Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31467 del 03/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 03/12/2019, (ud. 14/05/2019, dep. 03/12/2019), n.31467

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25866-2012 proposto da:

D.B.P. & R.L. SNC, D.B.P.,

R.L., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE PARIOLI 43,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO D’AYALA VALVA, che li

rappresenta e difende unitamente agli avvocati MICHELE TIENGO,

UMBERTO SANTI, MARCELLO POGGIOLI giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI VERONA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 59/2012 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

VERONA, depositata il 22/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/05/2019 dal Consigliere Dott. CORRADINI GRAZIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO FEDERICO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per i ricorrenti l’Avvocato PASSARETTI per delega dell’Avvocato

POGGIOLI che si riporta agli atti;

udito per il controricorrente l’Avvocato PALASCIANO che si riporta

agli atti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 59/15/2012 del 12 marzo 2012 la Commissione Tributaria Regionale del Veneto, Sezione distaccata di Verona, rigettava l’appello proposto dalla Società in nome collettivo D.B.P. & R.L., esercente attività edilizia, e dai soci R.L. e D.B.P. contro la sentenza n. 163/4/2011 della Commissione Tributaria Provinciale di Verona che aveva respinto il ricorso presentato dagli stessi soggetti contro gli avvisi di accertamento parziale D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 41 bis, per l’anno di imposta 2005, relativi ad IRAP e IVA nei confronti della società di persone e ad IRPEF nei confronti dei soci, con cui, a seguito di annullamento in autotutela per errore di calcolo di altro precedente accertamento, erano stati determinati in aumento componenti positivi di reddito per Euro 373.000,00, derivanti dalla differenza fra le maggiori somme indicate nei preliminari di vendita a terzi di immobili della s.n.c. rispetto a quelle inferiori indicate nei contratti pubblici definitivi e dichiarate dalla contribuente come ricavi, a fronte di maggiori redditi per Euro 157.060,00 accertati nell’avviso autoannullato.

Con l’atto di appello la società ed i soci avevano dedotto, con sei motivi: che l’errore di calcolo commesso dalla Agenzia delle Entrate nel primo accertamento non poteva giustificare l’annullamento in autotutela e la adozione di un accertamento “sostitutivo” del primo sulla base degli stessi elementi già in possesso dell’Ufficio, poichè il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, non consentiva di correggere errori materiali o interpretativi degli elementi oggetto di un determinato provvedimento; che la mancata allegazione all’accertamento dei contratti di mutuo richiamati nell’atto impositivo ed afferenti a terzi soggetti, i quali non erano in possesso dei ricorrenti, si poneva in violazione dello statuto dei diritti del contribuente, art. 7; che l’ufficio impositore, a seguito di ispezione documentale, sia pure “in ufficio”, di indagini bancarie e di acquisizione di ulteriore documentazione presso terzi, avrebbe dovuto emettere un processo verbale di constatazione; che il primo giudice non aveva preso in esame il motivo di ricorso riguardante la mancata documentazione della autorizzazione alla Agenzia delle Entrate ai fini di potere effettuare indagini nei confronti dei compratori – mutuanti; che era illegittima la adozione di un accertamento parziale ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis, in assenza di elementi che consentissero di stabilire l’esistenza palese di reddito non dichiarato o parzialmente dichiarato; che mancava la motivazione in ordine all’applicazione delle sanzioni.

