Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31388 del 02/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 02/12/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 02/12/2019), n.31388

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1603/2014 proposto da:

M.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CAGLIARI, 15, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO CIOCIOLA, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GAETANO ALAIA;

– ricorrente –

contro

UNIONE MUNICIPIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 14, presso lo

studio dell’avvocato GABRIELE PAFUNDI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ANTONINO RIZZO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 321/2013 della CORTE D’APPELLO di 21/09/2013

R.G.N. BRESCIA, depositata il 447/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza depositata in data 21 settembre 2013 la Corte di appello di Brescia, in riforma della decisione del Tribunale di Cremona, respingeva la domanda proposta da M.M.G., commissario aggiunto di polizia locale, nei confronti dell’Unione Municipia, intesa ad ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni adottata nei suoi confronti con provvedimento n. 1118 del 27 luglio 2011, per non essere intervenuta in alcun modo, in data 1 giugno 2011, per impedire l’aggressione del Sindaco del Comune di Motta Baluffi, pur essendo presente a pochi metri di distanza dal luogo del fatto, e ciò in violazione dell’art. 1, comma 5, lett. k) del codice disciplinare riguardante la violazione di obblighi di comportamento da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o a terzi;

1.1. contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, ad avviso della Corte territoriale intervenire per tutelare l’integrità del Sindaco di Motta Baluffi (comune facente parte dell’Unione Municipia) rientrava nei doveri della M. e nelle funzioni di pubblica sicurezza proprie del suo ruolo e della sua qualifica (la predetta era anche agente di pubblica sicurezza, qualifica attribuitale con decreto prefettizio dell’8 agosto 2008);

1.2. secondo i giudici di appello, in particolare, gli addetti al servizio di polizia locale avevano le funzioni ausiliare di pubblica sicurezza previste dalla normativa statale e rientrava tra i loro compiti primari il presidio del territorio al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento;

1.3. inoltre rientrava nei doveri dei suddetti addetti quello, più generale, di vigilanza sul mantenimento dell’ordine pubblico e sull’incolumità e la tutela delle persone o dei beni oltre che quello di prevenzione dei reati, dovere rispetto al quale non poteva assumere alcuna rilevanza la circostanza che la vittima del reato perpetrato alla presenza della M. fosse il Sindaco (e non un qualunque cittadino);

1.4. la Corte territoriale, poi, riconduceva l’obbligo in questione ad uno di quelli previsto dall’art. 1, comma 5, lett. k del codice disciplinare;

1.5. riteneva, inoltre, che l’ente datore di lavoro avesse ottemperato agli oneri di pubblicità del codice disciplinare ed evidenziava che rispetto al testo pubblicato ed affisso il D.Lgs. n. 150 del 2009, non avesse introdotto disposizioni rilevanti con riguardo alle sanzioni disciplinari, rimaste sostanzialmente inalterate anche nell’impianto dei c.c.n.l. successivi;

1.6. osservava che il codice disciplinare cui fa riferimento l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori rappresenta la codificazione dell’insieme dei comportamenti fonte di responsabilità disciplinare legittimati l’applicazione delle varie sanzioni (principalmente conservative) e non anche delle regole, oltretutto previste dalla legge, relative al procedimento disciplinare;

1.7. escludeva la fondatezza delle doglianze della M. sia in ordine alla genericità della contestazione sia in ordine ad un preteso novum che sarebbe stato oggetto del provvedimento di irrogazione della sanzione;

1.8. considerava priva di fondamento la censura riguardante la carenza di impulso da parte dell’organo competente ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 3, rilevando che la trasmissione della notizia del fatto di rilievo disciplinare da parte del capo della struttura di appartenenza dell’incolpata avesse la funzione di rendere nota la notizia medesima all’organo competente per l’apertura del procedimento disciplinare;

1.9. sosteneva che la sanzione in questione, non superiore a 10 giorni di sospensione, fosse stata adottata dall’organo competente;

