Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3140 del 07/02/2017


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Cassazione civile, sez. III, 07/02/2017, (ud. 06/12/2016, dep.07/02/2017),  n. 3140

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7288-2013 proposto da:

M.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

F. SIACCI 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO VOGLINO, che

lo rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente-

contro

O.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. G. BELLI

60, presso lo studio dell’avvocato LUCIANA COLANTONI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANCARLO MOROSINI

giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 57/2012 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 21/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/12/2016 dal Consigliere Dott. POSITANO GABRIELE;

udito l’Avvocato ALESSANDRO VOGLINO;

udito l’Avvocato LUCIANA COLANTONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’esercizio del diritto di prelazione, quale confinante, rispetto ad un preliminare in data 8.11.1975 – col quale M.P. prometteva in vendita ad D.v.A. un proprio fondo agricolo di circa dieci ettari sito in territorio di (OMISSIS), l’avente causa, M.M., alienava con atto del 17.3.1976 il detto fondo a O.L., nella sua qualità, appunto, di proprietario confinante.

Il preliminare prevedeva la clausola secondo cui eventuali diverse destinazioni ed usi totali o parziali del fondo rustico, ovvero destinazioni non attinenti la produzione agricola, avrebbero costituito motivo di risarcimento in favore dell’alienante.

Lamentando, dunque, l’utilizzazione del fondo per l’estrazione in forma industriale di ghiaia, M.M. aveva convenuto in giudizio l’ O. dinanzi al Tribunale di Pesaro, chiedendo la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.

Il convenuto, da parte sua, aveva eccepito la nullità e l’inopponibilità a lui della clausola, deducendo di non avere svolto attività estrattiva di ghiaia in forma industriale, ma unicamente per livellare il terreno per una migliore coltivazione.

Pronunciando preliminarmente sull’applicabilità della clausola contrattuale contenuta nel preliminare, il Tribunale pesarese, con sentenza parziale n. 3/1992, aveva dichiarato valida ed opponibile ad O. la clausola. Indi, con sentenza definitiva n. 541/2001, aveva condannato l’ O. a pagare all’attore la somma di Lire 297.500.000, oltre agli interessi.

Proposto appello da O. e appello incidentale da M., la Corte territoriale di Ancona con sentenza 16.9.2002 aveva ritenuto valida la clausola del contratto preliminare e, in accoglimento dell’appello dell’ O., aveva dichiarato l’insussistenza di un danno risarcibile in favore di M..

Avverso tale sentenza quest’ultimo aveva proposto ricorso per cassazione e la Corte con sentenza n. 1338 depositata il 20 gennaio 2009 aveva annullato la decisione della Corte territoriale in quanto, una corretta interpretazione del contratto a norma dell’art. 1362 c.c., avrebbe dovuto indurre i giudici d’appello a ricercare la comune intenzione dei contraenti nelle espressioni utilizzate.

Riassunto il giudizio, la Corte d’Appello di Ancona, con sentenza dell’11 aprile 2012, accoglieva l’appello proposto da O.L. e, in riforma della sentenza appellata, rigettava la domanda proposta da M.M..

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il M. sulla base di tre motivi.

Si oppone O.L. con controricorso.

Entrambe le parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Come rilevato in narrativa questa Corte con sentenza n. 1338 del 2009 aveva ritenuto fondato il motivo con il quale O. aveva censurato la motivazione della Corte territoriale che aveva escluso un danno dall’attività estrattiva posta in essere sul fondo dall’acquirente O. e il conseguente diritto al risarcimento.

Si legge nella decisione: “la Corte in altri termini ha escluso un interesse concreto ed attuale del M. al risarcimento del danno “in quanto con la vendita del terreno ha rinunciato ad ogni utilizzo del terreno”. Ora, una corretta interpretazione del contratto a norma dell’art. 1362 c.c., avrebbe dovuto indurre i giudici d’appello a ricercare la comune intenzione dei contraenti nelle espressioni da questi usate nel contratto preliminare poi incorporata nell’atto di vendita, nel senso di tener conto se i contraenti avevano interesse ad una comune utilizzazione del terreno e che non avrebbero tollerato un inadempimento da parte del prelazionante, pena il risarcimento del danno. Ovvero tener conto se i contraenti avevano inserito tale obbligazione risarcitoria quale conseguenza diretta non solo dell’inadempimento del prelante, ma anche quale ristoro per il lucro cessante che sarebbe derivato per il mancato, diretto, sfruttamento dell’area, secondo gli accordi intercorsi.

