Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3133 del 10/02/2020

Cassazione civile sez. III, 10/02/2020, (ud. 24/10/2019, dep. 10/02/2020), n.3133

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14319/2018 proposto da:

S.P., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

ANDREA DE CESARIS;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA SPA, nella persona del Dott.

T.L. nella qualità di responsabile del Settore Dipartimentale

Legale Toscana, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE II 326, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO

SCOGNAMIGLIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

RAFFAELE DE LUCA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 797/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 07/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/10/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. S.P. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 797/17, del 7 aprile 2017, della Corte di Appello di Firenze, che – respingendo il gravame esperito dall’odierno ricorrente contro la sentenza n. 3/08, del 2 gennaio 2008, del Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello – ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria proposta dallo S. nei confronti della società Monte dei Paschi di Siena S.p.a. (d’ora in poi, “Monte dei Paschi”) in relazione alla segnalazione del suo nominativo alla centrale rischi della Banca d’Italia.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver rilevato, nel giugno 1999, alcuni strani movimenti sul proprio conto corrente bancario, tra i quali, in particolare, un addebito di Lire 780.445, apprendendo così, dopo aver richiesto informazioni, che a suo nome sarebbe stato concesso un finanziamento di lire trenta milioni per l’acquisto di un’autovettura. Di conseguenza, egli, dopo aver presentato denuncia-querela presso la Procura della Repubblica di Viterbo nei confronti di tale M.M., direttore dell’agenzia di (OMISSIS) della Banca del Cimino presso (quale egli era correntista, per averne costui asseritamente falsificato la firma, lo S. informava di tale circostanza l’agenzia di (OMISSIS) del Monte dei Paschi, ovvero l’istituto erogatore del finanziamento. Ciononostante, Monte dei Paschi, atteso il mancato pagamento della rate di finanziamento in scadenza, aveva segnalato il suo nominativo, come detto, alla centrale rischi della Banca d’Italia.

Adito, pertanto, il Tribunale maremmano per ottenere il risarcimento del danno conseguito a tale condotta, il primo giudice rigettava la domanda, sul presupposto che dalla documentazione prodotta dalla parte convenuta, ed in particolare dalla copia della richiesta di finanziamento e della dichiarazione in calce ad essa sottoscritta dallo S., vi era conferma dell’avvenuta erogazione del finanziamento. Il primo giudice, infatti, evidenziava che l’attore non aveva proceduto a tempestivo disconoscimento della conformità delle copie prodotte agli originali, ovvero della propria sottoscrizione in calce alle stesse.

Esperito gravame dallo S., sul presupposto che il disconoscimento non richiederebbe alcuna formula sacramentale, bastando un’impugnazione dalla quale poter desumere la negazione dell’autenticità della propria sottoscrizione, lo stesso, in ogni caso, proponeva querela di falso dei seguenti documenti: richiesta di finanziamento; scrittura privata di compravendita intercorsa con il M.; dichiarazione del 12 aprile 1999 attestante la ricezione dalla banca del finanziamento, ed infine richiesta di addebito permanente presso Monte dei Paschi.

Nondimeno, il giudice di seconde cure rigettava l’appello, ritenendo la proposta querela di falso inammissibile, perchè irrilevante, giacchè; quand’anche fosse risultato accertato il carattere apocrifo delle firme dello S., la segnalazione alla centrale rischi avrebbe dovuto ritenersi comunque egualmente legittima. L’allora appellante, infatti, non aveva nè allegato, nè tentato di spiegare, come fosse possibile che la concessionaria automobilistica risultasse in possesso di un suo documento di identità e di una sua dichiarazione fiscale a corredo della pratica di finanziamento, in quanto la deposizione testimoniale del titolare della concessionaria, che riferì di aver portato direttamente la modulistica al M., che l’avrebbe poi riconsegnata riempita e firmata, non appariva sufficiente a colmare tale iato logico circa le modalità di acquisizione del documento d’identità e della dichiarazione fiscale dello S.. Senza tacere del fatto che l’interessato non avrebbe spiegato come mai non fu messo “in allarme” già dalla raccomandata del 9 aprile 1999 (a lui personalmente pervenuta il 16 aprile) con cui gli veniva comunicata l’erogazione del prestito.

