Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3124 del 09/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 09/02/2021, (ud. 28/10/2020, dep. 09/02/2021), n.3124

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9784/2016 proposto da:

C.R., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIUSEPPE TRIBULATO;

– ricorrente –

contro

CONSORZIO AUTOSTRADE SICILIANE, ENTE PUBBLICO NON ECONOMICO, in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, LARGO BOCCEA 34, presso lo studio dell’avvocato

ANNA RITA FERA, rappresentato e difeso dall’avvocato CARMELO

MATAFU’;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1179/2015 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 13/10/2015 R.G.N. 1843/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/10/2020 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. il Tribunale di Messina, accertata la nullità del termine apposto ai contratti stipulati tra C.R. ed il Consorzio Autostrade Siciliane a partire dal 1992 per sopperire ad esigenze del servizio di esazione dei pedaggi, in parziale accoglimento delle domande azionate, condannava il Consorzio al pagamento di una somma pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e rigettava la domanda di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dal momento della sua costituzione;

2. la Corte d’appello di Messina, con sentenza del 13.10.2015, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il C.A.S. a corrispondere alla parte appellata, a titolo di risarcimento del danno per l’illegittimità dei contratti stipulati sino all’anno 2001, la somma di importo pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto percepita alla cessazione del contratto a termine per l’anno 2001 e rigettava l’appello incidentale della lavoratrice, che aveva sostenuto come sufficiente ai fini del riconoscimento del danno la mera invocazione di una sequenza di rapporti a termine;

2.1. la Corte distrettuale riteneva condivisibile quanto osservato dal Tribunale per i contratti stipulati anteriormente al 2001, in ordine all’assenza di ogni prova circa la ricorrenza di alcuno dei casi tassativamente elencati dalla L. n. 230 del 1962, art. 1, laddove, per quelli esaminati sulla base del D.Lgs. n. 368 del 2001, osservava che la specificazione delle esigenze poste a fondamento della stipulazione a termine doveva reputarsi integrata dall’intesa con le OO.SS. aziendali, allorquando era stata formata una graduatoria unica di lavoratori stagionali per il reclutamento del personale da avviare al lavoro sulla base degli effettivi fabbisogni aziendali, in virtù della considerazione che da tale epoca le ragioni giustificatrici avessero trovato riscontro nel controllo sindacale e nell’accordo stipulato tra le parti sociali;

2.2. osservava che, con riferimento ai contratti stipulati precedentemente, in base ai principi di effettività ed equivalenza sanciti dalla Corte di Giustizia Europea, per il risarcimento del danno sofferto a causa del ricorso abusivo ad una successione di contratti a termine doveva aversi riguardo a quanto sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza 27481/2014, affermativa del diritto del lavoratore al risarcimento del danno ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, cd. danno comunitario, quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, per la cui liquidazione era utilizzabile in via tendenziale il criterio indicato dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 e non il sistema indennitario omnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, nè il criterio previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori;

2.3. tenuto conto del numero e dalla durata dei contratti, nonchè della durata della reiterazione e dell’intervallo di tempo intercorrente tra un contratto e l’altro, la Corte di Messina riteneva congrua la misura di cinque mensilità della retribuzione globale di fatto percepita dalla lavoratrice all’atto della cessazione del contratto a termine nell’anno 2001, oltre accessori di legge;

3. di tale sentenza domanda la cassazione la C., affidando l’impugnazione a tre motivi, illustrati in memoria, cui resiste, con controricorso, il CAS.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, nel testo vigente ratione temporis e violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., assumendo che la Corte avrebbe dovuto ritenere illegittimo anche il termine apposto ai cinque contratti stipulati dopo l’anno 2002, in quanto nessuna eccezione era stata formulata dal CAS con riferimento al verbale d’accordo sindacale, neanche depositato in atti, e che probabilmente si era trattato di refuso di altra pronuncia;

1.1. evidenzia come era stata, invece, allegata nel fascicolo di primo grado Delib. Commissario Straordinario del CAS 10 febbraio 2010, n. 18/CS, relativa all’utilizzo nell’ultimo decennio, per l’intero arco dell’anno, di lavoratori stagionali per far fronte alle esigenze connesse alle maggiori punte di traffico nel periodo estivo, ciò che avrebbe dovuto condurre a ritenere illegittimo il termine apposto anche ai cinque contratti stipulati dopo il 2002; assume che la ragione indicata nei contratti era generica e non contenente alcuna specificazione che potesse consentirne il controllo di veridicità, a fronte della contestazione di parte ricorrente;

