Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31523 del 03/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 03/12/2019, (ud. 03/10/2019, dep. 03/12/2019), n.31523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21033-2018 proposto da:

FILCTEM-CGIL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

F.P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIUNIO

BAZZONI 3, presso lo studio dell’avvocato ANDREA BINI, che li e

difende unitamente all’avvocato ERNESTO GILIANI;

– ricorrenti –

contro

GRUPPO CERAMICHE R. S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso

LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato ELISA ROSSINI, VITTORIO LUGLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 505/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 08/05/2018 R.G.N. 25/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/10/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati ERNESTO GILIANI e ANDREA BINI;

udito l’Avvocato VITTORIO LUGLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 505/2018 dell’8 maggio 2018, respingeva il reclamo proposto da F.P. e Filctem Cgil e così confermava la sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Modena che, respingendo l’opposizione del F., aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento che la società Gruppo Ceramiche R. p.a. aveva intimato al ricorrente in data 10 dicembre 2014 all’esito di una procedura di licenziamento collettivo avviata il 17 settembre 2014.

1.1. La Corte territoriale evidenziava che i punti sottoposti al suo esame erano i seguenti: insussistenza del presupposto giuridico del licenziamento collettivo, ossia la riduzione o trasformazione dell’attività (L. 223 del 1991, ART. 24); natura discriminatoria e/o ritorsiva del licenziamento; insussistenza della asserita chiusura del “Laboratorio Tecnologico Controllo Qualità”; insussistenza della asserita chiusura dell’area relativa al controllo della qualità delle materie prime dell’anzidetto Laboratorio; mancata comparazione della posizione del F. con quella del tutti gli altri dipendenti del gruppo e della società; violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (L. n. 223 del 1991, art. 5).

1.2. La Corte premetteva che il primo argomento era privo di fondamento, stante il limite del controllo giudiziale, circoscritto alla verifica dell’effettività e della ragionevolezza della riduzione del personale, restando estranea a tale controllo l’indagine sulle ragioni economiche che avevano portato l’azienda a disporre la riorganizzazione produttiva, da cui l’irrilevanza dei dati emergenti dai bilanci della società reclamata e delle società del gruppo, come pure dell’esito di precedenti procedure di riduzione del personale.

1.3. Quanto al dedotto carattere discriminatorio per ragioni di età o per ragioni sindacali ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 15 osservava la Corte di appello che si trattava di vizi solo apoditticamente enunciati e non supportati da elementi più specifici. Non risultavano neppure indicati i lavoratori più giovani e meno costosi che avrebbero sostituito il F. nell’attività da lui svolta. Era ininfluente l’attività sindacale svolta dal ricorrente, ma risalente agli anni 1990/1996, periodo oltremodo distante del tempo.

1.4. Quanto alle censure relative alla soppressione del Laboratorio Controllo Materie Prime, osservava che dalla accurata ricostruzione contenuta nella sentenza di primo grado, condivisa dalla Corte, detto Laboratorio – cui era addetto al F. – era dotato di una propria autonomia rispetto agli altri due laboratori esistenti presso la società, ossia il Laboratorio Tecnologico Produzione e il Laboratorio Ricerche e Sviluppo. Nella procedura di licenziamento collettivo era stata individuata proprio l’esigenza di chiudere il Laboratorio Materie Prime con il licenziamento dei quattro addetti, poichè la relativa attività era stata esternalizzata, mentre non aveva trovato riscontro in giudizio la tesi secondo cui il predetto laboratorio costituisse una frazione del più complesso Laboratorio Tecnologico Controllo Qualità. Anzi, gli stessi organigrammi aziendali avevano evidenziato l’esistenza di un Laboratorio Materie Prime, già Laboratorio Impasti, al servizio di tutti gli stabilimenti del gruppo.

