Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31382 del 02/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 02/12/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 02/12/2019), n.31382

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9589/2015 proposto da:

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE,

199, presso lo studio dell’avvocato ANTONIETTA GIANNUZZI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONELLI 27,

presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA UBALDI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MASSIMO DALMONTE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1622/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 24/11/2014 R.G.N. 108/2007.

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Ravenna che aveva rigettato le domande avanzate da S.F. – di pagamento delle differenze provvigionali e della conseguente maggiore indennità di fine gestione e di incremento portafoglio – in relazione al rapporto di subagenzia intercorso con C.V., agente generale di AXA Assicurazioni dal 1.1.1996 al 31.10.2004.

2. In esito ad una consulenza tesa ad accertare l’effettiva consistenza del portafoglio assicurativo assegnato al subagente all’inizio del rapporto rispetto al concreto più ridotto volume, causa di minori incassi, oltre che alla sua conoscibilità, il giudice di appello ha ritenuto che l’istruttoria avesse confermato che le variazioni intervenute nel 1997 delle aliquote provvigionali su alcuni prodotti assicurativi erano state comunicate al subagente e che le stesse non richiedevano di essere effettuate in forma scritta. Inoltre ha osservato che il subagente, per effetto delle modifiche apportate al contratto, ben avrebbe potuto recedere dallo stesso e che, non avendolo fatto per lungo tempo, aveva, con comportamento concludente, accettato le modifiche unilateralmente apportate. Ha poi ritenuto che, correttamente, era stata esclusa l’indennità di incremento portafoglio richiesta evidenziando che il subagente non aveva rispettato una delle condizioni contrattuali previste per il suo riconoscimento consistente nell’impegno a non operare direttamente o indirettamente nel settore assicurativo nei tre anni successivi. Quanto alla misura del portafoglio clienti, rivelatasi inferiore rispetto a quella convenuta, il giudice di appello nel confermare la sentenza di primo grado ha osservato che la Tabella B allegata alla lettera di incarico non poteva essere interpretata nei termini proposti atteso che, in mancanza di ulteriori elementi di riscontro, ciò che risultava era che le cifre indicate erano accompagnate dalla dicitura “circa” e “da verificare” sicchè dovevano essere ritenute puramente indicative. Significativamente infatti nessuna due diligence era stata disposta al momento del conferimento dell’incarico ed il subagente era rimasto acquiescente per oltre sette anni. Quanto alla domanda di ricalcolo dell’indennità di fine gestione, la Corte l’ha ritenuta assorbita dalla reiezione delle altre domande.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso S.F. che articola sette motivi ai quali resiste con controricorso C.V.. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1230 e 1231 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

4.1. Sostiene il ricorrente che la Corte avrebbe erroneamente avvalorato la novazione unilaterale del rapporto per effetto di un comportamento acquiescente del subagente laddove, invece, nella specie non è riscontrabile nè l’aliquid novi – essendo stato mutato unilateralmente solo il corrispettivo e non l’oggetto o il titolo del rapporto – nè l’animus novandi, poichè la mera acquiescenza non può essere qualificata come espressione della volontà di aderire alla modifica unilateralmente apportata. Sottolinea che sul ricorrente non gravava nessun onere di manifestare il proprio dissenso dalla modifica apportata unilateralmente, essendo questi tenuto solo a salvaguardare il suo credito dalla prescrizione.

5. Il motivo deve essere rigettato.

5.1. Va rammentato che la novazione oggettiva del rapporto obbligatorio postula il mutamento dell’oggetto o del titolo della prestazione ai sensi dell’art. 1230 c.c.. Questa infatti non è ricollegabile a mere modificazioni accessorie di cui all’art. 1231 c.c. e deve essere connotata dall’aliquid novi e dall’animus novandi (inteso come manifestazione inequivoca dell’intento novativo) e dalla causa novandi (intesa come interesse comune delle parti all’effetto novativo). Ove il giudice di merito abbia proceduto all’accertamento di questi tre elementi (volontà, causa ed oggetto del negozio) tale ricostruzione non è censurabile in cassazione (cfr. Cass. 29/10/2018 n. 27390, 09/03/2010 n. 5665, 26/02/2009 n. 4670). Tanto premesso rileva il Collegio che la Corte territoriale ha accertato che al tempo della comunicazione delle modifiche che investivano uno degli elementi essenziali del contratto (la provvigione) non era richiesta nè ad substantiam nè ad probationem la forma scritta; ha quindi verificato che la comunicazione era effettivamente intervenuta; ha poi ravvisato l’animus e la causa novandi nella condotta acquiescente protrattasi per un consistente arco temporale nel corso del quale il rapporto si era protratto alle nuove condizioni.

5.2. Si tratta di ricostruzione dei fatti che non incorre nelle violazioni denunciate ed anzi, conformemente ai principi richiamati, la Corte ha proceduto alla verifica della sussistenza degli elementi concreti e di quegli atti inequivoci, nel comportamento delle parti, dai quali ricostruire la volontà delle parti e configurare la novazione del rapporto.