La Commissione Tributaria Regionale rigettava tutti i motivi di appello, rilevando: correttamente il primo giudice aveva ritenuto che l’ufficio finanziario potesse annullare l’atto ritenuto manchevole, in forza della imperatività che ne connotava l’agire, per vizi di qualsiasi tipo, di forma o di sostanza, anche nell’interesse delle ragioni dell’Ufficio, come ritenuto con pronuncia, che meritava di essere condivisa e seguita, da Cass. n. 4272 del 23.2.2010; l’accertamento era fondato nel suo nucleo argomentativo e probatorio sulla manifesta incongruenza tra i corrispettivi indicati nei contratti preliminari acquisiti dalla Agenzia e quelli, inferiori, dichiarati dal contribuente, indicati nei contratti di vendita per atto pubblico; gli ulteriori elementi indiziari, costituiti dall’importo dei mutui – talvolta essi pure incongruenti rispetto ai corrispettivi indicati negli atti pubblici – non potevano essere considerati indispensabili ai fini della coerenza dell’accertamento, sicchè la loro eventuale, insufficiente trasposizione nell’atto impositivo non poteva determinarne l’annullamento dello stesso; lo statuto dei diritti del contribuente non prevede la stesura di un p.v.c. nè l’obbligatoria partecipazione del contribuente all’attività istruttoria nel caso, quale quello di specie, in cui la verifica fiscale è condotta su documenti richiesti dall’ufficio e spontaneamente esibiti dal contribuente e su successive indagini bancarie; l’appellante non poteva dolersi della eventuale violazione delle norme sulla privacy poste a tutela dei terzi acquirenti e, comunque, l’Amministrazione, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 1, art. 39, comma 2 e art. 41, aveva facoltà di porre a fondamento dell’accertamento qualsiasi atto in suo possesso, indipendentemente dalle modalità con cui lo avesse acquisito, in assenza di lesione di specifici diritti del soggetto che ne era attinto; l’accertamento “parziale” era consentito in presenza di una “verifica”, quand’anche effettuata dall’Ufficio a mezzo di documenti esibiti spontaneamente dalla parte e/o acquisiti presso terzi, attraverso i quali era emersa la esistenza di un reddito non dichiarato o parzialmente dichiarato; la censura relativa alla mancanza di motivazione del provvedimento di irrogazione della sanzione era priva di specificità poichè la parte appellante aveva semplicemente sostenuto che “solo parte della disciplina del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, era stata rispettata dall’Ufficio”, senza però specificare quale parte, invece, non sarebbe stata rispettata.

Contro la sentenza di appello, depositata in data 22 marzo 2012, non notificata, propongono ricorso per cassazione la società ed i soci, con atto spedito il 7 novembre e ricevuto il 12 novembre 2012, affidato ad undici motivi e successive memorie.

Resiste la Agenzia delle Entrate con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 primi tre motivi di ricorso investono il capo della sentenza che ha respinto il motivo di appello con cui era stata contestata la legittimità dell’accertamento “sostitutivo” di quello annullato in autotutela.

1.1.Con il primo motivo i ricorrenti lamentano contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere il giudice di appello fondato la sua decisione sulla sentenza della Corte di cassazione, sez. 5, n. 4272 del 2010, ritenendo che qualsiasi provvedimento “manchevole” per qualsiasi ragione, sia formale che sostanziale, possa essere annullato unilateralmente dall’Ufficio, benchè la Corte abbia fatto riferimento, in quella ed in altre pronunce, ai soli provvedimenti “illegittimi”, che possono essere sostituiti in via di autotutela dall’Amministrazione al fine di evitare che l’errore che li inficia ne possa determinare l’annullamento in sede giurisdizionale;

1.2. Con il secondo motivo si dolgono di omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, per non avere la sentenza impugnata indicato quali vizi, che non esistevano, avrebbero caratterizzato in concreto l’atto annullato in autotutela.

1.3. Con il terzo motivo deducono violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 40 e 43, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3: ribadiscono che sia l’autotutela negativa che quella positiva presuppongono un atto illegittimo, passibile di declaratoria di annullamento giudiziale; lamentano che la CTR non abbia considerato che, nella specie, il primo avviso emesso dall’Agenzia non sarebbe mai stato annullato ed abbia poi violato i principi di unicità e di non modificabilità in aumento dell’avviso di accertamento se non in forza di nuovi elementi conoscitivi.

1.4. I primi due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente attenendo alla motivazione della sentenza impugnata, sono inammissibili.

In tema di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, non essendo nel caso in esame applicabile la successiva riforma di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, posto che, a norma dello stesso D.L., art. 54, le disposizioni di cui al presente numero si applicano alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. di conversione 7 agosto 2012, n. 134, mentre nella specie la sentenza di appello è stata pubblicata in data 22 marzo 2012 – il vizio relativo all’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve essere riferito ad un “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 24035 del 03/10/2018 Rv. 650798 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 21152 del 08/10/2014 Rv. 632989 – 01). E’ stato poi precisato anche che si deve intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016 Rv. 641174 – 01); per cui la parte ricorrente non coglie nel segno laddove fa riferimento alla contraddittorietà della motivazione in relazione alla qualificazione dei vizi dell’accertamento ovvero alla mancata indicazione dei vizi dell’atto amministrativo annullato, in assenza della indicazione di un “fatto” in senso storico-naturalistico.