1.5. Quanto alla scelta dei lavoratori da licenziare e alla mancata comparazione con gli altri dipendenti dell’intero complesso aziendale, la Corte di appello rilevava che la limitazione della platea ai soli addetti al laboratorio soppresso era spiegabile con oggettive esigenze aziendali: la non contestata situazione di crisi in cui la società versava aveva portato alla chiusura di una serie di stabilimenti al servizio dei quali operava tale laboratorio, dotato di autonomia funzionale e organizzativa. Come già ritenuto dal primo giudice, la posizione del F. non era fungibile con quella di altri lavoratori, posto che il reclamante sin dal 2006 aveva svolto la propria attività presso il laboratorio soppresso e dalla prova testimoniale era emerso che gli addetti ai laboratori avevano competenze diverse e non fungibili e dunque non erano interscambiabili tra loro. Quanto all’eventualità della sostituzione degli addetti ai laboratori, pure emersa dalle deposizioni testimoniali, non era possibile specificare tempi e modalità di tali sostituzioni.

2. Per la cassazione di tale sentenza FILTEM-CGIL e F.L. hanno proposto ricorso affidato a tredici motivi, cui ha resistito con controricorso la soc. Gruppo Ceramiche R. s.p.a..

3. Parte ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte di appello affermato l'”oggettiva complessità e particolarità della vicenda dedotta in causa, con altrettanto oggettiva opinabilità delle questioni trattate”.

Si assume che con tale affermazione la Corte aveva dimostrato che sulle questioni oggetto di causa avrebbe potuto decidere sia in un senso che nell’altro, esprimendo così una motivazione incomprensibile ovvero contraddittoria ovvero solo apparente ovvero perplessa, con conseguente nullità della sentenza stessa.

2. Il secondo motivo denuncia violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2, 3 e 9 e art. 24 (art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3) per il mancato controllo giudiziale sulla correttezza procedurale dell’operazione e sull’effettività della scelta imprenditoriale.

Si assume che dal contenuto della comunicazione del 17 settembre 2014 (trascritta da pag. 27 a pag. 30 del ricorso) era desumibile l’assenza di indicazioni circa un’analisi concreta e specifica della situazione economico-finanziaria del gruppo R. e che dai bilanci degli ultimi anni e dalla consulenza tecnica di parte era emerso un miglioramento nell’anno 2014, da cui l’insussistenza della asserita crisi.

3. Il terzo motivo denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15, lett. B) degli artt. 2727 e 2729 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. per mancato riconoscimento della natura discriminatoria del licenziamento per motivi sindacali.

Il ricorso da pag. 37 a pag. 57 analizza le vicende giudiziarie pregresse (un precedente licenziamento conclusosi con verbale di conciliazione e reintegrazione nel posto di lavoro, una domanda di accertamento del demansionamento seguita da un secondo verbale di conciliazione, un terzo procedimento giudiziale per demansionamento, la collocazione in CIGS senza rotazione) per sostenere che il comportamento tenuto dalla società nei confronti del F. era connotato da un intento discriminatorio intenso e di lunga durata, situazione idonea a configurare la prova logica fondata su presunzioni gravi, precise e concordanti della nullità del licenziamento.

4. Il quarto motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) consistito nel demansionamento per ragioni sindacali. Con tale motivo si reitera sub specie di vizio di omesso esame di un fatto decisivo il medesimo argomento di cui al terzo motivo.

5. Il quinto motivo censura la sentenza per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 15 e degli artt. 115 e 116 c.p.c. per non avere accertato il carattere discriminatorio per ragioni di età del licenziamento intimato.

Si ribadisce la tesi secondo cui licenziamento del ricorrente, unitamente a quello degli altri colleghi assegnati al medesimo reparto, era motivato dall’esigenza di sostituire lavoratori di una certa età e costosi con quattro giovani appena diplomati e di minor costo.

6. Il sesto motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), sempre vertente sul carattere discriminatorio del licenziamento per ragioni di età, per avere la sentenza omesso di considerare l’intenzione dell’azienda di raggiungere un risparmio di spesa eliminando le posizioni addette al laboratorio e occupate da lavoratori più onerosi per l’azienda.

7. Il settimo motivo denuncia (da pag. 67 a pag 90 del ricorso) omesso esame di un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) costituito dall’esistenza di un laboratorio, denominato “Laboratorio Tecnologico Controllo Qualità”, inteso come complesso di personale dotato di competenze specifiche e investito del compito di controllare la qualità delle materie prime, dei semilavorati e dei prodotti finiti.