1.10. escludeva, infine, ogni vizio procedurale e riteneva che alla M. fossero stati messi a disposizione tutti gli atti del procedimento disciplinare così da consentirle la più ampia e adeguata difesa;

1.11. da ultimo, sulla base dell’esame della prova testimoniale, riteneva che i fatti oggetto dell’incolpazione si fossero svolti così come contestato alla M. essendo emerso che quest’ultima rimase del tutto inerte di fronte all’aggressione del sindaco da parte di due uomini, non intervenne neppure verbalmente nè si impegnò all’immediato inseguimento degli aggressori e che la sanzione adottata fosse assolutamente proporzionata alla gravità della condotta;

2. avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.M.G. con sei motivi;

3. l’Unione Municipia ha resistito con controricorso;

4. non sono state depositate memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo e secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto dei lavoratori;

censura il passaggio della sentenza impugnata in cui è affermato che il codice disciplinare cui fa riferimento l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori rappresenta la codificazione dell’insieme dei comportamenti fonte di responsabilità disciplinare legittimai i l’applicazione delle varie sanzioni (principalmente conservative) e non anche delle regole, oltretutto previste dalla legge, relative al procedimento disciplinare;

rileva che la norma statutaria prevede espressamente che siano portate a conoscenza dei lavoratori mediante l’affissione anche le procedure di contestazione delle sanzioni disciplinari;

sostiene, poi, che quello da affiggere dovesse essere il c.c.n.l. del 2008 con l’entrata in vigore del quale l’art. 25 del c.c.n.l. precedente andava disapplicato e non aveva più alcuna efficacia;

2. i motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, sono infondati (dovendosi, però, correggere, sul punto, la motivazione della sentenza impugnata nei termini di seguito specificati);

2.1. i fatti per cui è causa si sono verificati in data 1 giugno 2011 e dunque dopo l’entrata in vigore della L. n. 150 del 2009 (c.d. Riforma Brunetta);

2.2. con tale riforma è stata direttamente la legge ad assumere il ruolo di fonte regolativa del procedimento disciplinare essendosi prevista all’art. 55-bis (norma sulla quale poi è nuovamente il legislatore che con il D.Lgs. n. 75 del 2017, ne ha riscritto il testo ma che ratione temporis non è applicabile alla presente fattispecie) una rigida sequenza cronologica scandita da termini perentori, volti a conferire maggior celerità e certezza al percorso di accertamento dell’infrazione disciplinare;

2.3. così il legislatore del 2009 ha introdotto una disciplina inderogabile, che ha individuato due modelli di procedimento, rispettivamente “semplificato” e “ordinario”, cui corrispondono diversi termini endoprocedimentali e di chiusura dell’iter: il primo, individuato dell’art. 55 bis, comma 1, D.Lgs. cit. (primo periodo), si applica se il responsabile della struttura ha qualifica dirigenziale e in presenza delle infrazioni meno gravi, per le quali è prevista una sanzione superiore al rimprovero verbale ed inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni (nello specifico, il termine decadenziale per la conclusione di detto procedimento è di sessanta giorni e decorre dalla contestazione dell’addebito al dipendente, come inequivocabilmente disposto dalla norma in esame);

il secondo (cosiddetto “ordinario”), individuato dall’art. 55 bis, comma 1, secondo periodo) è diretto ad accertare le infrazioni punibili con le sanzioni più gravi e nel caso in cui il responsabile della struttura presso cui lavora il dipendente non sia dirigente (in ragione della maggior complessità dell’iter, la norma citata prevede un termine decadenziale di centoventi giorni per la conclusione del procedimento, decorrenti “dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura”);

2.4. la suddetta specifica disciplina, ai sensi di quanto previsto dallo stesso D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 68, è sottratta alla contrattazione collettiva cui è riservata solo possibilità di definire la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni (salvo in ogni caso quanto previsto dalle disposizioni del capo V – sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici – della medesima legge);

