Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31244 del 04/12/2018

Cassazione civile sez. III, 04/12/2018, (ud. 06/11/2018, dep. 04/12/2018), n.31244

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

M.A., in proprio, CRM COOPERATIVA SOCIALE RIEDUCAZIONE

MOTORIA ARL in persona del legale rappresentante pro tempore

M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NICOLA RICCIOTTI 11,

presso lo studio dell’avvocato CARLA GAMBARDELLA, che li rappresenta

e difende unitamente all’avvocato LORENZO TAMOS giusta procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

G.M.G.E., elettivamente domiciliata in ROMA,

presso lo studio dell’avvocato MARIO GERUNDO, rappresentato e difeso

dall’avvocato MARIA GRAZIA BERRETTI giusta procura speciale in calce

al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2500/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 30/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/11/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Fatto

RITENUTO

Che:

1. La Cooperativa Sociale Rieducazione Motoria a r.l. (da ora CRM) e M.A. (in proprio) ricorrono, affidandosi a tre motivi illustrati anche da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva confermato la pronuncia del Tribunale di rigetto della domanda proposta nei confronti della ex dipendente G.M.G.E. per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla diffamazione che sarebbe stata commessa attraverso un’intervista da lei rilasciata ad un quotidiano locale, nel corso della quale aveva denunciato carenze trattamentali degli ospiti della struttura e la discriminazione alla quale erano sottoposti i dipendenti stranieri rispetto ai turni da svolgere.

2. L’intimata ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione:

a. dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 nonchè dell’art. 111 c.p.c., comma 6 Cost. per totale assenza di motivazione e/o per motivazione apparente e/o contraddittoria e/o manifestamente illogica/perplessa rispetto alle argomentazioni del giudice di primo grado che erano state espressamente censurate con l’atto d’appello;

b. dell’art. 113 c.p.c. nonchè del D.Lgs. n. 196 del 2003 “e, in particolare, dell’attinente art. 26 rispetto alla motivazione fornita dalla Corte territoriale a postumo riempimento del correlativo vuoto motivazionale del Tribunale di Monza”.

1.1. Lamentano che la Corte territoriale non aveva dato riscontro alle doglianze concernenti la portata diffamatoria delle dichiarazioni che la G. aveva reso al giornalista del (OMISSIS) che le aveva poi trasfuse nell’ intervista pubblicata: assumono che dette dichiarazioni – aventi per oggetto i ” gravissimi disservizi ed omissioni di controllo” che avevano caratterizzato il trattamento degli ospiti della struttura – erano fondate esclusivamente sull’esame del “quaderno di servizio” prodotto in fotocopia che, da una parte era stato acquisito abusivamente e doveva pertanto essere dichiarato “inutilizzabile” e, dall’altra, conteneva informazioni riservate relative ai dati sensibili dei pazienti per la cui pubblicazione doveva essere richiesto il consenso degli interessati D.Lgs. n. 196 del 2003, ex artt. 4 e 26.

1.2. Assumono, ancora, che sulle specifiche contestazioni la Corte non aveva reso una motivazione congrua, essendosi limitata ad affermare che “non fosse chiaro sulla base di quale norma tale quaderno avrebbe avuto carattere riservato, con ciò esprimendo una motivazione perplessa ed inosservante del principio “iura novit curia”, con violazione dell’art. 113 c.p.c..

1.3. Il motivo è infondato.

Premesso, infatti, che la questione – che era stata oggetto del quarto motivo d’appello – è stata specificamente esaminata dalla Corte territoriale (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata) che, sul punto, ha reso una motivazione sintetica ma esaustiva, si osserva che:

a. in ordine alla impropria acquisizione della documentazione prodotta, la censura non ha prospettato in modo autosufficiente le argomentazioni spese a sostegno di un eventuale trafugamento del “quaderno di servizio” la cui sparizione non risulta sia stata mai denunciata: in tale situazione, in cui, oltretutto, le fotocopie non risultano oggetto di specifico ed argomentato disconoscimento, l’assenza di motivazione della Corte sulle modalità di acquisizione di esso è perfettamente in linea con la natura devolutiva del giudizio d’appello.

b. in ordine alla riservatezza dei dati personali elencati dal ricorrente (e cioè i dati sensibili costituiti dalle indicazioni sullo stato di salute degli anziani, individuati con le loro generalità), si osserva, preliminarmente, che nella fattispecie si discute di risarcimento del danno conseguente alla dedotta diffamazione: la divulgabilità o meno dei dati contenuti nella documentazione prodotta dalla convenuta risulta dunque inconferente, visto che l’utilizzabilità di essa potrebbe costituire una questione rilevante soltanto in sede penale, ai fini dell’accertamento di responsabilità da reato.

1.4. Ma tanto premesso, deve precisarci che i fatti che la Corte territoriale ha ritenuto utili ai fini di valutare la condotta della G., confermando la valutazione assolutoria del primo giudice, non erano riferiti ai dati personali dei degenti, ma alle disfunzioni trattamentali genericamente descritte nel quaderno di servizio quali la mancanza di posate e stoviglie, l’insufficienza delle lenzuola da cambiare e la mancata mobilizzazione dei degenti impossbilitati ad alzarsi dal letto (cfr. pag. 6 terzo cpv della sentenza); e che il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 24, comma 1, lett. f) e l’art. 26, comma 4, lett. c) invocato dal ricorrente esclude la necessità del consenso per il trattamento dei dati personali nel caso, come quello in esame, in cui la produzione del documento che li contenga sia finalizzata “a far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto”.

1.5. Al riguardo questa Corte, ha avuto modo di chiarire con orientamento al quale questo Collegio intende dar seguito che “in materia di trattamento dei dati personali, il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 24 permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto, a condizione che i dati, siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento” (Cfr. Cass. 21612/2013; Cass. 15327/2009).

2. Con il secondo ed il terzo motivo, i ricorrenti lamentano:

a. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., e dell’art. 132, comma 2, n. 4 e dell’art. 111 Cost., comma 6: censurano la valutazione della Corte in ordine alla “costrizione al silenzio della G.” sulle disfunzioni denunciate ed alla affermata inattendibilità dei testi, fondata sulla “comprensibile ritrosia e timore a confermare circostanze pregiudizievoli per la reputazione della residenza”.

b. la mancanza assoluta di motivazione, con conseguente violazione/falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’art. 111 Cost., comma 6 anche sotto l’aspetto materiale grafico nonostante la “correlata” motivazione apparente circa la pretesa “costrizione al silenzio” ed ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. 2.1. I due motivi, per lo più sovrapponibili, devono essere esaminati congiuntamente: essi sono inammissibili perchè, oltre ad invocare la formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non più vigente, chiedono nella sostanza una rivalutazione di merito della controversia, non consentita in sede di legittimità in presenza di una motivazione che sulla specifica questione sollevata, risulta superare il vaglio di costituzionalità.

La Corte territoriale, infatti, si è sufficientemente diffusa sulla circostanza dedotta, esprimendo una valutazione plausibile sulla prevalenza delle risultanze documentali, oltretutto riconducibili ad una fonte proveniente dalla controparte, rispetto alle deposizioni di testi la cui condizione di subordinazione rendeva comprensibile la ritrosia a deporre su fatti che potevano mettere in cattiva luce il loro datore di lavoro e, quindi, plausibile la loro dubbia attendibilità: si tratta, dunque, di una valutazione congrua, logica ed insindacabile in sede di legittimità.

2.2. Il rilievo dei ricorrenti tende, pertanto, a realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (cfr. ex multis Cass. 8758/2017).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte,

rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 4500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 6 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2018

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