2. con il secondo motivo, la lavoratrice lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 36 (id est 165/2001) e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, nel combinato disposto con la L. n. 300 del 1970, art. 18, adducendo che il “criterio tendenziale” adottato dalla Corte d’appello (L. n. 604 del 1966, art. 8) sia in contrasto con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, che prevede per il pubblico impiego l’applicazione della L. n. 300 del 1970, in ogni caso, con la conseguenza che il criterio doveva essere quello di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, da considerare giusto parametro liquidatorio;

2.1. sostiene, poi, l’assoluta incongruità della misura del risarcimento, avuto riguardo al numero dei contratti, alle dimensioni del CAS ed al comportamento tenuto complessivamente dalle parti:

3. con il terzo motivo, la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 36 (id est 165/2001) e della L. n. 183 del 2010, art. 32, nonchè dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio (anzianità maturata quale precario) oggetto di discussione tra le parti, osservando che la mancata declaratoria di nullità dei termini apposti a tutti i contratti vizi il ragionamento con cui la Corte ha liquidato il danno in sole cinque mensilità e che il precariato protrattosi per circa venti anni giustificasse un risarcimento commisurato ad importo maggiore, secondo i principi enunciati, per la sua liquidazione, da Cass. 5072/2016, i cui criteri di riferimento erano stati parimenti disattesi nella specie (esonero probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, in una fascia compresa tra un minimo di 2,5 mensilità ed un massimo di 12 dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. n. 604 del 1966, art. 8);

4. va premesso che sulla natura di ente pubblico non economico del Consorzio Autostrade Siciliane questa Corte si è già pronunciata (cfr. Cass. 26.5.2015 n. 10823);

5. quanto al primo motivo, ad onta della indicazione contenuta in rubrica delle norme asseritamente violate, nel corpo dello stesso si evidenzia l’erronea applicazione dei principi validi in tema di stipulazione a termine riferita ad una lunga serie di contratti per sopperire all’esigenza di soddisfare con continuità un servizio essenziale quale l’esazione dei pedaggi autostradali, ciò che sul piano giuridico comporta non già la violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, quanto piuttosto la violazione della clausola 5 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.3.1999 in allegato alla Direttiva 1999/70 del Consiglio del 28.6.1999, relativa all’accordo Quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, clausola richiamata nel successivo motivo di ricorso;

5.1. ed invero, la motivazione fornita dalla Corte distrettuale, riferita, per i contratti stipulati dopo l’anno 2002, ad accordi con le OO.SS. che avrebbero costituito la base legittimante della stipulazione a termine, deve considerarsi meramente apparente, in quanto ciò che rileva nel presente giudizio, in ambito di lavoro pubblico privatizzato, è unicamente l’abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, che si riflette in termini di illegittima precarizzazione del rapporto di impiego;

5.2. la direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) pur non contenendo una disciplina generale del contratto a tempo determinato, pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5). Questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5, come precisato dalla Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit.), secondo cui “l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”;

6. tanto premesso, con riguardo alle conseguenze dell’abuso nella reiterazione – che nella specie deve riferirsi, per quanto sopra osservato, a tutti i diciassette contratti oggetto di causa, con riflessi sulla stessa quantificazione del risarcimento del danno – deve essere disattesa, per le ragioni di seguito specificate, la censura formulata nel secondo motivo quanto al criterio di liquidazione del danno (art. 18 dello Statuto dei lavoratori), che, peraltro, è in contraddizione con quanto sostenuto dalla stessa ricorrente nel terzo motivo;

7. il terzo motivo merita accoglimento in relazione sia alla sua stretta consequenzialità rispetto all’accoglimento del primo motivo (in ordine alla necessità di considerare un maggior numero di contratti), sia per la corretta individuazione del criterio di liquidazione richiamato, essendo quello applicato dalla Corte del merito per i contratti stipulati sino al 2001 superato dall’orientamento giurisprudenziale successivo di questa Corte, costantemente applicato a partire dalla pronuncia a s.u. 15.3.2016 n. 5072;

7.1. in conformità a quanto affermato in tale pronuncia, nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8;