3. Avverso la sentenza della Corte fiorentina ricorre per cassazione lo S., sulla base – come detto – di tre motivi.

3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – violazione degli artt. 221,222 c.p.c. e segg. e del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 117, oltre che dell’art. 1325 c.c., art. 1350 c.c., comma 1, n. 13), artt. 1418 e 1423 c.c., in relazione alla normativa di riferimento delle modalità di segnalazione alla centrale rischi presso la Banca d’Italia (citato D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 51,53,57 e 107), con particolare riferimento alle Deliberazioni adottate dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio il 16 maggio 1962 ed il 29 marzo 1994, oltre che alle istruzioni emanate dalla Banca d’Italia e trasfuse nella circolare del 11 febbraio 1991, n. 139 e successivi aggiornamenti.

Viene dedotto, altresì, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La sentenza impugnata viene censurata laddove, per le ragioni illustrate, ha affermato l’inammissibilità, per irrilevanza, della proposta querela di falso. Evidenzia, per contro, il ricorrente come l’eventuale accertamento del carattere apocrifo delle firme avrebbe come conseguenza la constatazione che il finanziamento è privo di forma scritta (prevista, invece, “ad substantiam” dalla normativa sopra richiamata), e come tale, dunque, nullo e privo di effetti, ciò che renderebbe di per sè illecito il comportamento dell’istituto di credito che ha proceduto alla segnalazione alla centrale rischi.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – violazione della normativa di riferimento delle modalità di segnalazione alla centrale rischi presso la Banca d’Italia (citato D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 51,53,57 e 107), con particolare riferimento alle deliberazioni adottate dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio il 16 maggio 1962 ed il 29 marzo 1994, del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 53, 144 e 145, oltre che alle istruzioni emanate dalla Banca d’Italia e trasfuse nella circolare del 11 febbraio 1991, n. 139 e successivi aggiornamenti.

Viene dedotto, altresì omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

In questo caso si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che, ai fini della legittimità della segnalazione effettuata, fosse sufficiente la presa d’atto del mancato pagamento di una sola delle 48 rate previste dal contratto di finanziamento. In questo modo, tuttavia, sarebbe stato disatteso il principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la segnalazione alla centrale rischi presuppone una valutazione negativa della situazione patrimoniale complessiva del soggetto, da apprezzarsi come deficitaria, ovvero come di grande difficoltà economica, non essendo all’uopo sufficiente la sola analisi dello specifico rapporto (o degli specifici rapporti) in corso di svolgimento tra l’istituto di credito segnalante ed il cliente, non potendo, invero, la segnalazione scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento.

3.3. Il terzo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5) – violazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 8-bis, convertito in L. 12 luglio 2011, n. 106, oltre che degli artt. 2043,2050,2056,1226 e 2697 c.c..

Viene dedotto, altresì omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

In questo caso la sentenza impugnata è censurata laddove afferma che, in ipotesi come quelle oggetto di giudizio, ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria vi deve essere prova sia del fatto, sia dell’evento, sia del nesso di consequenzialità intercorrente tra di essi, giacchè il danno da illegittimo trattamento di dati personali non può essere considerato “in re ipsa”, dovendo, al contrario, il pregiudizio morale o patrimoniale essere comunque provato da chi si assume danneggiato.

Il ricorrente deduce che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del fatto che il danno non patrimoniale, da illecita segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia, secondo un certo indirizzo giurisprudenziale, va considerato “in re ipsa” e che, comunque, sussiste una presunzione che l’avvenuta segnalazione provochi un pregiudizio ad alcuni diritti fondamentali dell’individuo, come la reputazione, l’onore, l’immagine sociale e professionale, di per sè risarcibile e da liquidarsi, poi, equitativamente. D’altra parte, quanto al ristoro del danno patrimoniale, si rileva come debba ritenersi consentito, anche in questo caso, il ricorso a presunzioni, soprattutto in relazione al danno da mancato guadagno e da perdita di chance. La documentazione in atti, infine, confermerebbe le difficoltà incontrate da esso S. nell’accesso al credito, successivamente all’avvenuta segnalazione.

4. Ha proposto controricorso il Monte dei Paschi, per resistere all’avversaria impugnazione.

Viene eccepita, innanzitutto, l’inammissibilità di tutti i motivi, in ragione della non consentita mescolanza di censure eterogenee.

