Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3134 del 10/02/2020

Cassazione civile sez. III, 10/02/2020, (ud. 24/10/2019, dep. 10/02/2020), n.3134

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15872/2018 proposto da:

S.M., Q.A., S.S., SORRISI SAS DI

S.S. E C., in persona del socio accomandatario

S.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TACITO, 10, presso lo

studio dell’avvocato ROBERTO SANTUCCI, che li rappresenta e difende

unitamente agli avvocati MAURO NEBIOLO VIETTI, MARCO D’ARRIGO,

ORESTE CAGNASSO;

– ricorrenti –

contro

SA.FR., IET SNC in persona del socio amministratore e legale

rappresentante SA.FR., P.M.A.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLE QUATTRO FONTANE 20,

presso lo studio dell’avvocato ANTONIO AURICCHIO, che li rappresenta

e difende unitamente all’avvocato LUCA JEANTET;

– controricorrenti –

e contro

SA.FR., P.M.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2538/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 28/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/10/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Sorrisi S.a.s., Q.A., S.M. e S.S. ricorrono, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 2358/17, del 13 settembre 2017, della Corte di Appello di Torino, che ha dichiarato inammissibile il gravame principale esperito dagli odierni ricorrenti contro la sentenza n. 1084/16, del 22 febbraio 2016, del Tribunale di Torino (accogliendo, invece, quello incidentale proposto, in punto spese di lite, da Sa.Fr., P.M.A. e la società I.E.T. S.n.c.), sentenza di primo grado che aveva rigettato integralmente la domanda proposta dagli odierni ricorrenti.

Tale domanda, in particolare, era volta ad ottenere, in via di principalità, la declaratoria di nullità, per difetto di forma scritta, del negozio fiduciario concluso con la società I.E.T., con condanna della stessa e di Sa.Fr. a restituire agli allora attori le somme percepite indebitamente, ovvero, in via di subordine, la condanna dei medesimi soggetti, in solido, a rimborsare le spese e/o risarcire i danni subiti nell’esecuzione dell’incarico di mandatari senza rappresentanza, ovvero, in via di ulteriore subordine, dichiarare tenuta e condannare P.A. alla restituzione di quanto percepito a titolo di arricchimento senza giusta causa.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti che la presente controversia ha tratto origine dalla richiesta formulata – nei confronti di S.S. e M., nonchè di Q.A. da Sa.Fr., nella veste di amministratore della società I.E.T., di subentrare in un contratto di leasing immobiliare avente ad oggetto un capannone sito in (OMISSIS), del quale la società I.E.T. temeva di perdere la disponibilità (e con essa, il capitale investito fino a quel momento), a causa di una possibile azione di risoluzione per inadempimento da parte del concedente, non avendo l’utilizzatrice più corrisposto i canoni da oltre un anno. L’accordo, peraltro, prevedeva pure che – successivamente alla cessione del contratto, effettivamente avvenuta in favore della società Sorrisi (della quale i S. e la Q. erano soci), nonchè al riscatto del bene da parte della cessionaria, avvenuto sulla base di provvista fornita, in parte, dalla P. – il bene fosse rivenduto alla società I.E.T., con restituzione ad essa del prezzo di acquisto. Operazione, peraltro, condotta a termine, secondo i ricorrenti, con corresponsione del prezzo di acquisto al Sa. e alla P..

Poichè, tuttavia, all’esito dell’operazione si determinava una plusvalenza a carico della Sorrisi, e dunque un maggior debito tributario della stessa, del relativo importo veniva inutilmente chiesto il ristoro alla società I.E.T., al Sa. e alla P., unitamente al pagamento del compenso spettante agli odierni ricorrenti a titolo di mandatari senza rappresentanza per l’operazione posta in essere. Inoltre, poichè la P. sarebbe stata la beneficiaria delle liquidità ricavate dalla stessa, gli odierni ricorrenti agivano, come detto, nei suoi confronti, in via di ulteriore subordine, ai sensi dell’art. 2041 c.c..

Nella costituzione del Sa., della P. e della società I.E.T. (secondo i quali l’operazione sarebbe stata, invece, proposta dalla società Sorrisi, che almeno inizialmente intendeva fare del capannone la sede della propria attività, salvo poi mutare avviso e decidere di trasferire l’immobile a terzi), l’adito Tribunale di Torino rigettava ogni domanda attorea.

A tele esito perveniva escludendo, innanzitutto, esservi prova della conclusione del negozio fiduciario, riservando identica sorte alla domanda di rimborso e/o risarcimento del danno, in assenza di riscontri istruttori circa l’avvenuta stipula di un contratto di mandato, respingendo, infine, anche la domanda di arricchimento senza causa esperita verso la P., per l’assenza dei relativi presupposti.

Proposto gravame dagli attori soccombenti, lo stesso veniva dichiarato inammissibile per difetto di autosufficienza dei motivi, mentre veniva accolto l’appello incidentale del Sa., della P. e della società I.E.T., con il quale essi lamentavano la disposta compensazione delle spese del primo grado di giudizio.