Il ricorrente deduce di avere sempre sostenuto, fin dal ricorso introduttivo di primo grado, che detto laboratorio comprendeva il controllo di qualità di tutte le fasi processo produttivo e cioè comprendeva anche l’area relativa al controllo di qualità delle materie prime, quella relativa al controllo qualità di semilavorati e quella relativa al controllo di qualità del prodotto finito.

Il “Laboratorio Tecnologico Controllo Qualità” costituiva un unico laboratorio distinto in vari reparti, definiti come aree, tra le quali era compresa l’area Laboratorio Materie Prime, da cui la fungibilità degli addetti ai vari reparti.

8. Con l’ottavo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 in materia di appalto di manodopera, in quanto il Dott. G., professionista geologo al quale società R. aveva appaltato il “controllo delle materie prime”, prestava la propria opera nei locali aziendali e si avvaleva di un’organizzazione di mezzi non propria.

9. Con il nono motivo si denuncia violazione del D.Lgs. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24 per avere la sentenza violato i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza n. 5592 del 2016 per cui spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del lavoratore.

10. Il decimo motivo denuncia (da pag. 99 a pag. 111 del ricorso) violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4, comma 9 e 5 per avere la sentenza violato tali norme, laddove ha ritenuto corretta la determinazione aziendale di limitare il novero dei lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo ai soli addetti al reparto soppresso, anzichè estendere la comparazione tra tutti gli addetti all’intero complesso aziendale e per non avere spiegato come i criteri di scelta fossero stati applicati nella specie.

Si assume che la crisi riguardava l’intero complesso aziendale, per cui la riduzione del personale non poteva che riguardare tutti gli addetti, non escludendo alcun reparto o area.

11. Con l’undicesimo motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per avere affermato l’infungibilità delle prestazioni lavorative del F. sulla base di una motivazione apparente, ovvero contraddittoria ovvero incomprensibile ovvero perplessa, in quanto dall’intero complesso motivazionale della sentenza si comprende come il giudizio di infungibilità sia stato compiuto soltanto in sede giudiziale e non invece, come sarebbe stato necessario, all’atto di intimazione del licenziamento, cioè nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo.

12. Con il dodicesimo motivo si denuncia (dal pag. 114 a pag. 119 ricorso) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) costituito dall’avere il F., nel suo lungo percorso professionale, svolto tutta una serie di altre mansioni all’interno della R., “precisamente emerse in modo incontestabile dalla risultanze istruttorie”.

13. Con il tredicesimo motivo ci si duole (da pag. 119 a pag. 125 ricorso) della violazione o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5.

Si deduce che, in mancanza – come nella fattispecie in esame – di criteri concordati dalle parti sociali, opera l’art. 5 citato per cui la società avrebbe dovuto applicare i criteri di scelta ivi previsti, ossia carichi di famiglia, anzianità di servizio ed esigenze tecnico produttive e organizzative in concorso tra loro, mentre la decisione di sopprimere l’area “Laboratorio Materie Prime” non rispettava il concorso di tali criteri, in quanto basata unicamente sulle esigenze tecnico-produttive ed organizzative.

14. Il ricorso è infondato.

15. Il primo motivo è inammissibile. Invero, la sentenza non si è limitata ad esprimere l’assunto contestato. Ha invece esaminato compiutamente le censure svolte nell’atto di appello, dapprima identificandole precisamente e poi motivando la propria decisione in ordine a ciascuna di esse. Il motivo di ricorso ha sostanzialmente estrapolato un’espressione priva di valenza decisoria, da qualificare come mero obiter dictum.

