Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 314 del 10/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 10/01/2011, (ud. 02/12/2010, dep. 10/01/2011), n.314

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato GENTILE GIOVANNI GIUSEPPE, che la rappresenta e

difendi giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

A.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI

RIENZO 271, presso lo studio dell’avvocato BALDASSARRE FRANCESCO, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1861/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 16/11/2006 R.G.N. 3147/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/12/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega GIOVANNI GENTILE;

udito l’Avvocato PASQUALE MOSCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 9 – 10 marzo 2007. la s.p.a. Poste Italiane chiede, con un unico articolato motivo, la cassazione della sentenza depositata il 16 novembre 2006 e notificata il 12 gennaio 2007, con la quale la Corte d’appello di Lecce, riformando la decisione del giudice di primo grado, ha condannato la societa’, a seguito dell’accertamento della nullita’ del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 cosi’ come integrato dall’accordo 25 settembre 1997 “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi ed in attuazione del progressivo completo equilibrio sul territorio delle risorse umane” – al contratto di lavoro intercorso con A. C. decorrente dal 10 ottobre 1998, a risarcire alla lavoratrice il danno, rapportato alle retribuzioni perdute dall’atto di messa in mora del creditore della prestazione.

In particolare, la societa’ ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione della L. n. 230 del 1962, della L. n. 56 del 1987, art. 23; dell’art. 1362 c.c. e segg. nonche’ il vizio di motivazione nella interpretazione dell’accordo del 25 settembre 1997, integrativo del C.C.N.L. 26 novembre 1994 e dei verbali di intesa sindacale successivi e, infine, per un ulteriore vizio di motivazione attinente le conseguenze economiche tratte dalla ritenuta illegittimita’ del termine.

Alle domande della societa’ ha resistito con controricorso la lavoratrice.

Ambedue le parti hanno depositato una memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso e’ infondato.

I giudici di merito hanno infatti individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 30 aprile 1998 e quindi in data antecedente a quella dei contratti di lavoro esaminati.

In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive puo’ essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Quanto al tipo di contrattazione collettiva autorizzata a tale ampliamento, il citato L. n. 56, art. 23 si esprime in termini di “apposizione di un termine… consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato (espresso anche in sede di diretta interpretazione delle norme del C.C.N.L. ai sensi di quanto stabilito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione e’ affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessita’ che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimita’ dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte, che qui si ribadisce sulla base della diretta conoscenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro da interpretare, ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo e’ stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un piu’ diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volonta’ delle parti;

– e’ comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziche’ in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresi’ corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volonta’ delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilita’ del rapporto si era gia’ perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi e’ ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedelta’ ai propri precedenti, sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimita’ della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro della resistente per la causale indicata, in quanto stipulati successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la societa’ ricorrente, invoca, in via subordinata, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullita’ della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennita’ omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori gia’ occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennita’ fissata dal comma 5 e’ ridotto alla meta’.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennita’ di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”.

Con riguardo alla richiesta della societa’, contrastata dalla difesa dell’intimato e a prescindere dall’esame delle obiezioni da quest’ultima svolte in ordine alla problematica relativa alla possibilita’ di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6 anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimita’ lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimita’, il cui perimetro e’ limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr, Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In tale contesto, e’ altresi’ necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresi’ ammissibile secondo la disciplina sua propria.

In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullita’ del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc.; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D. Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, tali motivi devono essere altresi’ corredati, a pena di inammissibilita’ degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile.

In caso di assenza o di inammissibilita’ di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullita’ del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilita’ delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Premessi tali principi di diritto, si rileva che nel caso in esame il motivo che investe il tema cui potrebbe essere riferibile, secondo la prospettazione della ricorrente, la disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7 e’ l’ultimo (il terzo), indicato nella rubrica come di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo.

Si tratta, in realta’, di un motivo relativo alla pretesa violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 cod. civ. (con conseguente assorbimento, comunque, del preteso vizio di motivazione – arg. art. 384 cod. proc. civ., u.c.) e attinente all’argomento della detrazione dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullita’ del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato, l’aliunde perceptum nel medesimo periodo in cui viene in considerazione il danno.

La ricorrente con tale motivo lamenta infatti del tutto genericamente e quindi in maniera inammissibile che la Corte territoriale abbia errato nel ritenere irrilevante la relativa eccezione e poi censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte (cita al riguardo Cass. 17 ottobre 2001 n. 12697) discenderebbe che “l’aliunde perceptum…

non puo’ che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)”.

Il motivo cosi’ riassunto conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366-bis c.p.c.:

“Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficolta’ della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.

Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658) e’ evidente che il quesito come sopra formulato dalla societa’ appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente e quindi si valuta inammissibile il relativo motivo, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. Concludendo, il ricorso va pertanto respinto, con ogni conseguenza di legge, anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, come operato in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 28,00 per esborsi ed Euro 2.000,00, oltre accessori di legge, per onorari, che distrae all’avv. Francesco Baldassarre.

Cosi’ deciso in Roma, il 2 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2011

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