3. Avverso la sentenza della Corte torinese ricorrono per cassazione la società Sorrisi, la Q. e gli S., sulla base come detto – di cinque motivi.

3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione alla asserita mancata autosufficienza del primo motivo di appello, con (il quale era stata dedotta “erronea applicazione degli artt. 2721,2726 c.c.”).

I ricorrenti censurano la sentenza impugnata laddove ha ritenuto non assistito da “autosufficienza”, asseritamente imposta dall’art. 342 c.p.c., il primo motivo di appello, con il quale era stata censurata la decisione del Tribunale, sia nella parte in cui affermava che gli attori non avevano offerto prova dell’avvenuta conclusione di un negozio fiduciario o di un mandato (anche alla luce del fatto che non era stata prodotta una scrittura privata attestante la conclusione del negozio), sia in relazione alla mancata ammissione della prova testimoniale articolata sul punto, decisione che si stigmatizzava essere avvenuta in assenza di un’eccezione di inammissibilità formulata dai convenuti.

Rammentano, al riguardo, i ricorrenti come il giudizio di appello non debba intendersi a critica vincolata, ponendosi piuttosto alla stregua di una “revisio prioris istantiae”, come anche confermato dal recente arresto delle Sezioni Unite di questa Corte in ordine all’esatta interpretazione dell’art. 342 c.p.c. (è citata Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01). Sottolineano, inoltre, i ricorrenti come il motivo contenesse una specifica censura, essendosi esposte le ragioni che denoterebbero la illogicità della ricostruzione avversaria (secondo cui la società Sorrisi avrebbe comperato il capannone per esercitare la propria attività, rendendosi conto solo successivamente che la sede non era sufficiente all’espletamento della propria attività produttiva), nonchè quelle per le quali si sarebbe dovuta ammettere la richiesta prova testimoniale.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione al primo motivo di appello.

Fermo quanto dedotto con il primo motivo di ricorso, si sottolinea come la circostanza relativa all’incasso del prezzo di acquisto del capannone non fosse stata oggetto di decisione da parte della Corte territoriale, “anche se essa pare averla esaminata e ritenuta rilevante”.

Si tratterebbe di circostanza decisiva, perchè denoterebbe come la società Sorrisi non trasse alcun beneficio dall’operazione posta in essere, mentre la stessa permise alla società I.E.T. e ai suoi soci di realizzare un doppio scopo: da un lato, evitare la risoluzione del contratto di leasing (e poi alienare l’immobile oggetto dello stesso a terzi), dall’altro, evitare di dividere con il socio V.C. le plusvalenze conseguenti, circostanze ambedue oggetto della prova testimoniale non ammessa.

3.3. Il terzo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione alla asserita mancata autosufficienza del secondo motivo di appello, concernente l’ammissibilità “dell’azione di arricchimento nei confronti di P.A.”.

Sulla scorta delle stesse argomentazioni utilizzate nella illustrazione del primo motivo del presente ricorso, si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto privo di autosufficienza anche tale motivo di gravame, laddove, invece, le ragioni della ammissibilità dell’azione ex art. 2041 c.c., sarebbero state adeguatamente esplicitate.

4. Il quarto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione delle norme di diritto in relazione al secondo motivo di appello.

In questo caso si lamenta che la sentenza impugnata avrebbe falsamente applicato il principio, consolidato, secondo cui la proponibilità dell’azione di indebito arricchimento, in relazione al requisito della sussidiarietà, postula semplicemente che non sia prevista nell’ordinamento alcuna azione tipica a tutela di colui che lamenti il depauperamento, ovvero che la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza “ab origine” dell’azione proposta. Tale ultima ipotesi, in particolare, sarebbe quella sussistente nel caso in esame, visto che l’elargizione patrimoniale effettuata in favore della P. non sarebbe riconducibile nell’ambito delle obbligazioni naturali, nè degli atti liberali, nè di un’obbligazione contrattuale o extracontrattuale, dal momento che ella non è stata convenuta in giudizio per un inadempimento ad un mandato professionale o perchè abbia tenuto una condotta illecita, bensì perchè avrebbe percepito, senza alcuna giustificazione giuridica, somme di provenienza della I.E.T..

3.5. Il quinto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione delle norme di diritto in relazione all’art. 92 c.p.c..

Ci si duole del fatto che, nell’accogliere il motivo di gravame incidentale relativo alla disposta compensazione delle spese del primo grado di giudizio, il giudice di appello avrebbe disatteso quell’interpretazione dell’art. 92 c.p.c., proposta da questa Corte, che individua nella stessa una “norma elastica”.

In particolare, si sottolinea come del tutto condivisibile fosse l’argomento utilizzato dal primo giudice per concludere nel senso della compensazione delle spese di lite, ovvero che la P. non avesse preso posizione sull’incasso degli assegni emessi dalla società Sorrisi.