16. Il secondo motivo è infondato.

16.1. Secondo costante giurisprudenza di questa Corte, in ipotesi di licenziamenti collettivi impugnati giudizialmente, il giudice, investito della valutazione di legittimità dei recessi, non può sindacare le scelte imprenditoriali nel dimensionare il livello occupazionale in riferimento alla programmata ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale, sicchè non vi è valutazione di merito sulla giustificatezza del recesso datoriale come nella fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La fattispecie del licenziamento collettivo presuppone, come requisito fattuale di legittimità – la cui oggettiva ricorrenza, ove contestata, può essere verificata dal giudice – la realizzazione di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, normalmente determinata, secondo una scelta di opportunità che rientra nella insindacabile valutazione del datore di lavoro, da una diminuzione della richiesta di beni o di servizi offerti sul mercato, da una situazione di crisi o da una modificazione dell’organizzazione produttiva, che comportino soppressione di uffici, reparti, lavorazioni, o anche soltanto contrazione della forza lavoro.

Al riguardo, l’accertamento del giudice, investito della valutazione della legittimità del licenziamento collettivo, riguarda la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19347 del 2007, n. 6385 del 2003).

16.2. Nel caso in esame, correttamente il Corte di appello si è limitata a riscontrare che la scelta imprenditoriale – le cui ragioni economiche restavano insindacabili – atteneva alla soppressione di un reparto, poi effettivamente avvenuta, e che il ricorrente era addetto al reparto soppresso. Ha altresì accertato (pag. 26-27 sent.) che nella comunicazione di avvio della procedura collettiva era stata evidenziata la necessità di procedere alla chiusura del Laboratorio Materie Prime “in correlazione con la non contestata situazione di crisi in cui detta società versava con la chiusura di una serie di stabilimenti al servizio dei quali operava il predetto Laboratorio Materie Prime” e che si era provveduto alla “effettiva attuazione di decisione di soppressione di detto Laboratorio, con contestuale esternalizzazione della attività con riferimento al contratto di appalto stipulato con la società Modena Centro Prove s.r.l.”.

Il giudice di appello non ha sindacato l’opportunità della scelta imprenditoriale, esulando tale verifica dall’ambito del controllo giudiziale. Ha invece compiuto l’accertamento che gli era demandato, ossia la verifica dell’effettività della scelta organizzativa, ossia la reale soppressione del Laboratorio Materie Prime, e il nesso causale tra tale scelta imprenditoriale e il licenziamento attuato nella specie. Non sussiste quindi il vizio denunciato.

17. I motivi dal terzo al sesto sono connessi tra loro. Essi sono inammissibili.

17.1. Premesso che l’effettiva soppressione del laboratorio con esternalizzazione del servizio costituisce l’esito di un accertamento di merito compiutamente svolto dal giudice di appello, va osservato che il terzo e il quinto motivo censurano la valutazione delle prove, omettendo di considerare che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità. La denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito è configurabile come un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017).

17.2. Il quarto e il sesto motivo che censurano la sentenza per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) investono la soluzione di merito che la Corte di appello ha espresso condividendo integralmente e ribadendo il giudizio del giudice di primo grado. In proposito, va osservato che opera la previsione di inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348-ter c.p.c., comma 5, che esclude che possa essere impugnata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 la sentenza di appello “che conferma la decisione di primo grado”. Tale disposizione si applica, agli effetti del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv. in L. n. 134 del 2012, ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione successivamente all’11 settembre 2012. Nel caso in esame, il ricorso in appello venne proposto nel 2018 per cui la disposizione trova applicazione. Tali motivi sono dunque inammissibili.

17.3. Va poi osservato che il ricorso si incentra anche su presunte ragioni di ritorsività a fronte della diverse iniziative giudiziarie intraprese dal ricorrente, prevalentemente vertenti su periodi di lamentato demansionamento.

In proposito, ferma restando l’inammissibilità di cui si è detto in precedenza, va pure aggiunto che il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo (tra le tante, v. da ultimo, Cass. n. 9468 del 2019). Dunque, ove il licenziamento sia da ritenere legittimo perchè conforme al modello legale (nella specie, il modello dettato dalla L. n. 223 del 1991), deve escludersi la ritorsività, la quale deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso.

18. I motivi dal settimo al dodicesimo vertono su censure tra loro connesse. Essi possono essere trattati congiuntamente, salve le specificità di ciascuno di essi di seguito esposte.