2.5. ed allora, a fronte di una disciplina legislativamente prevista sulla procedura di applicazione delle sanzioni, non vale invocare la mancata affissione del codice disciplinare quale fonte di codificazione delle regole relative al procedimento disciplinare;

2.6. nè maggior pregio ha la doglianza relativa alla mancata affissione sotto il profilo della codificazione dell’insieme dei comportamenti fonte di responsabilità disciplinare e disciplinanti l’applicazione delle varie sanzioni;

2.7. prima della riforma del 2009, per il corretto esercizio del potere disciplinare era necessaria la materiale affissione del “codice disciplinare” in luogo accessibile a tutti (L. n. 300 del 1970, art. 7);

l’affissione del codice disciplinare costituiva una forma esclusiva di pubblicità che non ammetteva forme alternative e diverse (v. Cass., Sez. Un., 5 febbraio 1988, n. 1208 e successive conformi);

2.8. il D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 68, ha in parte superato tale vincolo: per la validità del procedimento è sufficiente la pubblicazione del codice sul sito web dell’amministrazione (v. nuovo testo del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 2) ovvero, in alternativa, l’Ente può affiggerlo all’ingresso della sede di lavoro;

2.9. in ogni caso è stato da questa Corte ritenuto (Cass. 16 maggio 2001, n. 6737; Cass. 7 aprile 2003, n. 5434; Cass. 14 agosto 2004, n. 15912 e, con specifico riferimento al pubblico impiego, Cass. 8 gennaio 2007, n. 56; Cass. 27 febbraio 2011, n. 1926; Cass. 18 ottobre 2016, n. 21032; Cass. 31 ottobre 2017, n. 25977) che non è indispensabile la previa affissione del codice disciplinare in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione: il fatto che siano state irrogate sanzioni conservative non implica, infatti, che i relativi comportamenti debbano essere predeterminati tassativamente come illeciti disciplinari;

2.10. è stato, sul punto, affermato che in questi casi il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta, dovendosi d’altro canto considerare che sarebbe contraddittorio affermare la sussistenza di un interesse del lavoratore ad essere previamente edotto della possibilità di essere destinatario di una sanzione conservativa per i detti comportamenti e negarla in presenza di sanzioni di carattere espulsivo, le quali sono ben più afflittive (v. Cass. 2 settembre 2004, n. 17763; Cass. n. 6737/2001 cit.);

2.11. nella specie, il comportamento addebitato alla M. è stato sussunto dalla stessa Corte territoriale nell’ambito dei comportamenti posti in essere in violazione dei doveri inerenti al rapporto di impiego, percepibile come tale dalla dipendente, il che consente di ritenere l’ipotesi in esame rientrante pienamente nell’eccezione rispetto alla necessità della previa affissione del codice disciplinare;

3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L.R. Lombardia n. 4 del 2003, art. 15, nella parte in cui attribuirebbe alla polizia locale autonomi poteri in materia di ordine pubblico;

4. il motivo è infondato;

4.1. ferma restando la competenza esclusiva dello Stato in materia di “ordine pubblico e sicurezza” ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 2, lett. f, con la L.R. Lombardia 14 aprile 2003, n. 4 (Riordino e riforma della disciplina regionale in materia di polizia locale e sicurezza urbana) – poi abrogata dalla L.R. 1 aprile 2015, n. 6, art. 38, comma 1, lett. a) – sono state individuate modalità di intervento della Polizia Municipale all’interno del sistema integrato di sicurezza;

è stato così previsto all’art. 14 (Funzioni di pubblica sicurezza) che nell’esercizio delle funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza, previste dalla normativa statale, la polizia locale pone il presidio del territorio tra i suoi compiti primari, al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento;

4.2. tali “funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza” trovano, del resto un diretto riscontro nella legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale (L. 7 marzo 1986, n. 65);