Sotto altro profilo, rilevando la Corte – in aggiunta a quanto ritenuto (e cioè che il M. non aveva subito danno dall’attività estrattiva dell’ O. poichè con la vendita del terreno l’alienante aveva rinunciato ad ogni utilizzo dello stesso) – che la clausola de qua non aveva determinato l’entità del risarcimento nè i criteri per la sua liquidazione e che, pertanto, non potesse essere considerata fonte di obbligazione, va detto, alla stregua di quanto oppone il controricorrente, che legittimo poteva essere il ricorso, da parte del giudice di merito, ad una autonoma valutazione equitativa del danno, dato che i contraenti non erano obbligati a predeterminare l’entità del risarcimento non trattandosi di clausola penale in senso stretto e non essendosi ancora verificato l’evento lesivo all’epoca del preliminare”.

Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto in particolare degli artt. 1362, 1363, 1371, 1321, 1322, 1223, 1226, 2056, 2697, 2727 e 2729 c.c., nonchè degli articoli 115 e 384 del codice di rito, in relazione alla mancata o comunque erronea applicazione, in sede di rinvio, delle statuizioni espresse dalla Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 360 del codice di rito, n. 3.

In particolare, il ricorrente deduce che l’opponibilità della clausola risarcitoria è stata definitivamente acclarata a seguito del ricorso incidentale proposto da O. avverso la prima decisione della Corte d’appello.

Conseguentemente il giudice di rinvio avrebbe dovuto accertare la comune intenzione delle parti e, successivamente, verificare la sussistenza del danno. Entrambi i profili risultano inadeguati.

Quanto al primo, il ricorrente rileva che la Corte di legittimità aveva censurato la motivazione, sia per la sua insufficienza, che per la violazione dell’art. 1362 c.c., che risulta nuovamente violato in sede di rinvio poichè la Corte territoriale ha posto a fondamento della propria decisione il falso presupposto che il ricorrente, se avesse avuto davvero intenzione di sfruttare il fondo come una cava, unitamente al primo promittente acquirente, D.V., non avrebbe venduto il terreno a quelle condizioni. In sostanza il giudice di rinvio, ha violato il principio secondo cui la nuova decisione non può fondarsi sugli stessi elementi del provvedimento impugnato. La Corte territoriale, infatti, avendo dichiarato di non essere in grado di ricavare, dal solo dato letterale della clausola contrattuale, la comune intenzione delle parti, avrebbe dovuto utilizzare i criteri normativi previsti dalle norme successive all’art. 1362 c.c., secondo la gradazione indicata dal legislatore, oltre agli altri cannoni ermeneutiche. Sotto tale profilo, con riguardo proprio al comportamento del ricorrente, le risultanze processuali evidenziano che lo stesso non ha mai prestato acquiescenza all’inadempimento altrui.

Quanto al secondo profilo, quello del danno risarcibile anche connesso al diretto sfruttamento dell’area da parte dell’originario proprietario, la Corte territoriale ha omesso di considerare che la prova del pregiudizio avrebbe potuto essere fornita con ogni strumento, anche con le presunzioni semplici previste dagli artt. 2727 e seguenti c.c.. Al contrario, la Corte si è limitata ad escludere i danni risarcibili poichè gli stessi non sarebbero emersi in maniera diretta e immediata dalle risultanze processuali.

Il vizio della motivazione consiste nella mancata applicazione del processo logico da articolare in due fasi: quella relativa alla certezza del danno e, quella successiva, riguardante la quantificazione dello stesso.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di insufficiente motivazione della sentenza sul fatto controverso decisivo riguardante la comune intenzione delle parti contraenti, ai sensi dell’art. 360 codice di rito, n. 5.

Il ricorrente lamenta che il giudice di appello avrebbe lapidariamente escluso una volontà, intenzione o interesse delle parti originarie del contratto preliminare, riguardo ad un utilizzo comune del terreno, in modo da non tollerare un inadempimento da parte del prelazionante.