4. Hanno proposto controricorso il Sa., la P. e la I.E.T., per resistere all’avversaria impugnazione.

I controricorrenti eccepiscono, innanzitutto, l’inammissibilità dei motivi di ricorso, perchè tutti si risolverebbero, nella sostanza, nella richiesta di un nuovo, non consentito, esame del merito della controversia.

In ogni caso, i motivi sarebbero non fondati, giacchè la Corte torinese avrebbe adeguatamente illustrato le ragioni per le quali, in definitiva, ha ritenuto di disattendere i motivi di gravame proposti allora dagli odierni ricorrenti.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto, nei termini di seguito precisati.

6.1. In particolare, il primo ed il terzo motivo di ricorso sono fondati.

6.1.1. Al riguardo, deve preliminarmente evidenziarsi che la Corte territoriale, sebbene abbia illustrato le ragioni per le quali non ha reputato condivisibili i due motivi di gravame allora proposti dagli odierni ricorrenti, ha poi concluso – come conferma il dispositivo della sentenza impugnata – per la declaratoria di inammissibilità degli stessi, in ragione di un (invero, non previsto) “difetto di a utosufficienza”.

Questa è, pertanto, la sola “ratio decidendi” esaminabile in questa sede, se è vero che la parte soccombente – quando il giudice, “dopo una statuizione di inammissibilità con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito”, non ha “l’onere nè l’interesse ad impugnare” le stesse, sicchè “è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata” (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2007, n. 3840, Rv. 595555-01; nello stesso, da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 2 maggio 2011, n. 9647, Rv. 616900; Cass. Sez. Un., sent. 17 giugno 2013, n. 15122, Rv. 626812-01; Cass. Sez. 3, sent. 20 agosto 2015, n. 17004, Rv. 636624-01; Cass. Sez. 6-5, ord. 9 dicembre 2017, n. 30393, Rv. 646988-01).

6.1.2. Ciò detto, l’affermazione relativa al (preteso) difetto di autosufficienza dei motivi non tiene effettivamente conto che il requisito ex art. 342 c.p.c., va interpretato nel senso che “l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01).

Su tali basi, pertanto, è stato di recente rimarcato che “l’appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è un giudizio sul rapporto controverso e non sulla correttezza della sentenza impugnata”, sicchè “rispetto ad esso non è quindi concepibile alcun rapporto di autosufficienza ma solo di specificità” (Cass. Sez. 3, ord. 20 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01).

Come è stato affermato da questa Corte, quello di “appello resta un giudizio di merito pieno, sul rapporto dedotto in giudizio, sia pure nei limiti dei motivi proposti dall’appellante”, sicchè la “Corte d’appello, entro tali limiti, è chiamata a stabilire se la pretesa dell’attore sia fondata, non se il Tribunale abbia correttamente applicato la legge”, non potendo invocarsi, in senso contrario l’affermazione – già compiuta, in passato, dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 8 febbraio 2013, n. 3033, Rv. 625141-01) – secondo cui esso non costituisce un “novum judicium”, giacchè le Sezioni Unite, in questo modo, “non hanno affatto inteso sostenere che esso fosse un giudizio a critica vincolata, ma compirono quell’affermazione al limitato fine di stabilire come si ripartisse l’onere della prova in appello, e comunque ribadendo che la natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio d’appello impedisce all’appellante di impugnare la sentenza di primo grado limitandosi ad una denuncia generica dell’ingiustizia della sentenza, ma non trasforma il sindacato sul rapporto in un sindacato sull’atto impugnato”, sicchè proprio da “questi principi deriva, in primo luogo, che rispetto all’atto d’appello non è concepibile alcun requisito di “autosufficienza” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2016, n. 6978).

Un’affermazione, questa, peraltro non nuova, essendosi già in passato ritenuto che la mancata previsione, per l’appello, del requisito dell’autosufficienza, comporta che il gravame “non esige una parte espositiva formalmente autonoma ed unitaria”, giacchè essa, “in quanto funzionale all’individuazione delle censure mosse dall’appellante, può emergere anche indirettamente dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di impugnazione, ove questi forniscano gli elementi idonei a consentire l’individuazione dell’oggetto della controversia e delle ragioni del gravame” (Cass. Sez. Lav., sent. 20 agosto 2004, n. 16422, Rv. 576181-01), ed inoltre che, “stante la mancanza nell’appello di un principio di autosufficienza”, risulta “ammissibile anche una integrazione dei motivi mediante un rinvio circostanziato ai singoli atti del processo (che si presumono noti)”, ferma restando, beninteso la necessità che “l’insieme degli elementi forniti dall’appellante, o direttamente o “per relationem”, si contrapponga al contenuto della decisione impugnata e consenta la individuazione non solo dell’ambito del “devolutum” ma anche delle ragioni del gravame” (Cass. Sez. Lav., sent. 1 dicembre 2005, n. 26192, Rv. 585633-01).

Di qui, dunque, la fondatezza del primo e terzo motivo (e l’assorbimento del secondo, del quarto e del quinto).

7. Le spese del presente giudizio saranno definite all’esito del giudizio di rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, dichiarando assorbiti i restanti, e cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, perchè decida nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020

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