Quanto, poi, al primo motivo, si rileva come la questione della nullità del contratto per difetto di forma scritta presenti carattere di novità, ciò che la rende, ulteriormente, inammissibile. Nè in senso contrario, secondo la controricorrente, si potrebbe richiamare il principio secondo cui la nullità contrattuale è rilevabile d’ufficio, giacchè, nel caso che occupa, la questione di nullità risulta prospettata al solo fine di giustificare l’ammissibilità della querela di falso, realizzando così una modificazione dell’impostazione difensiva data dallo S. nei giudizi di merito. D’altra parte, se lo scopo fosse realmente quello di dedurre la nullità del contratto di finanziamento per difetto di forma, ciò di cui il ricorrente avrebbe dovuto dolersi è il mancato rilievo officioso della stessa da parte della Corte di Appello, censura, questa, tuttavia, non proposta.

Del pari inammissibile sarebbe il secondo motivo di ricorso, nuovamente in ragione della sua novità, poichè l’odierno ricorrente, nelle precedenti fasi di giudizio, si è sempre solo doluto dell’inesistenza del contratto di finanziamento, da cui è derivata la propria esposizione debitoria, ma non del fatto che tale esposizione fosse inidonea a giustificare la segnalazione.

Il terzo motivo sarebbe, infine, anch’esso inammissibile, sia perchè privo di specificità, sia perchè non rispondente al disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), visto che il ricorrente non si sarebbe fatto carico di spiegare le ragioni per le quali la Corte di Appello ha ritenuto non idonea la documentazione da esso prodotta a dimostrare il nesso di causalità fra il diniego di accesso al credito da lui lamentato ed il comportamento della banca.

5. Il ricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando ai rilievi avversari.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. “In limine”, va esaminata – e disattesa – l’eccezione preliminare di inammissibilità, per mescolanza di censure eterogenee, dei tre motivi di ricorso.

6.1. Sul punto, infatti, va data continuità al principio secondo cui “il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (così Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01; in senso sostanzialmente analogo, sebbene “a contrario”, si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 17 marzo 2017, n. 7009, Rv. 643681-01).

7. Ciò detto, il ricorso va rigettato.

7.1. Il primo motivo – pur in astratto rilevante – è inammissibile, visto che il ricorrente non ha soddisfatto la condizione di ammissibilità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

7.1.1. La censura articolata – sotto più profili, come detto – dallo S., stigmatizza la valutazione della Corte territoriale sulla assenza di “concreta utilità” – ovvero, di “rilevanza”, ex art. 222 c.p.c. – della proposta querela di falso.

Per vero, la motivazione addotta dal giudice di appello, giacchè tutta incentrata su argomenti volti a mettere in dubbio il carattere apocrifo della firma apposta in calce al contratto di finanziamento (se non, addirittura, ad accreditarne “tout court” l’autenticità), e dunque ad operare una sorta di “prognosi” sull’esito del giudizio di falso, non è linea con la giurisprudenza di questa Corte. In base ad essa, infatti, in caso di proposizione della querela di falso in via incidentale, “il giudice di merito” – omessa ogni valutazione sulla fondatezza dell’iniziativa – “deve esaminare se i mezzi di prova offerti sono idonei, astrattamente considerati ed indipendentemente dal loro esito, a privare di efficacia probatoria il documento impugnato” (Cass. Sez. Lav., sent. 1 dicembre 2008, n. 28514, Rv. 605746-01), secondo un apprezzamento che “valuta rilevante il documento in funzione della sentenza attinente al giudizio di merito” (Cass. Sez. 2, sent. 28 maggio 2007, n. 12399, Rv. 597512-01), dovendo, in particolare, escludersi la rilevanza del documento “ove questo non abbia o non possa avere influenza sulla decisione della controversia in corso” (Cass. Sez. 3, sent. 26 aprile 1968, n. 1293, Rv. 332861-01).

Nel caso di specie, per contro, il difetto di (autentica) sottoscrizione in calce al contratto di finanziamento appare, circostanza – astrattamente – dotata di rilievo, visto che il ricorrente assume di aver comunicato a Monte dei Paschi l’avvenuta presentazione della denuncia/querela, con la quale aveva reso edotta l’autorità giudiziaria penale del carattere apocrifo di tale firma. Su un piano astratto, dunque, la verifica della non genuinità della sottoscrizione si pone come elemento idoneo a confermare il carattere non pretestuoso della comunicazione all’istituto di credito e, dunque, renderebbe necessario interrogarsi sulla liceità della condotta dello stesso, consistita nell’ignorarla e nel dare egualmente corso alla segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia.