Peraltro la pretesa contraddittorietà della motivazione non sussiste, poichè la CTR ha usato nella seconda parte della sentenza il termine “manchevolezza” come sinonimo di “vizio” (“indipendentemente dal fatto che la manchevolezza consista in un vizio di forma o di sostanza dell’atto oggetto di autotutela”), mentre nella prima parte ha affermato che l’Amministrazione ha il potere di annullare e sostituire un precedente atto impositivo “illegittimo” con innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali, con ciò rendendo evidente che la motivazione era fondata sul rilievo di un vizio di legittimità dell’atto. E non è vero neppure che la CTR non abbia indicato il vizio del primo accertamento che ne aveva determinato l’autoannullamento, poichè a pagina 3 della sentenza è precisato che “l’ autotutela era stata determinata dall’errore di calcolo” commesso dalla Agenzia delle Entrate nella emissione del primo provvedimento, errore che era stato riconosciuto anche dalla parte contribuente la quale aveva però sostenuto che un tale tipo di errore non potesse giustificare il ricorso all’autotutela.

1.5. Il terzo motivo di ricorso è infondato.

I ricorrenti invocano a suo sostegno principi che non trovano riscontro nell’ordinamento e neppure nella giurisprudenza di legittimità.

1.6. Si richiama, in proposito, in primo luogo, la sentenza n. 6398/2014, con la quale questa Corte, relativamente alla tipologia dei provvedimenti adottabili dall’Amministrazione, ha statuito che “non può preliminarmente convenirsi con la parte ricorrente laddove esclude la possibilità che l’amministrazione finanziaria sia dotata del potere di adottare in autotutela provvedimenti di annullamento di precedenti atti incidenti in malam partem sulla sfera del contribuente. Invero, proprio il D.L. n. 564 del 1994, art. 2 quater, comma 1, conv. nella L. n. 546 del 1994, legittima tale possibilità riferendosi semplicemente all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca degli atti illegittimi o infondati, senza dunque operare alcuna distinzione fra atti in bonam partem o in malam partem ai fini del riconoscimento del potere di annullamento e revoca. D’altra parte (…) il D.M. attuativo n. 37 del 1997 – art. 1 – emesso in seguito alla normativa da ultimo ricordata contiene un’elencazione non esaustiva delle ipotesi in cui può procedersi alle ipotesi di annullamento in autotutela (…). Deve quindi riconoscersi all’amministrazione fiscale il potere di adottare atti modificativi di precedenti statuizioni favorevoli al contribuente, proprio perchè il potere di autotutela in ambito fiscale va riguardato in un’ottica protesa a salvaguardare il soddisfacimento dell’interesse pubblico a reperire le entrate fiscali legalmente accertate (…)”.

L’orientamento consolidato di questa Corte, specie nelle pronunce più recenti che hanno delineato l’esatto inquadramento della autotutela sostitutiva in ambito tributario, è quindi nel senso che tale istituto ha come autonomo presupposto temporale, da un lato, la mancata formazione del giudicato sull’accertamento emesso dall’amministrazione e, da un altro, la mancata scadenza del termine decadenziale fissato per l’esercizio del potere di accertamento tributario dalle singole leggi d’imposta, cosicchè l’esercizio dell’autotutela può aver luogo soltanto entro il termine previsto per il compimento dell’atto, non può tradursi nell’elusione o nella violazione del giudicato eventualmente formatosi sull’atto viziato e dev’essere preceduto dall’annullamento di quest’ultimo, a tutela del diritto di difesa del contribuente ed in ossequio al divieto di doppia imposizione in dipendenza dello stesso presupposto (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 6329 del 13/03/2013 Rv. 625587 – 01; v. ancora Cass. Sez. 6 – 5).

