Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31313 del 29/11/2019

Cassazione civile sez. II, 29/11/2019, (ud. 26/06/2019, dep. 29/11/2019), n.31313

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20874/2015 proposto da:

S.R., e P.D., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA MALCESINE n. 30, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI

PORCELLI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FLAVIO SFREGOLA;

– ricorrenti –

contro

COFIM IMMOBILIARE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZZA G. MAZZINI n. 8,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA CRIMI, rappresentato e

difeso dall’avvocato LEONARDO RUSSI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 570/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 03/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/06/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIOVANNI PORCELLI per parte ricorrente, che ha

concluso per l’accoglimento, e l’avvocato FRANCESCO CRIMI per delega

dell’avvocato LEONARDO RUSSI per parte controricorrente, il quale ha

concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 7.5.2009 la COFIM IMMOBILIARE Srl evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Milano P.D., S.R., C.R. e M.M., per sentir dichiarare che la compravendita dell’immobile sito in (OMISSIS), di proprietà del P. e della S. ed acquistato dal C. e dalla M., si era realizzata grazie all’attività di mediazione svolta dalla società attrice. Per l’effetto, invocava la condanna del P. e della S. al pagamento della somma di Euro 6.168,00 e del C. e della M. al pagamento della somma di Euro 9.252,00. Si costituivano da un lato i convenuti P. e S., e dall’altro i convenuti C. e M., resistendo alla domanda.

Con sentenza n. 11937/2013 il Tribunale dichiarava la carenza di legittimazione passiva dei convenuti C. e M. e respingeva la domanda svolta nei confronti di P. e S., condannando l’attrice alle spese e al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c..

Interponeva appello la COFIM e si costituivano in seconda istanza tutti gli appellati resistendo all’impugnazione.

Con la sentenza oggi impugnata n. 570/2015, resa nelle forme di cui all’art. 281 sexies c.p.c., la Corte di Appello di Milano riformava la sentenza di prime cure accogliendo la domanda svolta dalla società appellante e condannando i convenuti alle spese del doppio grado.

Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione P.D. e S.R. affidandosi a cinque motivi. Resiste con controricorso COFIM IMMOBILIARE S.r.l..

C.R. e M.M., intimati, non hanno svolto attività difensiva in questo giudizio.

La parte controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato la prova dell’efficienza causale dell’opera svolta dal mediatore in base ad un ragionamento presuntivo articolato su argomenti non coerenti con il risultato. In particolare, i ricorrenti ritengono che l’acquisto dell’immobile da parte della loro figlia a distanza di sette mesi dalla proposta in origine da loro formulata; la quasi contemporanea vendita – da parte dei genitori, usufruttuari, e della figlia stessa, nuda proprietaria – di alto immobile per acquisire la provvista necessaria a realizzare l’acquisto; la giovane età della figlia; ed infine il fatto che l’assegno per l’acconto versato al venditore provenisse dal medesimo carnet dal quale era stato staccato il titolo a corredo della proposta originariamente formulata dai genitori; non fossero elemento sufficienti a fondare il ragionamento presuntivo proposto dalla Corte territoriale.

La censura non è fondata.

Va innanzitutto ribadito che cui “Il procedimento che deve necessariamente seguirsi in tema di prova per presunzioni si articola in due momenti valutativi; in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi. E’ pertanto viziata da errore di diritto e censurabile in sede di legittimità – a tale sindacato sottraendosi l’apprezzamento circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte di presunzione e la loro concreta rispondenza ai requisiti di legge soltanto se il relativo giudizio non risulti viziato da illogicità o da erronei criteri giuridici – la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 19894 del 13/10/2005, Rv. 583806; conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 722 del 15/01/2007, Rv. 595998; Cass. Sez. U, Sentenza n. 584 del 11/01/2008, Rv. 600922; Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 10973 deI 05/05/2017, Rv. 643968; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 9059 deI 12/04/2018, Rv. 648589).

Nel caso di specie, la Corte di Appello ha enucleato una serie di elementi idonei a costituire la presunzione che la figlia degli odierni ricorrenti avesse deciso di acquistare l’immobile per effetto dell’opera di intermediazione svolta dall’agente di mediazione. Trattasi di elementi gravi, precisi e concordanti, a fronte dei quali i ricorrenti formulano censure soltanto generiche, senza indicare alcun indizio alternativo o fatto eventualmente trascurato dalla Corte di merito, la cui considerazione avrebbe potuto condurre ad un verdetto diverso da quello in concreto assunto dal giudice di seconde cure.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 97 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte milanese li avrebbe erroneamente condannati in solido alla refusione delle spese di giudizio e al pagamento del doppio contributo unificato, senza considerare che i due coniugi avevano proposto difese non omogenee tra loro.