7.2. il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite questa Corte (cfr. Cass. S.U. 15/03/2016 n. 5072) con riferimento alla norma contenuta nel T.U. n. 165 del 2001, art. 36, è quello alla cui stregua “nell’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione, il pregiudizio economico oggetto di risarcimento non può essere collegato alla mancata conversione del rapporto: quest’ultima, infatti, è esclusa per legge e trattasi di esclusione affatto legittima sia secondo i parametri costituzionali che secondo quelli comunitari”. Piuttosto, dando atto che l’efficacia dissuasiva richiesta dalla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE postula una disciplina agevolatrice e di favore, che consenta al lavoratore che abbia patito la reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una presunzione di legge circa l’ammontare del danno e rilevato che il pregiudizio è normalmente correlato alla perdita di chance di altre occasioni di lavoro stabile, le Sezioni Unite hanno rinvenuto nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, una disposizione idonea allo scopo, nella misura in cui, prevedendo un risarcimento predeterminato tra un minimo ed un massimo, esonera il lavoratore dall’onere della prova, fermo restando il suo diritto di provare di aver subito danni ulteriori” (cfr., da ultimo, anche Cass. 4.3.2020 n. 6097, Cass. 23.6.2020 n. 12363);

7.3. la Corte di giustizia, pronunziandosi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal Tribunale di Trapani, con la ordinanza del 5 settembre 2016, partendo dai principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, sopra richiamati, ha osservato, sotto il profilo specifico del principio di effettività della misura sanzionatoria: – che gli Stati membri non sono tenuti, alla luce della clausola 5 dell’accordo quadro, a prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, sicchè non può nemmeno essere loro imposto di concedere in assenza di ciò un’indennità destinata a compensare la mancanza di una siffatta trasformazione del contratto (sentenza Corte di Giustizia UE (sentenza Corte di Giustizia UE 7 marzo 2018 in causa C 494/2016, punto 47); – che, tenuto conto delle difficoltà inerenti alla dimostrazione dell’esistenza di una perdita di opportunità, il ricorso a presunzioni dirette a garantire ad un lavoratore che abbia sofferto – a causa dell’uso abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione – una perdita di opportunità di lavoro, la possibilità di cancellare le conseguenze di una siffatta violazione del diritto dell’Unione è tale da soddisfare il principio di effettività (sentenza Corte di Giustizia UE cit., punto 50);

7.4. il giudice Europeo ha poi confutato la tesi secondo cui la indennità L. n. 183 del 2010, ex art. 32, debba essere liquidata in ragione di ogni singolo contratto per il quale venga accertata la illegittimità del termine, in quanto la stessa non tiene conto del fatto che il danno comunitario presunto, L. n. 183 del 2010, ex art. 32, nel settore pubblico, non è quello derivante dalla nullità del termine del contratto di lavoro, ma è quello conseguente all’abuso per l'”utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, come prevede la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE. L’illecito si consuma non in relazione ai singoli contratti a termine ma soltanto dal momento e per effetto della loro successione e pertanto il danno presunto dovrà essere liquidato una sola volta, nel limite minimo e massimo fissato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, considerando nella liquidazione dell’unica indennità il numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti sotto il profilo della gravità della violazione (cfr. in tali termini, Cass. 3.12.2018 n. 31175);

7.5. ogni altro rilievo teso a valorizzare l’anzianità maturata quale precario deve essere disatteso, posto che questa Corte ha ritenuto che il riconoscimento dell’anzianità di servizio può riferirsi soltanto a quella maturata precedentemente all’acquisizione dello status di lavoratore a tempo indeterminato, allorchè le funzioni svolte siano identiche a quelle precedentemente esercitate nell’ambito del contratto a termine, mirando le condizioni di stabilizzazione fissate dal legislatore proprio a consentire l’assunzione dei soli lavoratori a tempo determinato la cui situazione poteva essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo (cfr., da ultimo, Cass. 16.7.2020 n. 15231);

8. la sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione alle censure prospettate nel primo motivo, il cui accoglimento impone una nuova valutazione anche delle conseguenze risarcitorie, da parametrare al criterio indicato in sede di accoglimento della doglianza di cui al terzo motivo; la causa va rimessa alla Corte d’appello di Messina in diversa composizione, che, nel procedere a nuovo esame, si atterrà ai principi indicati;

9. il giudice del rinvio provvederà sulle spese anche del presente giudizio di legittimità.

PQM

la Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte d’appello di Messina in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2021

 

 

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