1.7. E’ stato poi precisato (v., per tutte, ord. n. 25023 del 06/12/2016 Rv. 642029 – 01) che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nella parte in cui consente modificazioni dell’avviso di accertamento soltanto in caso di sopravvenienza di nuovi elementi di conoscenza da parte dell’ufficio, non opera con riguardo ad un avviso annullato in sede di autotutela, alla cui rinnovazione l’Amministrazione è legittimata in virtù del potere, che le compete, di correggere gli errori dei propri provvedimenti nei termini di legge, salvo che l’atto rinnovato non costituisca elusione o violazione dell’eventuale giudicato formatosi sull’atto nullo. Il che significa che, nel caso in esame, non essendosi certamente formato alcun giudicato sul “primo” accertamento ed essendo stato emesso anche l’accertamento sostitutivo nei termini decadenziali (come risulta pacifico in causa; v. anche pag. 9 del ricorso), l’Ufficio non era vincolato dalla necessità di utilizzazione di nuovi elementi (previsti invece per l’accertamento integrativo, ma non anche per la autotutela sostitutiva); nè il suo potere-dovere di eliminare l’atto per vizi anche sostanziali trovava alcun limite in un preteso principio di unicità dell’accertamento, che peraltro non aveva ragione di essere invocato una volta che il “primo” accertamento era stato eliminato dall’ordinamento giuridico attraverso il suo autoannullamento (v. ancora Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 7033 del 21/03/2018 Rv. 647491 – 01 e Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 24496 del 05/10/2018 Rv. 650800 – 01).

1.8. In materia tributaria il potere della PA di provvedere in via di autotutela all’annullamento di ufficio od alla revoca, anche in pendenza di giudizio o di non impugnabilità, degli atti illegittimi od infondati è espressamente riconosciuto dal D.L. 30 settembre 1994, n. 564, art. 2 quater, comma 1, conv. in L. 30 novembre 1994, n. 656 (nell’ambito di tale potere va ricompreso anche il potere di rinuncia alla imposizione illegittima od infondata in caso di autoaccertamento: D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, art. 1 recante il regolamento di attuazione del predetto D.L.). In tale ambito, il rimedio di tipo demolitorio ricollegabile al provvedimento amministrativo di secondo grado, che opera con efficacia “ex tunc”, si estende a qualsiasi vizio di legittimità (annullamento) o di merito (revoca) dell’atto impositivo, con il solo limite del giudicato sostanziale favorevole alla Amministrazione (D.M. n. 37 del 1997, art. 2, comma 2) e, secondo la giurisprudenza di questa Corte, va esteso, in materia tributaria, anche alle ipotesi di interventi di tipo “sostitutivo” laddove, in particolare, viene esplicitamente distinto l’esercizio del potere di rinnovo da quello di integrazione dell’atto impositivo (quest’ultimo soggetto in materia di imposte reddituali e di imposte sui consumi alla condizione necessaria della “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi” D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, u.c.; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3).

E’ stato al riguardo evidenziato che “il potere di accertamento integrativo, o modificativo in aumento, è… diverso sia strutturalmente sia funzionalmente dal potere di autotutela” – e chiarito che “l’atto amministrativo tributario di autotutela” (cioè l’atto che “assume ad oggetto un precedente avviso di accertamento… illegittimo…al quale si sostituisce”) può contenere “innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell’atto, costituiti dai destinatari, dall’oggetto e dal contenuto e, solo conseguentemente, da quelle dichiarazioni argomentatine che, connettendo oggetto e contenuto, formano la motivazione del provvedimento”: “l’esercizio del potere di autotutela”, infatti, “può condurre alla mera eliminazione dal mondo giuridico del precedente atto o alla sua eliminazione e alla sua contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato” (Cass. 22 febbraio 2002 n. 2531). In particolare è stato ricondotto al potere di autotutela anche il provvedimento c.d. di riforma dell’atto, specificandosi che “Il ritiro di un precedente atto, può avvenire in due diverse forme, quella del “controatto” (l’atto di secondo grado che assume l’identica struttura di quello precedente, salvo che per il suo dispositivo di segno contrario con cui si dispone l’annullamento, la revoca o l’abrogazione del primo) o quella della riforma (l’atto di secondo grado che non nega il contenuto di quello precedente, ma lo sostituisce con un contenuto diverso), caratterizzati entrambi dal fatto che l’oggetto del rapporto giuridico controverso resta identico” (cfr. Cass. 5 sez. 16.1.2009 n. 937, in materia di Iva).