La censura è inammissibile per difetto di specificità.

I ricorrenti infatti – che in appello hanno affidato la loro difesa ad un unico professionista ed hanno concluso tutti per il rigetto del gravame e la conferma della sentenza di prime cure – non indicano in quale misura le posizioni e le argomentazioni difensive di ciascuno di essi sarebbero divergenti. Nè appare decisiva l’unica differenza emergente dalla sentenza impugnata, rappresentata dal diverso importo cui sono stati condannati, rispettivamente, P. e S. – da un lato – e C. e M. – dall’altro lato, posto che tale circostanza non è di per sè sola sufficiente a far presumere una differente posizione processuale e che essa si spiega agevolmente con il fatto che ciascuna coppia aveva pattuito con il mediatore – come si ricava dalla lettura di pag. 10 della sentenza impugnata – una provvigione specifica, rispettivamente per la vendita e per l’acquisto del cespite immobiliare di cui è causa.

Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 e la violazione dell’art. 116 c.p.c., perchè la Corte ambrosiana non avrebbe tenuto conto delle dichiarazioni rese dal teste Pu.An., il quale avrebbe dichiarato di aver personalmente indirizzato C.J. ad acquistare l’immobile di cui si discute. Ad avviso dei ricorrenti, tale testimonianza dimostrerebbe l’assenza di efficienza causale dell’opera del mediatore immobiliare rispetto all’acquisto della predetta C.J..

La censura è inammissibile per diverse ma concorrenti ragioni.

Innanzitutto i ricorrenti non trascrivono neppure per stralcio la deposizione del teste Pu., con conseguente difetto di specificità del motivo in esame.

Inoltre, va ribadito il principio per cui “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).

Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè la Corte lombarda avrebbe erroneamente ritenuto di non dare ingresso alla querela di falso da essi sollevata, ritenendola superflua ai fini del decidere, senza fornire alcuna specifica motivazione sul punto e senza considerare che gli odierni ricorrenti avevano contestato tanto l’autenticità delle loro firme apposte sulla proroga dell’incarico al mediatore immobiliare, che l’abusiva correzione del termine di efficacia dell’originario incarico, che recava l’indicazione di una durata di sei mesi in luogo di quella vera di tre mesi.

Anche questa censura è inammissibile per difetto di specificità, non avendo i ricorrenti trascritto neanche in parte il documento, o i documenti, nel cui omesso esame sarebbe incorsa la Corte territoriale.

Peraltro con riferimento alla dedotta circostanza che il documento presentasse una durata non corrispondente al vero occorre ribadire il principio per cui “Il sottoscrittore che assuma, con querela di falso, che la sottoscrizione era stata apposta su foglio firmato in bianco ed abusivamente riempito ha l’onere di provare sia che la firma era stata apposta su foglio non ancora riempito, sia che il riempimento era avvenuto absque pactis” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3155 del 18/02/2004 Rv. 570241; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2524 del 07/02/2006, Rv. 586909; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5245 del 10/03/2006, Rv. 588253; Cass. Sez. U, Sentenza n. 5459 del 13/10/1980, Rv. 409331; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5417 del 07/03/2014, non massimata).

Infatti “La sottoscrizione di un documento integrante gli estremi della scrittura privata vale ex se, ai sensi dell’art. 2702 c.c., a ingenerare una presunzione iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione della paternità dello scritto, indipendentemente dal fatto che la dichiarazione non sia stata vergata o redatta dal sottoscrittore. Ne consegue che, se la parte contro la quale la scrittura sia stata prodotta ne riconosce la sottoscrizione (ovvero se quest’ultima debba aversi per riconosciuta), la scrittura fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, mentre il sottoscrittore che assuma, con querela di falso, che la sottoscrizione era stata apposta su foglio firmato in bianco ed abusivamente riempito, ha l’onere di provare sia che la firma era stata apposta su foglio non ancora riempito, sia che il riempimento era avvenuto absque pactis” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16007 del 24/10/2003, Rv. 567651).

La diversa disciplina prevista per il caso di riempimento absque pactis e di riempimento contra pacta si spiega perchè nella prima ipotesi l’abuso incide sulla provenienza e sulla riferibilità della dichiarazione al sottoscrittore, mentre nella seconda si traduce in una mera disfunzione interna del procedimento di formazione della dichiarazione medesima, in relazione allo strumento adottato – mandato ad scribendum – la quale implica soltanto la non corrispondenza tra ciò che risulta dichiarato e ciò che si intendeva dichiarare.

Con riferimento invece alla dedotta falsità della sottoscrizione sulla proroga della durata del mandato, va osservato che la Corte di Appello dà atto che il Tribunale aveva ritenuto, “… con statuizione non impugnata incidentalmente dagli appellati e quindi passata in giudicato, che l’incarico di mediazione era ancora in essere nel marzo 2008” (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata, lett. u). E, subito dopo, che C. e M. avevano formulato una proposta di acquisto il 10.3.2008 per l’importo di Euro 245.000 (cfr. lett. v).