Nondimeno, la censura – come anticipato – è da ritenersi inammissibile, giacchè nel prospettarla il ricorrente avrebbe dovuto meglio circostanziare, nel proprio atto di impugnazione, non solo le modalità temporali e contenutistiche della suddetta denuncia-querela e della sua comunicazione a Monte dei Paschi (giacchè solo la tempestività di quest’ultima potrebbe conferire carattere illecito alla segnalazione dell’istituto di credito), ma anche riprodurre, sebbene nella misura sufficiente a consentirne a questa Corte l’autonomo apprezzamento, gli atti defensionali del giudizio nei quali esso S. ebbe ad allegare tale circostanza.

Di qui, dunque, la riscontrata violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

7.2. Il secondo motivo è, del pari, inammissibile.

7.2.1. Dalla lettura della sentenza impugnata non vi è traccia del fatto che, nel giudizio di appello, si sia affrontato il tema relativo alla possibilità di ritenere integrato lo “stato di insolvenza”, idoneo a giustificare la segnalazione, nel solo fatto del mancato pagamento di appena una delle 48 rate del contratto di finanziamento.

Di conseguenza, va qui richiamato il principio secondo cui, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02).

7.3. Il terzo motivo è, invece, in parte non fondato e in parte inammissibile.

7.3.1. La sentenza impugnata si è uniformata – in relazione al mancato ristoro del danno non patrimoniale lamentato dallo S. all’indirizzo espresso da questa Corte e secondo cui, in “materia di responsabilità civile, il danno all’immagine ed alla reputazione (nella specie, “per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi”), in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento” (Cass. Sez. 6-3, ord. 28 marzo 2018, n. 7594, Rv. 648443-01).

Del resto, e più in generale, questa Corte ha sottolineato come il danno non patrimoniale “determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU” (al quale lo stesso ricorrente ricollega la pretesa a non subire segnalazioni alla centrale rischi in difetto dei presupposti normativamente stabiliti), “non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicchè determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva”, secondo un “accertamento di fatto” che “è rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale” (Cass. Sez. 3, sent. 15 luglio 2014, n. 16133, Rv. 632536-01).

Quanto, invece, al danno patrimoniale da segnalazione indebita, è vero che esso può essere oggetto anche di prova presuntiva (che, nel caso di un imprenditore, ma non vi è allegazione e prova che lo S. lo sia, può investire “un peggioramento della sua affidabilità commerciale, essenziale anche per l’ottenimento e la conservazione dei finanziamenti, con lesione del diritto ad operare sul mercato secondo le regole della libera concorrenza”; così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 9 luglio 2014, n. 15609, Rv. 631843-01), potendo consistere, per un qualsiasi altro soggetto, anche nella dimostrazione della maggiore difficoltà nell’accesso al credito.

Tuttavia, nel caso oggi in esame, la Corte fiorentina ha ritenuto che la documentazione prodotta dall’odierno ricorrente “in punto di diniego di accesso al credito” non consentisse di affermare che tale evenienza si fosse posta “quale conseguenza immediata e diretta della segnalazione”. Non casualmente, pertanto, il ricorrente lamenta – anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’assenza di adeguata motivazione sul perchè i documenti da esso prodotti non sarebbero idonei a fornire tale prova.

7.3.2. Tuttavia, neppure riguardato sotto questo profilo il motivo può essere accolto, presentandosi, anzi inammissibile.

E ciò non solo in applicazione del principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4) – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458), ma anche in ragione della “inammissibilità di censure”, che “evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello ma in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito, oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato dalla Corte d’appello, il vario insieme dei materiali di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 21 ottobre 2015, n. 21439, Rv. 637497-01).

8. Le spese seguono la soccombenza e vanno, essendo pertanto poste a carico del ricorrente e liquidate come da dispositivo.

9. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condannando S.P. a rifondere alla società Monte dei Paschi di Siena S.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 6.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, più spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020

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