1.9. In proposito, con specifico riferimento al potere di riforma dell’atto impositivo, l’attuale approdo del diritto vivente, cui si ritiene di dare continuità in questa sede è nel senso che: a) l’esercizio del potere di autotutela non implica consumazione del potere impositivo, sicchè, rimosso con effetto ex tunc l’atto di accertamento illegittimo od infondato, l’Amministrazione finanziaria conserva ed anzi è tenuta ad esercitare – nella permanenza dei presupposti di fatto e di diritto – la potestà impositiva (cfr. Cass. 5 sez. 20.7.2007n. 16115, id. 20.6.2007 n. 14377, entrambe in materia di imposte reddituali; Cass.5 sez. 8.07.2015 n. 14219); b) dalla non consumazione del potere impositivo, in caso di annullamento o revoca dell’atto viziato, discende il corollario che il provvedimento di riforma adottato in sede di autotutela, non dispone per l’avvenire ma retroagisce al momento della applicazione imposta, proprio in quanto viene a sostituirsi all’originario atto impositivo (cfr. Corte Cass. 5 sez. 21.1.2008 n. 1148; id. 30.12.2009 n. 279); c) il rimedio della “autotutela sostitutiva” differisce dal potere di integrazione dell’atto impositivo in quanto quest’ultimo presuppone la esistenza di un precedente valido atto di imposizione, mentre il primo richiede quale condizione necessaria la eliminazione (anche implicita nel caso in cui l’atto riformato riproduca lo stesso contenuto dell’atto sostituito: Corte Cass. 5 sez. 3.8.2007n. 17119) del precedente atto impositivo illegittimo od infondato; d) la riforma dell’atto impositivo non è limitata ai soli vizi formali, ma può estendersi a “tutti gli elementi strutturali dell’atto, costituiti dai destinatari, dall’oggetto e dal contenuto” (Cass. 5 sez. 23.2.2010 n. 4272 – in materia di imposte reddituali – che riconduce la condizione necessaria della nullità formale alla sola ipotesi di “sostituzione di un precedente atto impositivo con altro avente contenuto identico” e quindi alle sole ipotesi di “correzione” del medesimo atto); e) il potere di sostituzione dell’atto impositivo incontra i soli limiti del termine decadenziale previsto per la notifica degli avvisi di accertamento e del divieto di violazione od elusione del giudicato sostanziale formatosi sull’atto viziato (cfr. Corte Cass. 5 sez. 16.7.2003 n. 11114; Corte Cass. 5 sez. 20.11.2006n. 24620; Cass. 5 sez. 8.07.2015 n. 14219; Cass., sez. 6-5, 17.06.2016 n. 12661), nonchè del diritto di difesa del contribuente (Cass. 5 sez. 26.3.2010 n. 7335; Cass. 5 sez. 8.07.2015 n. 14219; Cass., sez. 6-5, 17.06.2016 n. 12661).

1.10. In definitiva, deve riconoscersi all’amministrazione delle finanze il potere di adottare in via di autotutela sostitutiva atti modificativi di precedenti statuizioni favorevoli al contribuente risultate erronee, anche in caso di assenza di elementi sopravvenuti, in quanto, in ambito fiscale, tale potere va riguardato in un’ottica protesa a salvaguardare il soddisfacimento dell’interesse pubblico a reperire le entrate tributarie legalmente accertate.

2. Con il quarto motivo, che lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti contestano l’assunto del giudice d’appello secondo cui l’omessa allegazione all’avviso dei contratti di mutuo in esso richiamati non avrebbe determinato la nullità dell’atto, dovendosi a tal fine distinguere fra atti necessari ed atti non necessari all’accertamento.

2.1. Anche questo motivo è infondato.

Al contrario di quanto sostenuto dai ricorrenti, l’obbligo di allegazione all’atto impositivo, o di riproduzione al suo interno, di ogni altro atto dal primo richiamato, previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 (cosiddetto Statuto del contribuente), avendo la funzione di rendere comprensibili le ragioni della decisione, riguarda i soli atti necessari per sostenere quelle ragioni, intese in senso ampio e, quindi, non limitate a quelle puramente giuridiche ma comprensive anche dei presupposti di fatto (v. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 13105 del 25/07/2012 Rv. 623846 -01; Sez. 5, Sentenza n. 25371 del 17/10/2008 Rv. 605430 – 01); il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare la motivazione dell’avviso, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perchè ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”). Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26683 del 18/12/2009 Rv. 610991 – 01; conformi Sez. 5, Sentenza n. 22118 del 29/10/2010 Rv. 615660 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 7654 del 16/05/2012 Rv. 622440 – 01).