I ricorrenti non attingono in modo specifico la ratio di cui alla richiamata lett. u, della decisione impugnata, non dimostrando di aver proposto impugnazione in relazione alla statuizione con cui il primo giudice aveva ritenuto efficace l’incarico di mediazione nel marzo 2008.

In proposito, va considerato che in caso di donazione indiretta tra genitori e figli – tale essendo la fattispecie delineata dalla Corte territoriale mediante il ragionamento presuntivo oggetto del primo motivo di ricorso – l’onere della prova è affievolito, posto che “Nella donazione indiretta realizzata attraverso l’acquisto del bene da parte di un soggetto con denaro messo a disposizione da altro soggetto per spirito di liberalità, l’attribuzione gratuita viene attuata con il negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere, differenziandosi in tal modo dalla simulazione; tale negozio produce, insieme all’effetto diretto che gli è proprio, anche quello indiretto relativo all’arricchimento del destinatario della liberalità, sicchè non trovano applicazione alla donazione indiretta i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono invece per il negozio tipico utilizzato allo scopo” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4015 del 27/02/2004, Rv. 570643; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1986 del 02/02/2016, Rv. 638784).

Ne consegue che, in base al ragionamento presuntivo proposto dalla Corte territoriale e già ricostruito in occasione della disamina del primo motivo, la circostanza che a marzo 2008 – quanto l’incarico era ancora efficace – i genitori della C.J. abbiano formulato una proposta di acquisto costituisce elemento sufficiente ai fini della prova dell’efficienza causale dell’opera del mediatore; con conseguente superfluità di qualsiasi verifica circa l’autenticità o la falsità della sottoscrizione apposta sulla proroga dell’incarico di cui anzidetto.

Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè la violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 111 Cost., per mancata esposizione dei motivi della decisione impugnata, perchè la Corte di Appello avrebbe elencato una serie di elementi di fatto ritenuti gravi e concordanti, omettendo del tutto qualsiasi argomentazione in diritto circa il ragionamento seguito per pervenire alla decisione in concreto adottata.

La censura non è fondata.

A prescindere dal fatto che gli stessi ricorrenti, con il primo motivo di ricorso, contestano il ragionamento presuntivo proposto dal giudice di merito – con ciò dimostrando di aver ben compreso l’iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale per pervenire alla decisione adottata – va evidenziato che la sentenza della Corte ambrosiana dà conto in modo adeguato del percorso argomentativo seguito dal giudice di merito. Essa infatti afferma che “… l’apprezzamento complessivo del quadro indiziario delineato alla stregua dei richiami che precedono (la cui valenza presuntiva è debolmente contestata dalla difesa delle parti appellate che pure giunge ad ammettere la dazione da parte dei coniugi C. – M. alla figlia del denaro necessario per l’acquisto) consente di ritenere pertinente alla fattispecie l’orientamento giurisprudenziale ribadito da Cass. n. 8676/2009” (cfr. pag. 9, lett. z, della sentenza impugnata).

In quel precedente, in particolare, questa Corte ha affermato il principio per cui “Il diritto alla provvigione consegue non alla conclusione del mediatore del negozio giuridico, ma dell’affare, inteso come qualsiasi operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti, anche se articolatasi in una concatenazione di più atti strumentali, purchè diretti nel loro complesso a realizzare un unico interesse economico, anche se con pluralità di soggetti: pertanto, la condizione perchè il predetto diritto sorga è l’identità dell’affare proposto con quello concluso, che non è esclusa quando le parti sostituiscano altri a sè nella stipulazione finale, sempre che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto in sede di stipulazione negoziale, e la conclusione dell’affare sia collegabile al contatto determinato dal mediatore tra le parti originarie, che sono tenute al pagamento della provvigione” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8676 del 09/04/2009, Rv. 607844, relativa ad un caso in cui il diritto alla provvigione è stato riconosciuto nonostante la parte messa in contatto per l’acquisto avesse poi concluso la vendita in comproprietà con il proprio coniuge; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21836 del 25/10/2010, Rv. 615141 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10833 del 16/05/2014, Rv. 631000).

Da quanto precede deriva che la Corte milanese ha adeguatamente indicato i termini del proprio iter logico-argomentativo, sostanzialmente articolatosi nella duplice configurazione di una donazione indiretta tra genitori e figlia, da un lato, e di una presunzione fondata su una serie di indizi gravi, precisi e concordanti, dall’altro lato.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, va dichiarata la sussistenza, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dei presupposti per l’obbligo di versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.700 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 26 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2019

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