18.1. Preliminarmente, quanto al settimo motivo, vertente su omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), va ribadito che si verte in ipotesi di c.d. “doppia conforme”, per cui opera la previsione di inammissibilità del ricorso per cassazione, di cui all’art. 348-ter c.p.c., comma 5. La sentenza impugnata ha argomentato, con accertamento di merito, l’autonomia del laboratorio cui era addetto il ricorrente, come pure la non fungibilità delle posizioni degli addetti alle varie aree. Tale giudizio di merito non è più sindacabile in questa sede ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

18.2. Quanto all’ottavo motivo, avente una sua peculiarità, deve rilevarsi che si denuncia una violazione di legge rispetto alla quale resta estranea la posizione dell’attuale ricorrente, privo di legittimazione a far valere l’ipotizzato appalto illecito, che solo l’interessato, ossia il Dott. G., avrebbe potuto denunciare nei confronti dell’ipotetico fittizio committente.

18.3. Il nono motivo richiama una giurisprudenza non pertinente, in quanto riguardante la (diversa) ipotesi del licenziamento individuale e non direttamente applicabile all’ipotesi di licenziamento collettivo.

18.4. Tanto premesso, va osservato che, nel licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una singola unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la comparazione, al fine di individuare i lavoratori da avviare alla mobilità, può essere limitata – ove sia giustificata dalle ragioni tecnico-produttive che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale agli addetti delle singole unità produttive interessate alla ristrutturazione, dovendosi intendere come tali ogni articolazione dell’azienda che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa ove si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliari o strumentali. (Cass. n. 13705 del 2012).

Tuttavia il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. 203 del 2015; conf. Cass. n. 19105 del 2017). Il criterio delle esigenze tecnico-produttive può essere utilizzato per la creazione di graduatorie anche trasversali tra i vari settori ove ricorrano professionalità fungibili (cfr. Cass. n. 23041 del 2018).

18.5. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi, poichè ha positivamente accertato, alla stregua delle risultanze di causa: a) che il progetto di ristrutturazione aziendale si riferiva in modo esclusivo ad uno specifico settore dell’azienda, interessato dalla soppressione per essere il servizio stato esternalizzato con riduzione dei costi dell’impresa; b) l’articolazione dell’azienda interessata dalla procedura si caratterizzava per autonomia operativa ed esauriva un particolare ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell’attività; c) la determinazione del datore di lavoro di limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità era giustificata dal carattere non fungibile rispetto alle posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, ossia dall’esclusione di professionalità equivalenti; d) erano stati licenziati tutti i lavoratori addetti a tale settore, per cui non vi era alcuna necessità di comparazione tra gli stessi.

18.6. Il motivo che denuncia error in iudicando (motivo 10) presenta profili di connessione con quello (motivo 12) che lamenta omesso esame di un fatto decisivo concernente la mancata considerazione delle risultanze istruttorie in ordine al carattere fungibile della professionalità posseduta dal F.. Il complesso argomentativo tende a sostenere una prospettazione in fatto diversa da quella ricostruita dal giudice di merito. Pur denunciando un’erronea ricognizione della fattispecie legale, in realtà il ricorrente allude ad una erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta previa ricostruzione dei fatti secondo un diverso apprezzamento di merito.

Come più volte affermato da questa Corte (cfr. tra le tante, Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016), è inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.

18.7. L’undicesimo motivo risulta scarsamente comprensibile, poichè non chiarisce per quale motivo la sentenza impugnata, logicamente argomentata e coerente, sarebbe nulla perchè apparente o contraddittoria. Deve comunque considerarsi che l’accertamento della legittimità del licenziamento non può che essere compiuto in sede giudiziale.

18.8. Quanto al dicesimo motivo, l’esigenza della operatività dei criteri di scelta di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5 in concorso tra loro, si sarebbe posta solo ove il numero dei lavoratori in esubero fosse stato inferiore a quello degli occupati rientranti nel novero della selezione, ma nella specie – una volta delimitato (per le ragioni già dette) l’alveo della selezione ai soli addetti all’unità “Laboratorio Materie Prime” – non si poneva alcuna esigenza di comparazione, essendo stati licenziati tutti e quattro gli addetti a tale settore.

19. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

20. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma1-bis.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2019

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