Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31253 del 04/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 04/12/2018, (ud. 19/07/2018, dep. 04/12/2018), n.31253

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29022-2016 proposto da:

T.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 73,

presso lo studio dell’avvocato ROBERTO ZAZZA, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIUSEPPE MARIA VALENTI giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

R.A., R.M., RE.MA.,

R.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE PROVINCIE N.74

INT.12, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO DE MEO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNA FORTE giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

R.A., R.M., RE.MA.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4337/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/07/2018 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie depositate dalla ricorrente.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Latina nel pronunziare sulla domanda di scioglimento della comunione promossa da T.C. nei confronti della sorella T.T., dichiarava il bene comune non comodamente divisibile, assegnandolo per l’intero all’attrice, che era altresì condannata al pagamento dell’eccedenza in favore della convenuta, al netto di quanto scaturente dalla compensazione con un controcredito dell’attrice.

Avverso tale sentenza proponeva appello T.T. e la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 4337 del 6 luglio 2016 rigettava l’appello principale, accogliendo invece l’appello incidentale della originaria parte attrice.

A tal fine osservava che non poteva accedersi alla tesi dell’appellante secondo cui il bene era comodamente divisibile in natura, attenendosi alle indicazioni fornite dallo stesso CTU, atteso che le soluzioni suggerite dall’ausiliario si limitavano a prevedere in favore della convenuta lo scorporo della soffitta, le cui caratteristiche la rendevano però del tutto inidonea ad un utilizzo abitativo, trattandosi altresì di bene privo di identificativo catastale, di attacchi e scarichi, ed occorrendo tenere conto della funzione di isolamento del fabbricato che la stessa assolve.

Inoltre, corretta appariva la scelta di assegnare il bene all’attrice in quanto divenuta maggiore quotista per effetto dell’acquisto delle quote degli altri originari condividenti, avendo la giurisprudenza di legittimità chiarito la rilevanza ai fini dell’art. 720 c.c., anche delle modificazioni delle quote avvenute in pendenza della divisione.

Nè incideva su tale circostanza l’intervenuta morte dell’attrice, in quanto i suoi eredi erano subentrati nella titolarità della complessiva quota vantata dalla loro dante causa.

Non poteva trovare accoglimento la domanda di rivalutazione del conguaglio e di riconoscimento degli interessi, atteso che, pur trattandosi di un’obbligazione di valore, la rivalutazione presuppone che però sia intervenuto un mutamento di valore del bene che nemmeno era stato prospettato dall’appellante principale.

Meritava invece accoglimento il motivo di appello incidentale relativo alla misura del credito opposto in compensazione, dovendosi a tal fine tenere conto non solo della sorte capitale, ma anche degli interessi medio tempore maturati, sicchè, proprio in considerazione della misura degli interessi prodotti dal controcredito dell’attrice, andava anche ridotto l’importo del conguaglio.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso T.T. sulla base di cinque motivi.

R.R., R.A., R.M. e Re.Ma. hanno resistito con controricorso.

Il primo motivo di ricorso denunzia l’omessa disamina di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, nella parte in cui, confermandosi la non comoda divisibilità della comunione, si sarebbe trascurato quanto riferito dal CTU in ordine alla possibilità di fruizione autonoma della soffitta.

Ad avviso della Corte le doglianze non meritano seguito.

Ed, invero, costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui (cfr. Cass. n. 12498/2007) il concetto di comoda divisibilità di un immobile, presupposto dall’art. 720 c.c., postula, sotto l’aspetto strutturale, che il frazionamento del bene sia attuabile mediante determinazione di quote concrete suscettibili di autonomo e libero godimento, che possano formarsi senza dover fronteggiare problemi tecnici eccessivamente costosi e, sotto l’aspetto economico-funzionale, che la divisione non incida sull’originaria destinazione del bene e non comporti un sensibile deprezzamento del valore delle singole quote rapportate proporzionalmente al valore dell’intero, tenuto conto dell’usuale destinazione e della pregressa utilizzazione del bene stesso (conf. Cass, n. 12406/2007; Cass. n. 3635/2007).

