non consentita in questa sede, perchè questa Corte può sindacare ma non sostituire il giudizio di fatto correttamente espresso dai giudici al cui dominio è istituzionalmente riservato.

5. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese liquidate secondo soccombenza come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 4.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2019

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