2.2. Il giudice d’appello si è dunque attenuto a tali principi, laddove, con motivazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto che, poichè l’avviso si fondava sulle divergenze fra i corrispettivi indicati nei contratti preliminari e quelli, ben minori, indicati nei successivi atti pubblici di vendita (corrispondenti a quelli dichiarati dalla società contribuente), fossero irrilevanti, ai fini della comprensione e della coerenza dell’accertamento, i contratti di mutuo stipulati dai terzi acquirenti, ancorchè anch’essi talvolta indicativi dell’incongruenza dei prezzi indicati nei contratti definitivi..

3. Il quinto ed il sesto motivo di ricorso lamentano il rigetto delle censure con le quali, in sede d’appello, era stata contestata la legittimità della procedura seguita dalla Agenzia delle Entrate in occasione della verifica da cui era scaturito l’accertamento impugnato.

3.1. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono violazione della L. n. 4 del 1929, art. 24 e della L. n. 212 del 2000, art. 12, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere l’atto impugnato pregiudicato le loro fondamentali garanzie di diritto di difesa in conseguenza della mancata redazione del processo verbale di constatazione; rilevano che le disposizioni invocate stabiliscono, rispettivamente, che le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale, senza distinguere fra controlli interni ed esterni o tra accessi e questionari e che in tutti i casi di verifica, anche quella effettuata presso l’ufficio dei verificatori ed in base ad atti già in possesso dell’Ufficio, si debba redigere il processo verbale di constatazione; richiamano inoltre, a sostegno della censura, la sentenza Sopropè della Corte di Giustizia del 18 dicembre 2008 – C – 349/07, secondo cui il destinatario di una decisione lesiva deve essere messo in condizioni di far valere le proprie osservazioni prima che la decisione sia adottata, nonchè la giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che l’avviso di accertamento, salvo i casi di particolare e motivata urgenza, non può essere emesso prima della scadenza del termine di 60 giorni dal rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni, durante il quale il contribuente può comunicare le proprie osservazioni e richieste.

3.2. Con il sesto motivo lamentano omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere il giudice di appello ritenuto che il p.v.c. non sia atto imprescindibile della verifica fiscale allorchè essa è condotta interna corporis, ovvero sulla base di atti in possesso dell’Ufficio o concessi bonariamente dal contribuente.

3.3. Il quinto motivo è infondato.

Il richiamo alla L. n. 4 del 1929, art. 24, ed alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, sono errati, posto che il primo si riferisce alla repressione delle violazioni delle leggi finanziarie ed al processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori, in occasione di verifiche presso il contribuente, ed il secondo ai casi in cui in cui vi siano stati “accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali” e prevede solo in tali casi un processo verbale delle operazioni di verifica (comma 4), mentre nel caso in esame è del tutto pacifico che l’accertamento de quo non è stato preceduto da alcun accesso, fosse pure istantaneo, presso la sede della società, bensì da un invito notificatole ai sensi e per gli effetti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 1, n. 2.

3.4. La tesi dei ricorrenti per cui il processo verbale di constatazione sarebbe previsto in tutti i casi di controllo interno o esterno, comunque denominato ed anche nel caso di richiesta al contribuente di presentare documenti alla Amministrazione Finanziaria non trova supporto neppure nella giurisprudenza di questa Corte, essendo al contrario ampiamente consolidato il principio secondo cui, in tema di accertamento tributario, la redazione del verbale di verifica e di quello conclusivo delle operazioni è richiesta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 6 (applicabile non solo in materia di IVA ma anche di imposte dirette, in virtù del richiamo operato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 1) esclusivamente nelle ipotesi di accesso finalizzato all’acquisizione di documentazione, e non anche in quello di accertamenti documentali cd. “a tavolino”, espletati autonomamente dall’Amministrazione finanziaria nei propri uffici (v. Cass. Sez. 5-Sentenza n. 8246 del 04/04/2018 Rv. 647681 – 01; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18103 del 10/07/2018 Rv. 649803 – 01).