Reputa il Collegio che la valutazione di non comoda divisibilità sia stata effettuata dalla Corte di merito con giudizio insindacabile, che sfugge alla possibilità di controllo ad opera del giudice di legittimità, tenuto conto del fatto che, anche a seguito della riforma di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la motivazione in concreto esigibile è ridotta al cd. minimo costituzionale, quale esemplificativamente individuato da Cass. SS. UU. n. 8054/2014.

Peraltro, nella fattispecie, l’iter argomentativo del giudice di merito nemmeno si espone alla censura di intrinseca contraddittorietà o incoerenza tale da determinare la nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4, avendo la decisione gravata esposto in maniera coerente le ragioni plurime per le quali il bene andava ritenuto non comodamente divisibile, senza soffermarsi alla sola possibilità di fruizione a scopi abitativi, ma estendo la propria valutazione anche ai profili concernenti il carattere pertinenziale del bene e la sua inattitudine a qualsiasi forma di fruizione in via autonoma.

L’esito cui perviene la Corte d’Appello non può essere contestato analizzando singolarmente i vari elementi valutati per supportare la conclusione di indivisibilità in natura del bene, come invece si sviluppa la critica del ricorrente, dovendosi peraltro reputare che la valorizzazione degli elementi addotti per pervenire al giudizio di non comoda divisibilità implichi una quanto meno implicita valutazione negativa in ordine ai contrari elementi ricavabili dalla CTU (e nemmeno analiticamente riportata in ricorso in violazione della previsione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), avendo i giudici di appello valorizzato la funzione pertinenziale del bene rispetto all’utilità del fabbricato che non consiglia di pervenire al frazionamento del bene unitariamente considerato.

Il richiamo alla valutazione discrezionale del giudice di merito, insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, in una alla verifica circa la presenza di un’adeguata e congrua motivazione in ordine alle ragioni in base alle quali si è ritenuto di escludere la divisibilità in natura del bene, consente di ravvisare altresì l’infondatezza del terzo motivo di ricorso con il quale si denunzia la violazione degli artt. 718,727 e 720 c.c., laddove la censura lungi dal permettere di ravvisare una violazione di legge, mirai mediante altro percorso, a sollecitare la rivalutazione dei fatti come operata dal giudice di merito.

Il secondo motivo di ricorso denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti relativamente al mancato riconoscimento della rivalutazione del bene, mentre con il quinto motivo, che in parte qua deve essere congiuntamente esaminato attesa la connessione delle questioni che pone, si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 720 e 1224 c.c. nella parte in cui, pur riconoscendosi che il debito del conguaglio abbia natura di obbligazione di valore, nel negare l’adeguamento della sua misura, lo si è sottoposto alla medesima disciplina di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, in tema di obbligazioni di valuta.

Il motivo non si confronta però con il tenore della decisione, la quale ha escluso la possibilità di poter pervenire ad una rivalutazione del bene comune in assenza anche di una prospettazione ad opera della ricorrente di un mutamento dei valori di mercato e quindi del suo valore venale.

Trattasi di valutazione che appare confortata anche dalla più recente giurisprudenza di questa Corte che, proprio in considerazione dei più recenti sviluppi del mercato immobiliare, ha affermato che a giustificare la rivalutazione non è sufficiente il mero decorso del tempo tra la data della stima e quella della decisione, in quanto, in considerazione della possibile stasi del mercato e del conseguente deprezzamento di alcuni beni, la parte che sollecita una rivalutazione degli immobili per effetto del tempo trascorso dall’epoca della stima deve allegare ragioni di significativo mutamento del valore degli stessi intervenute “medio tempore”, non essendo sufficiente il mero riferimento al lasso temporale intercorso (così ex multis Cass. n. 3029/2009; Cass. n. 21632/2010).