6. Con il secondo motivo di ricorso S.F. deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo trascurato di prendere in esame una serie di documenti dai quali si evinceva che nessuna acquiescenza era ravvisabile nella condotta tenuta dal subagente.

7. La censura è inammissibile. Il ricorrente trascura di riportare il contenuto dei documenti che assume essere decisivi. In maniera del tutto generica si limita ad indicare la loro collocazione negli atti e ne espone una sintesi dalla quale non è possibile comprenderne l’esatto contenuto.

8. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 1742 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Sostiene il ricorrente che avrebbe errato il giudice di appello nel ritenere che l’unica reazione possibile alla unilaterale modifica delle condizioni del rapporto era la risoluzione per giusta causa dello stesso. Osserva che il subagente che aveva interesse alla prosecuzione del rapporto ben poteva invece rivendicare l’esatto adempimento del contratto.

9. La censura è infondata.

9.1. E’ vero che a fronte della modifica unilaterale del rapporto la parte avrebbe potuto pretendere l’esatto adempimento della prestazione denunciando la modifica stessa ma la censura non attinge esattamente al senso della motivazione. La Corte di merito ha desunto la volontà di aderire alla modifica da due circostanze: la scelta di proseguire nel rapporto e la mancata denuncia per oltre sette anni di quello che il subagente configura come un inadempimento alle obbligazioni contrattuali. Tale comportamento concludente complessivamente valutato è stato ritenuto idoneo ad integrare l’adesione alla modifica del contratto e sotto questo profilo la ricostruzione del giudice di appello non è stata censurata.

10. Con il quarto motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1751 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che, sebbene effettivamente nel periodo di vigenza del rapporto non esisteva un A.E.C. che lo regolasse, tuttavia, proprio per tale ragione, al subagente dovevano trovare applicazione le disposizioni previste per il rapporrto di agenzia. Inoltre sottolinea che comunque anche in assenza di una previsione normativa apposita, nel rispetto dell’AEC del 20.1.1956 e della direttiva 86/653/Ce direttamente efficace, la forma scritta era necessaria ad probationem. Conseguentemente le modifiche unilaterali adottate senza forma scritta erano inefficaci ed i compensi ben potevano essere chiesti e riconosciuti nel rispetto del termine di prescrizione.

11. La censura è infondata.

11.1. Se infatti l’art. 1751 c.c., trova applicazione anche ai sub agenti (cfr. al riguardo Cass. 14/02/2006 n. 3196) tuttavia nella fattispecie in esame ciò di cui si discute non è tanto il diritto del sub agente a vedersi riconosciuta l’indennità di fine rapporto quanto piuttosto il suo diritto alle provvigioni corrispondenti a quelle originariamente fissate, e non nella misura poi ridotta, e degli evidenti riflessi di tale accertamento sull’indennità di fine rapporto reclamata. Una volta accertata la legittimità della modifica apportata al contratto non vi è più questione circa il diritto all’indennità che non poteva che essere calcolato se non sulla base delle provvigioni effettivamente spettanti.

12. Con il quinto motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1366 e 1371 c.c., con riguardo al riconoscimento dell’indennità pattizia di incremento portafoglio che si assume essere stata erroneamente interpretata dalla Corte di appello. Sostiene infatti il ricorrente che nel caso concreto il sub agente non aveva svolto attività in concorrenza, in violazione del patto apposto al contratto, nè non vi era stato sviamento di clientela, atteso che l’agente C. era andato in pensione e l’attività dello S. era proseguita in favore del soggetto che aveva acquisito il portafoglio dell’agente. Con il sesto motivo poi si deduce che, sempre con riguardo all’accertamento del diritto a percepire l’indennità di portafoglio, la

violazione dell’art. 1751 c.c., assumendosi che era dimostrato un incremento in favore del C. di Euro 100.000,00 e che, perciò, lo S. avrebbe avuto diritto a percepire la relativa indennità.

13. Le censure devono essere esaminate congiuntamente, in quanto dall’accoglimento della prima consegue la fondatezza della seconda, e sono destituite di fondamento.

13.1. Va infatti rilevato che il ricorrente, pur denunciando l’errata interpretazione del patto di non concorrenza al quale era stato subordinato il riconoscimento dell’indennità di portafoglio, ha tuttavia trascurato di riprodurre per esteso il contenuto della clausola che si assume essere stata erroneamente interpretata così incorrendo nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6 e nella declaratoria di inammissibilità della prima censura. Ferma l’interpretazione data alla clausola dalla Corte di appello, correttamente si è escluso il diritto all’indennità condizionato all’accertamento dell’insussistenza del patto o della sua concreta violazione.

14. L’ultimo motivo di ricorso, con il quale si denuncia la violazione da parte del giudice di appello degli artt. 1362 e 1366 c.c., nell’interpretare la clausola contrattuale che aveva stabilito il valore del portafoglio clienti, è inammissibile poichè, ancora una volta, il ricorrente trascura di riprodurre il contenuto delle clausole di cui si lamenta l’errata interpretazione e dei passi salienti della consulenza contabile che, ad avviso del ricorrente, le avrebbero correttamente interpretate.

15. In conclusione per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto infine della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che ssi liquidano in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per speese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2019

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