Al contrario, la predisposizione della clausola, poi trasfusa nel contratto definitivo, evidenziava il preciso obbligo assunto anche da O. di astenersi dall’utilizzare il fondo per scopi diversi da quelli agricoli. Sotto tale profilo la motivazione appare oltremodo insufficiente non consentendo di individuare il percorso logico giuridico seguito dal giudicante.

Con il terzo motivo deduce vizio di illogica e contraddittoria motivazione sul fatto controverso e decisivo, riguardante l’inadempimento del prelatore infedele ed i pregiudizi derivatine, ai sensi dell’art. 360 codice di rito, n. 5.

In particolare, il ricorrente lamenta che la Corte, con motivazione perplessa, illogica e contraddittoria, pur avendo preso atto dell’inadempimento di O., rispetto alla clausola contrattuale in questione, ha ritenuto di non poter riconoscere il diritto al risarcimento del danno. Come rilevato in premessa, la Corte di legittimità aveva richiesto alla Corte territoriale di ricercare la comune intenzione dei contraenti “nel senso di tener conto se i contraenti avevano interesse ad una comune utilizzazione del terreno”. Rispetto a questo la Corte di merito ha rilevato che non trovava alcun riscontro negli atti del processo la circostanza secondo cui tra gli originari contraenti vi sarebbe stato un accordo riguardo alla utilizzazione del fondo al fine di estrarre materiale e che ciò avrebbe determinato l’inserimento della clausola per ottenere un risarcimento del danno quale ristoro per il lucro cessante derivato dal mancato sfruttamento diretto dell’area.

La decisone di fonda su quattro motivazioni, ciascuna idonea a fondare la sentenza di rigetto.

In primo luogo, osserva la Corte che se il ricorrente avesse avuto intenzione di sfruttare l’area unitamente all’originario contraente non avrebbe alienato il bene come terreno agricolo, con il rischio che fosse esercitata la prelazione da parte di terzi, ma avrebbe adoperato un diverso strumento giuridico negoziale. Una seconda argomentazione riguarda la mancata deduzione, da parte dell’odierno ricorrente, di elementi tesi a chiarire il significato dell’utilità della clausola.

In terzo luogo, l’interpretazione letterale non consentirebbe, secondo la Corte di merito, di individuare alcuna volontà, intenzione o interesse comune dei contraenti, nei termini richiesti dalla Corte di legittimità. Infine, l’anomala distribuzione dell’importo risarcitorio, in misura assolutamente preponderante in favore dell’odierno ricorrente militava in senso contrario rispetto all’esistenza di un accordo.

Ciò premesso il primo motivo è inammissibile per difetto di specificità e completezza difettando la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basa la decisione impugnata con riferimento a tutti i profili (quattro) sui quali la sentenza si fonda. Lo stesso ricorrente limita la censura alla prima argomentazione, quella di ordine logico, richiedendo, poi, alla Corte territoriale una valutazione ulteriore del comportamento delle parti, ritenendo non appagante la soluzione adottata in sede di appello. In sostanza, quindi, il ricorrente intende offrire una interpretazione delle clausole del contratto preliminare diversa da quella accolta dalla Corte territoriale e meramente alternativa, perchè ritenuta maggiormente congruente con la propria tesi del ricorrente. La censura, quindi risulta inammissibile, traducendosi nella lamentata non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte.

In particolare, consiste nella prospettazione di un soggettivo coordinamento dei molteplici dati acquisiti, ritenuto migliore e più appagante, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’ iter formativo di tale convincimento rilevanti in questa sede.

E’ evidente, altresì, che le doglianze relative al profilo risarcitorio risultano assorbite rispetto a quelle che riguardano l’interpretazione della comune volontà delle parti.

Anche il secondo motivo è inammissibile poichè già nella previgente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si richiedeva che la motivazione della “quaestio facti” fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione (Sez. 3, Sentenza n. 17037 del 20/08/2015, Rv. 636317). Infine, con riferimento all’ultimo motivo, il riferimento contenuto nella decisione impugnata alla violazione del contenuto della clausola non costituisce un profilo di contraddittorietà della motivazione poichè l’argomentazione viene utilizzata dalla Corte territoriale a fini diversi da quelli relativi all’interpretazione del contratto e per tale motivo la doglianza, in quanto inconferente, è inammissibile.

Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17: “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1 – bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 10.000, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso di spese forfettarie ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2017

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