Per l’effetto non censurabile risulta la decisione di non adeguare la misura del conguaglio, atteso che proprio la natura di obbligazione di valore, presuppone che sia mutata la stima del bene in comunione.

Da ciò discende altresì che alcuna violazione dell’art. 1224 c.c., comma 2, è configurabile, posto che, una volta ribadita la regola secondo cui gli interessi sull’obbligazione de qua decorrono solo dalla data della decisione, la mancata allegazione degli elementi idonei a giustificare la tesi del mutamento di valore del bene, fa sì che non debba procedersi ad alcuna rideterminazione del conguaglio, e ciò senza che possa in alcun modo reputarsi, come erroneamente dedotto dalla ricorrente, che vi sia stato un indebito accostamento dell’obbligazione de qua alle obbligazioni di valuta.

In relazione, infine alla deduzione secondo cui tra i motivi di appello vi era anche uno dedicato alla liquidazione delle spese operata dal giudice di primo grado, ed evidenziato che il motivo appare formulato denunziando solo la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, come omessa disamina di un punto decisivo, valga a tal fine il richiamo a quanto affermato da Cass. S.U. n. 17931/2013, secondo cui poichè il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Tuttavia, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, ancorchè non sia indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., è necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge, come appunto deve ritenersi accaduto nel caso in esame.

Il quarto motivo denunzia ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la dedotta violazione dell’art. 720 c.c., la decisione della Corte d’Appello che ha ritenuto che l’attrice fosse maggiore quotista in ragione dell’acquisto delle quote degli altri originari condividenti, negando che però potesse avere altrettanta rilevanza la circostanza che nelle more del giudizio fosse deceduta T.C., venendo alla stessa a succedere i quattro figli, odierni controricorrenti.

In tal modo non si sarebbe tenuto conto della circostanza che questi ultimi sono in realtà titolari della quota di 5/24 pro capite, e che l’assegnazione in favore degli stessi lascerebbe comunque il bene in comunione.

Il motivo è infondato, atteso che la decisione impugnata risulta conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte, risolvendosi il motivo nella pretesa di porre a fondamento di una pretesa disparità di trattamento situazioni affatto diverse tra loro.

Ed, infatti, quanto all’affermazione secondo cui l’originaria parte attrice era divenuta maggiore quotista, questa Corte ha reiteratamente affermato che (cfr. Cass. n. 14321/2007) in sede di divisione ereditaria, ai fini dell’accertamento della comoda divisibilità degli immobili a norma dell’art. 720 c.c. e della individuazione del titolare della quota maggiore, onde poter applicare il criterio preferenziale previsto da tale articolo, deve aversi riguardo alla situazione economica (consistenza e valore) e giuridica (numero ed entità delle quote) dei beni al momento della divisione e, quindi, alla situazione presa in esame dalla relativa pronuncia giudiziale, e non a quella esistente al momento dell’apertura della successione, dovendosi tener conto, pertanto, anche delle successive vicende negoziali e della eventuale concentrazione delle quote in capo ai coeredi.

Appare invece priva di rilevanza ai fini dell’individuazione del maggiore quotista la vicenda successoria che abbia colpito uno dei condividenti originari, atteso che anche di recente è stato ribadito che (cfr. Cass. n. 13206/2017) per l’accertamento della comoda (o meno) divisibilità degli immobili, ai sensi dell’art. 720 c.c., deve aversi riguardo al numero delle quote che spettano agli originari chiamati (di primo grado: una quota per ogni grado; di secondo grado: una quota per ogni stirpe) che abbiano accettato, senza che abbia rilievo il fatto che ad uno dei condividenti sia succeduta, al momento della divisione, una pluralità di soggetti, trovando il relativo diritto riconoscimento solo successivamente, al momento della ulteriore divisione della quota spettante al loro dante causa.

Anche tale motivo deve pertanto essere rigettato.

Il ricorso risulta pertanto manifestamente infondato e deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Nulla per le spese per gli intimati che non hanno svolto attività difensiva.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 19 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2018

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