4.3. all’art. 3 di tale legge (Compiti degli addetti al servizio di polizia municipale) è, infatti, stabilito che: “Gli addetti al servizio di polizia municipale esercitano nel territorio di competenza le funzioni istituzionali previste dalla presente legge e collaborano, nell’ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato, previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità”;

all’art. 5 (Funzioni di polizia giudiziaria, di polizia stradale, di pubblica sicurezza) è precisato, al comma 1, che: “Il personale che svolge servizio di polizia municipale, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche: a) funzioni di polizia giudiziaria, rivestendo a tal fine la qualità di agente di polizia giudiziaria, riferita agli operatori, o di ufficiale di polizia giudiziaria, riferita ai responsabili del servizio o del Corpo e agli addetti al coordinamento e al controllo, ai sensi dell’art. 221 c.p.c., comma 3 (il riferimento deve intendersi fatto all’art. 57 nuovo c.p.p.); b) servizio di polizia stradale, ai sensi dell’art. 137 del Testo Unico delle norme sulla circolazione stradale approvato con D.P.R. 15 giugno 1959, n. 393 (si veda, ora, l’art. 12 nuovo C.d.S., approvato con D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285); c) funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 3 della presente legge” (si veda anche della L. 7 aprile 2014, n. 56, art. 1, comma 113);

4.4. la qualifica di addetto alla pubblica sicurezza non è, poi, acquisita automaticamente ma è necessario l’intervento di uno specifico provvedimento formale da parte di un’autorità statale, il Prefetto, capo della pubblica sicurezza nel territorio provinciale;

la citata L. n. 65 del 1986, art. 5, comma 2, prevede, infatti, che: “Il prefetto conferisce al suddetto personale, previa comunicazione del sindaco, la qualità di agente di pubblica sicurezza, dopo aver accertato il possesso dei seguenti requisiti: a) godimento dei diritti civili e politici; b) non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione; c) non essere stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici”;

la perdita di tale qualità può essere dichiarata solo dallo stesso prefetto, sentito il sindaco, “qualora accerti il venir meno di alcuno dei suddetti requisiti” (comma 3);

4.5. la qualifica di agenti di polizia giudiziaria attribuita agli appartenenti alla polizia municipale è, dunque, limitata nel tempo (“quando sono in servizio”) e nello spazio (“nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza”), a differenza di altri corpi (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza) i cui appartenenti operano su tutto il territorio nazionale e sono sempre in servizio (v. in tal senso Cass. pen. 10 giugno 2015, n. 35099);

4.6. quanto alle funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza, va rilevato che la caratterizzazione di ausiliarietà è legata in via precipua alla funzione in senso generale, e non si riferisce alla figura del singolo agente di polizia municipale (in tal senso Cons. Stato, IV, 30 settembre 2002, n. 4982);

il complessivo quadro normativo sullo svolgimento di tali funzioni (si vedano anche il R.D. 31 agosto 1907, n. 690, art. 34, secondo cui: “Gli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza vegliano al mantenimento dell’ordine pubblico, all’incolumità e alla tutela delle persone e delle proprietà, in genere alla prevenzione dei reati, raccolgono le prove di questi e procedono alla scoperta, ed in ordine alle disposizioni della legge, all’arresto dei delinquenti; curano l’osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali dello Stato, delle province e dei comuni, come pure delle ordinanze delle pubbliche autorità; prestano soccorso in casi di pubblici e privati infortuni” nonchè l’analoga disposizione di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 1, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e gli artt. 1-7 del Regolamento per l’esecuzione del T.U. approvato con R.D. 6 maggio 1940, n. 635) e l’espressa previsione delle stesse in aggiunta ai compiti primari non possono indurre a ritenere che un intervento di pubblica sicurezza sia legittimato solo dalla previa motivata richiesta delle forze di Polizia dipendenti dallo Stato o comunque dei soggetti competenti;

4.7. fermo restando per l’attività ausiliaria il limite costituito dalla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza (si veda Corte Cost. n. 35 del 2011) e il corrispondente obbligo per l’agente di polizia locale di attenersi, nel compimento delle operazioni di pubblica sicurezza a lui demandate, alle specifiche direttive degli organi competenti, tuttavia, come ritenuto dalla Corte territoriale, grava sullo stesso, quale addetto alla pubblica sicurezza, un generale dovere di vigilanza nel mantenimento dell’ordine pubblico e nella tutela delle persone e dei beni;