3.5. Anche il richiamo alla sentenza Sopropè della Corte di Giustizia, sotto il profilo che i principi affermati da detta sentenza – con riguardo alla necessità che il destinatario di una decisione lesiva sia messo in condizione di fare valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata – sarebbero stati di recente recepiti da questa Corte con riferimento agli accertamenti presuntivi, è inconferente, considerato che detta sentenza (emessa in materia di dazi doganali) riguarda situazioni in cui una normativa nazionale rientra nella sfera di applicazione del diritto comunitario e che, comunque, è principio consolidato (ribadito anche di recente da questa Corte con la sentenza Sez. 5 -, n. 701 del 15/01/2019 Rv. 652456 – 01) quello per cui per i tributi armonizzati, ove la normativa interna non preveda l’obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa (ad es., nel caso di accertamenti cd. a tavolino, che interessano nel caso in esame), deve essere effettuata la c.d. “prova di resistenza”.

3.6 Il sesto motivo è invece inammissibile, non potendosi configurare un vizio di motivazione rispetto ad una questione di puro diritto, che può essere decisa dal giudice mediante la mera enunciazione della norma o dei principi ad essa applicabili.

4. Con il settimo e l’ottavo motivo, prospettati sotto i distinti profili del vizio di motivazione e della violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto ininfluenti ai fini della legittimità dell’avviso le modalità di svolgimento delle indagini bancarie; lamentano, sotto il primo aspetto, che la CTR – travisando il tenore del relativo motivo d’appello – non abbia dato risposta all’eccezione di inutilizzabilità nei confronti del soggetto accertato della documentazione bancaria riguardante soggetti terzi non sottoposti ad accertamento; ribadiscono, sotto il secondo, che l’Ufficio non può fondare l’accertamento su documenti (nella specie, i contratti di mutuo stipulati dagli acquirenti degli immobili) di cui sia venuta in possesso attraverso un’indagine condotta presso enti che intrattengono rapporti con i clienti del contribuente.

4.1. I motivi vanno dichiarati inammissibili.

Premesso che il settimo motivo prospetta sotto l’errata rubrica del vizio di motivazione un vizio di omessa pronuncia, che integra un error in procedendo denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, va in primo luogo osservato che i ricorrenti difettano di interesse a sentir pronunciare sulla questione, avendo la CTR affermato, con motivazione in fatto esaustiva ed assorbente (della cui insindacabilità si è già detto al par. 2.2.), che il provvedimento impositivo trovava il suo nucleo argomentativo e probatorio nell’incontestata, manifesta incongruenza tra i corrispettivi pattuiti nei contratti preliminari e quelli indicati negli atti pubblici definitivi di vendita, rispetto alla quale gli ulteriori elementi indiziari valorizzati non assumevano valenza decisiva. Va inoltre rilevato che entrambi i mezzi difettano del requisito della specificità, di cui all’art. 366 c.p.c., atteso che non risulta che la questione sia stata devoluta all’esame del giudice d’appello nei termini in questa sede illustrati e che i ricorrenti hanno omesso di trascrivere il motivo di gravame che, a loro dire, la CTR avrebbe travisato, nè hanno assolto all’onere di allegare al ricorso l’atto d’appello o, in alternativa, di indicare la sua esatta collocazione processuale.

5. Con il nono motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; secondo i ricorrenti il ricorso allo strumento dell’accertamento parziale – fra l’altro in sede di autotutela sostitutiva di un primo accertamento globale – non sarebbe consentito senza una verifica in senso tecnico, ovvero a seguito della sola raccolta di documenti e di un’analisi ragionata degli stessi e della contabilità.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2.. Si deve in primo luogo rilevare che, ai sensi dell’art. 41 bis cit. nel testo modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, in vigore ratione temporis, l’Ufficio può procedere al cd. “accertamento parziale”, in presenza di elementi eterogenei, indicati in modo neppure tassativo, che consentano di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato ovvero il maggiore ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, posto che la valutazione relativa alla consistenza degli elementi emersi attiene al merito e cioè alla fondatezza dell’accertamento e non alla correttezza del metodo utilizzato.