è ben possibile, infatti, che un addetto alla pubblica sicurezza (al di fuori di specifiche operazioni da svolgersi su richiesta delle competenti autorità) venga a trovarsi in situazioni dagli inequivoci ed oggettivi connati di gravità ed urgenza, quale quella in cui qualcuno sia sorpreso nella flagranza di un reato, tale da richiedere un pronto e diretto intervento a salvaguardia dell’incolumità di persone e di beni;

4.8. già a partire dalla sentenza n. 77/1987, la Corte costituzionale ha definito la sicurezza pubblica come la “funzione inerente alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico” e tale definizione è stata, poi, ripresa nella successive sentenze n. 218/1988, n. 740/1988 e n. 162/1990 ed ancora nella sentenza n. 115/1995 in cui è precisato che la polizia di sicurezza ricomprende “le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, da intendersi quale complesso dei beni giuridici fondamentali o degli interessi pubblici primari sui quali si fonda l’ordinata convivenza civile dei consociati”;

4.9. non va perciò in assoluto escluso dai doveri degli agenti di polizia municipale (che siano anche, come l’odierna ricorrente, addetti alla pubblica sicurezza) quello di vigilanza sul mantenimento dell’ordine pubblico e quello inteso alla tutela e alla incolumità delle persone e dei beni (e più in generale alla prevenzione dei reati);

4.10. trattasi di un dovere (generale e non connesso a specifiche operazioni di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza) in determinate circostanze certamente sotteso al sopra indicato ruolo (si veda, del resto, la L.R. Lombardia n. 4 del 2003, art. 15, secondo il quale: “La polizia locale, nell’ambito delle proprie competenze, presta ausilio e soccorso in ordine ad ogni tipologia di evento che pregiudichi la sicurezza dei cittadini, la tutela dell’ambiente e del territorio e l’ordinato vivere civile”);

4.11. è stato, del resto, anche precisato (v. Cass. pen. 19 ottobre 1977, n. 15961) che in contingenti situazioni, e così “nella flagranza del reato, il pubblico ufficiale ha il potere-dovere di intervenire” ed ancora che: “ai sensi della L. 7 marzo 1986, n. 65, art. 5 e dell’art. 57 c.p.p., comma 2, lett. b), la qualità di agenti di polizia giudiziaria è espressamente attribuita alle guardie dei comuni, alle quali è riconosciuto il potere di intervento nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, tra le quali rientra lo svolgimento di funzioni attinenti all’accertamento di reati di qualsiasi genere, che si siano verificati in loro presenza, e che richieda un pronto intervento anche al fine di acquisizione probatoria” (così Cass. pen. 10 marzo 1994, n. 1193);

4.12. nel caso in esame la M., al momento dell’aggressione del Sindaco (avvenuta, come si legge in sentenza, nel corridoio dell’ufficio comunale, ad opera di due soggetti dei quali uno “percuoteva con calci il Sindaco, che era a terra, e l’altro, invece, teneva socchiusa la porta del corridoio, in modo che non entrasse nessuno”), era in servizio e stava svolgendo i propri compiti d’ufficio nell’ambito territoriale di competenza;

correttamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto che la predetta, commissario aggiunto di polizia locale e addetta alla pubblica sicurezza, avesse violato i doveri connessi al ruolo istituzionale ricoperto nel non essere intervenuta in alcun modo per impedire tale aggressione, pur trovandosi a pochi metri di distanza dal luogo del fatto (come è precisato in sentenza, a mezzo del richiamo alla testimonianza di una dipendente ritenuta particolarmente attendibile e di altra confermativa, la M. uscì dalla stanza che dava sul corridoio “quando l’aggressione era in corso” ma “rimase immobile e non fece nulla, neppure pronunciò frasi del tipo fermatevi polizia… e neppure inseguì gli aggressori”);

5. con il quarto motivo la ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

lamenta che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della correttezza della condotta difensiva della M. nè speso alcuna parola sulla proporzionalità e gradualità della sanzione rispetto alla gravità della condotta;

6. il motivo è da disattendere;

7. al di là della rubricazione il motivo si profonde in una disamina del materiale istruttorio, palesemente finalizzata ad una diversa soluzione di merito e dunque estranea alla finalità propria del giudizio di legittimità;

7.1. la Corte territoriale ha tenuto conto di tutte le circostanze del caso ed ha ritenuto, sulla base degli esiti istruttori, non plausibile la tesi difensiva della M. secondo la quale la stessa non sarebbe stata nelle condizioni di intervenire perchè, a suo dire, al momento dell’aggressione si trovava in un’altra stanza e quando si era resa conto di quanto stava accadendo, uno dei due aggressori aveva già desistito dalla condotta aggressiva;

7.2. inoltre la Corte d’appello ha debitamente valutato la gravità della condotta della M. che “nonostante il suo ruolo e la sua qualifica (che avrebbero dovuto indurla ad intervenire prima di tutti gli altri), rimase del tutto inerte, non intervenne neppure verbalmente e non si impegnò nell’immediato inseguimento degli aggressori, una volta terminata la colluttazione”, “nonostante fosse nelle condizioni di farlo, essendo uscita in corridoio quando l’aggressione era ancora in corso, tanto vero che intervenne in aiuto del Sindaco l’impiegata Bolsi, che si trovava in ufficio con la M. e che si frappose tra il sindaco e gli aggressori nel tentativo di farli smettere” e quindi ritenuto, rispetto ad essa, la proporzionalità della sanzione comminata;

8. con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 5;

lamenta che la Corte territoriale, a fronte di una specifica eccezione della M. in ordine ad un difetto di contraddittorio sugli atti successivi alla sua audizione, si fosse limitata ad affermare che l’Unione non avesse alcun obbligo di mettere a disposizione dell’incolpata gli ulteriori atti di indagine, in quanto “così facendo verrebbe vanificata la finalità degli accertamenti medesimi”;

9. il motivo è infondato;

9.1. nella tesi della ricorrente, sugli ulteriori atti di indagine – asseritamente ritenuti decisivi per l’incolpazione – avrebbe dovuto essere provocato il contraddittorio per consentire all’incolpata di interloquire in ordine ad essi, laddove invece l’audizione della M. era stata disposta solo prima dell’attività di indagine integrativa e sulla base di altra documentazione;

9.2. come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, nessuna norma di legge prevede, però, un simile obbligo;

9.3. la L. n. 165 del 2001, art. 55 bis, come modificato dalla L. n. 150 del 2009, stabilisce solo che “dopo l’espletamento dell’eventuale ulteriore attività istruttoria, il responsabile della struttura conclude il procedimento, con l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione dell’addebito”, nulla più;

9.4. si aggiunga, peraltro, che come si rileva dalla sentenza impugnata, l’ente appellante, una volta compiuti gli atti in questione, ha messo gli stessi a disposizione della M., così consentendole la più ampia e adeguata difesa;

10. con il sesto motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza per omessa decisione sull’eccezione di erronea indicazione del termine per impugnare;

11. anche tale motivo è infondato;

11.1. non è configurabile una omessa pronuncia quando la questione giuridica ad essa sottesa sia comunque da disattendere (cfr. Cass. 8 ottobre 2014, n. 21257; Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663; Cass. 1 febbraio 2010, n. 2313 nonchè Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2017, n. 2731);

11.2. nella specie, per l’erronea indicazione del termine per impugnare non è prevista alcuna sanzione nè risulta che la M., ritenendosi tenuta a rispettare un termine erroneamente indicato, sia stata in concreto pregiudicata nel suo diritto alla difesa;

12. in conclusione il ricorso deve essere rigettato;

13. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

14. deve darsi atto della sussistenza delle condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2019

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