5.3. L’accertamento parziale dell’IVA e delle imposte dirette può pertanto essere legittimamente adottato anche su iniziativa propria dell’ufficio titolare del potere di accertamento totale, in quanto rappresenta uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie, sia interne che esterne, condotte in varie forme, diano contezza della sussistenza di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al mero recepimento del contenuto della segnalazione, a prescindere dal fatto che quest’ultima provenga da un soggetto estraneo all’amministrazione o da fonti ad essa interne (v. per tutte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27323 del 23/12/2014 Rv. 633725 – 01). Per questo, alla base della rettifica parziale può essere posto, per espressa previsione normativa, qualsiasi elemento, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al mero recepimento di elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicchè, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, l’accertamento parziale risulta solo qualitativamente diverso poichè si avvale di una sorta di “automatismo argomentativo”, per modo che il confezionamento dell’atto risulta possibile senza necessità di ulteriore approfondimento (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2633 del 10/02/2016 Rv. 638908 – 01).

5.4. L’accertamento parziale non costituisce, in conseguenza, uno strumento di accertamento autonomo rispetto a quello previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, bensì una modalità procedurale che ne segue le medesime regole, sicchè il relativo oggetto non è circoscritto ad alcune categorie di redditi e può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo, pur in presenza di contabilità regolarmente tenuta: ne deriva ulteriormente che non assume rilievo alcuno il fatto che, ad esempio, nel relativo avviso ci si riferisca, in ipotesi, erroneamente al predetto art. 39 anzichè al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 8406 del 04/04/2018 Rv. 647574 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 21984 del 28/10/2015 Rv. 637198 – 01).

5.5. Non si può perciò condividere la critica rivolta alla sentenza d’appello, laddove ha ritenuto che anche la attività di controllo fosse assimilabile a quella di “verifica” menzionata dall’art. 41 bis come una delle tante attività dell’Ufficio che consentivano l’accertamento parziale e comunque – come già ritenuto da questa Corte con un orientamento cui si ritiene di dare continuità in questa sede – i contribuenti non hanno interesse a dolersi dell’accertamento parziale (in luogo di quello ordinario), nè hanno indicato nella specie alcun interesse a farlo, poichè la nozione di accertamento parziale non indica che l’oggetto sia limitato a singoli elementi, nè che esso sia caratterizzato da provvisorietà rispetto a quello ordinario, ma soltanto, che in base alla formula normativa usata, l’imposizione è fondata su elementi provenienti da determinate fonti di conoscenza in grado, in forza di un c.d. automatismo argomentativo, di fornire, in base ad una verifica elementare, gli elementi di contenuto dell’atto (v. Sez. 5, Sentenza n. 18065 del 04/08/2010 Rv. 614549 – 01). Tanto più che, come perspicacemente rilevato dalla Agenzia controricorrente, non è intervenuto alcun accertamento integrativo e non potrà neppure intervenire essendo ampiamente decaduti i termini per l’esercizio di tale potere da parte della Amministrazione Finanziaria.

5.6. Resta assorbito il decimo motivo, con cui la medesima questione, pur non comportando la valutazione di una circostanza di fatto controversa, ma solo la qualificazione giuridica della nozione di verifica di cui all’art. 41 bis cit., è erroneamente riproposta sotto il profilo del vizio di motivazione.

6. Sono infine inammissibili l’undicesimo e il dodicesimo motivo di ricorso, con i quali si lamenta, sotto i rispettivi profili del vizio di motivazione e della violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 16 e 17, che la CTR abbia dichiarato inammissibile, per difetto di specificità, il motivo d’appello con il quale era stata eccepita l’omessa motivazione del provvedimento di irrogazione delle sanzioni: per contrastare questa statuizione i contribuenti non potevano infatti limitarsi a sostenere che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del merito, il motivo non era generico, ma avrebbero dovuto chiarire le ragioni per le quali la decisione era errata e richiamare in ricorso il contenuto del motivo, nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (v. per tutte, fra moltissime, Cass. Sez. 5 -, ord.. 22880 del 2017 Rv. 645737 – 01).

7. Il ricorso, in conclusione, deve essere integralmente respinto e i ricorrenti devono essere condannati alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.

Non sussistono i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, commi 1 bis e 1 quater, essendo stato il ricorso notificato il 12.11.2012.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 10.260,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2019

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA