Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31194 del 29/12/2018

Cassazione civile, sez. I, 29/12/2017, (ud. 23/05/2017, dep.29/12/2017),  n. 31194

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto depositato il 27 settembre 2011 il Tribunale di Fermo ha rigettato l’opposizione proposta da Unicredit Credit Management Bank s.p.a. avverso il Decreto del 4 marzo 2011, comunicato il 29 marzo 2011, con il quale il giudice delegato del fallimento della G. s.r.l. in liquidazione aveva ammesso al passivo, in via chirografaria, soltanto la somma di Euro 41.467,80, oltre interessi di mora al saggio contrattuale (con esclusione dell’euribor a 3 mesi – 7%, in quanto eccedente il tasso soglia previsto dalla disciplina in tema di usura) fino alla data del fallimento.

Tale importo rappresenta la differenza tra, da un lato, l’importo di Euro 670.637,40, determinato a titolo di equo compenso, ai sensi dell’art. 1526 c.c. (e costituente la somma tra la perdita di valore del bene – Euro 536.300,00 – e gli interessi sull’investimento – Euro 134.337,40), e, dall’altro, l’ammontare dei canoni versati, nell’esecuzione del contratto di leasing concluso fra le parti (Euro 629.169,60).

2. Il Tribunale ha ritenuto che il contratto in esame dovesse essere qualificato come leasing traslativo, in quanto: a) il bene che ne costituiva l’oggetto, alla scadenza naturale del rapporto negoziale, avrebbe avuto un valore residuo consistente e comunque superiore al prezzo finale di riscatto (Euro 360.000,00, oltre i.v.a.: circostanza non contestata, aggiunge il decreto impugnato); b) era stata prevista, dall’art. 8 del contratto, la possibilità per l’utilizzatore di chiedere una proroga del rapporto di locazione finanziaria ed era stato imposto, con l’art. 10 del medesimo contratto, l’obbligo di mantenere l’immobile in buono stato di efficienza.

Da tale qualificazione discendeva l’applicazione dell’art. 1526 c.c., norma imperativa, che, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, consente al concedente di ottenere un equo compenso, destinato ad includere la remunerazione del godimento del bene e il deprezzamento derivante dal logoramento per l’uso, ma non anche il mancato guadagno, al più essendo riconoscibile il risarcimento del danno, derivante da un deterioramento anomalo del bene stesso. Pertanto, la penale richiesta dal concedente, parametrata ai canoni a scadere dalla data della risoluzione, attualizzati, con detrazione di quanto ricavato dalla vendita del bene, oltre ad essere manifestamente eccessiva, rappresentava uno strumento finalizzato ad eludere la norma imperativa dettata dall’art. 1526 c.c. e, peraltro, era disciplinata da una clausola contrattuale (l’art. 17 del contratto) affetta da insanabile indeterminatezza, quanto ai criteri di stima del valore del bene, da scomputare dalla somma dei canoni a scadere.

3. Avverso tale decreto Unicredit Credit Management Bank s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi. La curatela intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione della L. Fall., artt. 99 e 36-bis, L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 2, art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c., e art. 2 Cost.; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, difetto di motivazione congrua e logica su di un fatto decisivo della controversia.

Rileva la ricorrente che, nell’ambito del giudizio di opposizione dinanzi al Tribunale di Fermo, la curatela fallimentare si era costituita tardivamente, con memoria depositata solo in data 6 settembre 2011, laddove, tenuto conto che il procedimento de quo è assoggettato alla disciplina della sospensione feriale dei termini, la costituzione, rispetto all’udienza del 16 settembre 2011, sarebbe dovuta intervenire entro il 21 luglio 2011, anche per garantire l’integrità del contraddittorio.

Ne discende, secondo la ricorrente, la tardività delle eccezioni svolte dalla curatela e aventi ad oggetto l’eccessività della penale e la nullità delle clausole contrattuali di cui agli artt. 17 e 18 nonchè l’inutilizzabilità dei documenti prodotti dalla controparte, con particolare riguardo: a) alla perizia dell’immobile effettuata per conto del curatore, alla stregua della quale era stato determinato il valore residuo del bene; b) alla relazione del Dott. F., quanto alla asserita usurarietà degli interessi di mora.

In conclusione, il Tribunale avrebbe dovuto fondare la sua decisione esclusivamente sulla documentazione prodotta dal ricorrente, ossia sul foglio finanziario, dal quale si poteva desumere il complessivo importo dell’operazione economica (capitale erogato e remunerazione dello stesso), necessario per determinare l’eventuale equo compenso spettante alla società concedente.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che la ricorrente denuncia un error in procedendo. Ne discende che non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte di Cassazione accertare se vi sia stato o non il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto. Nè il mancato esame, da parte di quel giudice, di una questione puramente processuale può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (Cass. 10 novembre 2015, n. 22952).

Ciò posto, non è evidentemente in discussione l’operatività della regola di computo dei termini a ritroso, quando essi cadano nel periodo di sospensione feriale. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare che la sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, ai sensi della L. n. 742 del 1969, comporta la sottrazione del medesimo dal relativo computo, sicchè, ai fini della costituzione del convenuto in primo grado, il termine di venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione, il cui rispetto è necessario per la proposizione della domanda riconvenzionale, va calcolato, ove sia indicata un’udienza per una data successiva al compimento del periodo feriale ma tale che il termine di venti giorni ricada in detto periodo, mediante un conteggio a ritroso che in detta frazione temporale incontra una parentesi oltre la quale il conteggio stesso deve proseguire fino ad esaurimento (Cass. 17 maggio 2010, n. 12044).

Assume, invece, rilievo il significato della L. Fall., art. 99, comma 7, applicabile ratione temporis, a mente del quale la costituzione si effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria difensiva contenente, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio nonchè l’indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti prodotti.

Come di recente chiarito da questa Corte, con riferimento allo speculare comma secondo del medesimo art. 99, che si occupa della posizione dell’opponente, quest’ultimo deve, a pena di decadenza, soltanto indicare specificatamente i documenti, di cui intende avvalersi, già prodotti nel corso della verifica dello stato passivo innanzi al giudice delegato, sicchè, in difetto della produzione di uno di essi, il tribunale deve disporne l’acquisizione dal fascicolo d’ufficio della procedura fallimentare ove esso è custodito (Cass. 18 maggio 2017, n. 12549).

Si è, al riguardo, condivisibilmente osservato che il tenore della norma in esame, letta alla luce del principio di non dispersione della prova ormai acquisita al processo (ribadito da ultimo da Cass. s.u. 10/07/2015, n. 14475), nonchè delle recenti novelle legislative in tema di deposito telematico obbligatorio delle domande e dei documenti nella verifica dello stato passivo, impone di ritenere che l’opponente (e identiche considerazioni valgono per il caso, rilevante nel presente procedimento, del resistente), sia onerato soltanto di indicare i documenti che abbia già prodotto nel giudizio, vale a dire sia dei documenti nuovi che intenda allegare per la prima volta al ricorso in opposizione, sia di quelli già inseriti nel fascicolo della procedura fallimentare.

In conclusione, deve ritenersi che, una volta inserito nel fascicolo fallimentare – un tempo mediante il deposito cartaceo e oggi per via esclusivamente telematica -, il documento di natura probatoria prodotto dal creditore istante (e lo stesso vale per la documentazione della curatela fallimentare) entri a fare parte dell’unico fascicolo della procedura (tenuto all’attualità in modalità informatica) e come tale sia destinato, in caso di successiva impugnazione dello stato passivo, ad essere acquisito – com’è proprio di qualsivoglia atto contenuto nel fascicolo d’ufficio – nella sfera di cognizione del giudice, alla sola condizione che esso sia stato espressamente indicato dalla parte interessata.

Con riferimento, invece, alle eccezioni svolte dalla curatela si osserva che esse, investendo la validità di clausole contrattuali, anche alla luce della norma imperativa di cui all’art. 1526 c.c., sono rilevabili d’ufficio e si sottraggono, per quanto sopra detto, alla disciplina dettata dalla L. Fall., art. 99.

2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 14, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione illogica, incongruente e incompleta nonchè affetta da evidente contrasto con risultanze testuali ricavabili dalle prove documentali, in relazione ad un fatto decisivo per la controversia.

Osserva la ricorrente: a) che il Tribunale di Fermo aveva erroneamente istituito una corrispondenza automatica tra leasing traslativo e bene, oggetto del contratto, avente un valore residuo superiore al prezzo di opzione, mentre avrebbe dovuto tenere conto anche di altri indici, espressivi delle peculiarità del caso concreto, e, in particolare, del fatto che, ai sensi dell’art. 5 del contratto, l’insieme dei canoni di cui si prevedeva il pagamento non solo non copriva la remunerazione del capitale investito nell’operazione, ma era inferiore allo stesso capitale erogato per l’acquisto; b) che anche gli altri profili valorizzati dal decreto impugnato (la possibilità di rinnovazione del contratto, l’obbligo di mantenere l’immobile in buono stato di manutenzione) erano criteri secondari, da valutare solo dopo avere esaminato il rapporto tra il valore complessivo dei canoni e la legittima aspettativa contrattuale, che deve tener conto della prevista remunerazione del capitale mediante la previsione di interessi corrispettivi.

La doglianza è infondata.

Tenuto conto che la sentenza dichiarativa del fallimento è del 18 settembre 2010 e che la ricorrente deduce che la Unicredit Leasing si era avvalsa della clausola risolutiva espressa in data 20 – 27 novembre 2008, non trova applicazione la L. Fall., art. 72-quater.

Tale norma, infatti, opera solo nel caso in cui il contratto di leasing sia pendente al momento del fallimento dell’utilizzatore, mentre, ove si sia già anteriormente risolto, occorre distinguere a seconda che si tratti di leasing finanziario o traslativo, solo per quest’ultimo potendosi utilizzare, in via analogica, l’art. 1526 c.c.(Cass. 9 febbraio 2016, n. 2538).

Ciò posto, si rileva che, ai fini della qualificazione come leasing traslativo di un contratto avente ad oggetto l’utilizzazione di beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo, ciò che rileva, indipendentemente dalla circostanza che concedente sia il produttore del bene ovvero un imprenditore che l’acquisti per porlo a disposizione dell’utilizzatore, è se il godimento temporaneo da parte dell’utilizzatore esaurisca la funzione economica del bene ovvero la durata del contratto sia predeterminata solo in funzione dell’ulteriore differito trasferimento del bene e della rateizzazione del prezzo d’acquisto (Cass. 23 maggio 2008, n. 13418).

Siffatto orientamento trae origine dalle indicazioni di Cass., Sez. Un., 7 gennaio 1993, n. 65), secondo la quale la ricostruzione, nell’uno o nell’altro senso, dell’intenzione delle parti trasfusa nel regolamento negoziale è problema da risolvere caso per caso, alla luce delle concrete peculiarità delle singole fattispecie, e costituisce una quaestio voluntatis la cui soluzione è compito specifico del giudice del merito; il quale dovrà a tal fine tener conto non solo dell'”indice” innanzi cennato (confronto tra valore residuo del bene e prezzo di opzione), ma anche di ogni altro utile elemento emergente alle clausole dei singoli contratti, potendosi, ad esempio, considerare indizi confermativi dell’intento delle parti di privilegiare, ab initio, il trasferimento del bene: a) la previsione della facoltà per l’utilizzatore di chiedere la proroga del rapporto sul presupposto dell’ulteriore utilizzabilità del bene medesimo; b) l’obbligo, imposto all’utilizzatore, di riconsegnare il bene in buono stato di manutenzione e di funzionamento; c) il rapporto tra durata del contratto e periodo di prevedibile obsolescenza tecnica ed economica del bene in relazione alla natura ed alle modalità d’uso del medesimo.

Tali indicazioni non sono affatto smentite dalle decisioni menzionate dalla ricorrente.

E’, infatti, conclusione condivisa quella secondo cui ricorre la figura del leasing di godimento allorquando l’insieme dei canoni di cui il contratto prevede il pagamento per l’arco della sua durata è inferiore, in modo consistente, alla remunerazione del capitale investito nell’operazione di acquisto e concessione in godimento del bene e lascia non coperta una non irrilevante parte di questo capitale, il prezzo pattuito per l’opzione è di corrispondente altezza, è prevista un’alternativa all’opzione sotto forma di rinnovazione del contratto; mentre, al contrario, se l’insieme dei canoni che devono essere pagati dal conduttore remunera interamente il capitale impiegato nell’operazione e il prezzo di opzione è in rapporto a quell’insieme sostanzialmente irrilevante, in questo caso, per accertare se si è in presenza di un leasing traslativo ovvero di un leasing di godimento, occorre porre a raffronto, non l’insieme dei canoni e il prezzo d’opzione, ma il prevedibile valore residuo del bene alla scadenza del contratto e il prezzo d’opzione, perchè se il primo sopravanza in modo non indifferente il secondo, ciò sta a significare che i canoni hanno incluso per una parte il corrispettivo del valore d’uso e per un’altra il corrispettivo del valore d’appartenenza (Cass. 18 novembre 1998, n. 11614). Negli stessi termini si colloca anche l’invocata sentenza 25 gennaio 2011, n. 1748.

Tuttavia, in questa cornice normativa ed interpretativa di riferimento, che non è affatto disattesa dal Tribunale – talchè è da escludere, sotto tale profilo, una violazione di legge -, le critiche della ricorrente non riescono a dimostrare nè una inosservanza delle regole dell’ermeneutica contrattuale, nè un vizio motivazionale, per l’assorbente ragione che insistono nel sostenere che l’insieme dei canoni previsti non copriva la remunerazione del capitale e, anzi, era inferiore allo stesso capitale erogato per l’acquisto, senza considerare che tutto il quadro finanziario dell’operazione è viziato da una usurarietà degli interessi previsti dalla clausola n. 5 del contratto che, ritenuta dal provvedimento iniziale, non ha costituito oggetto di impugnazione.

A ciò si aggiunga che tutte le valutazioni che, al fine si concentrano sul rapporto tra prezzo di opzione e valore finale, sono assolutamente generiche e congetturali, limitandosi la ricorrente ad affermare che, se il bene si era deprezzato in una certa percentuale dal momento della conclusione del contratto alla data della stima operata in sede fallimentare, poteva ritenersi presumibile una ulteriore e proporzionale riduzione sino alla data di naturale scadenza del contratto, in tale modo rendendo il divario ravvisato dal Tribunale, tra prezzo dell’opzione e valore residuo, non “così esorbitante”.

Tuttavia, è agevole rilevare che tale riflessione, del tutto sfornita di base oggettiva – giacchè non s’intende il fondamento di un deprezzamento lineare del bene – comunque non è idonea ad intaccare la logicità della conclusione dei giudici di merito e del percorso argomentativo che la sostiene.

3. Con il terzo motivo, si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., art. 12 preleggi, artt. 1322 e 1362 c.c., rilevando che, ferma la inderogabilità della disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., il Tribunale non aveva vagliato la congruità dell’assetto regolamentare, alla luce della ratio di quest’ultima previsione, che comunque intende assicurare al concedente il corrispettivo globale dell’operazione finanziaria, ossia il capitale e l’utile programmato.

La censura è infondata, giacchè, ancora una volta, tutte le valutazioni espresse dalla ricorrente, eludendo il tema della usurarietà degli interessi pattuiti, insistono in un utile atteso, al quale non aveva diritto.

E’ in questa prospettiva che va ribadito che, al leasing traslativo si applica la disciplina di carattere inderogabile di cui all’art. 1526 c.c., in tema di vendita con riserva della proprietà, la quale comporta, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, la restituzione dei canoni già corrisposti e il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni, tale da remunerare il solo godimento e non ricomprendere anche la quota destinata al trasferimento finale di essi; ne consegue che il concedente, mantenendo la proprietà del bene ed acquisendo i canoni maturati fino al momento della risoluzione, non può conseguire un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene (Cass. 27 settembre 2011, n. 19732).

Nello stesso senso, si veda anche Cass. 10 settembre 2010, n. 19287, secondo cui l’art. 1526 c.c., applicabile alla fattispecie negoziale del leasing traslativo, prevede che nel caso in cui la risoluzione avvenga per l’inadempimento del compratore (nel leasing, utilizzatore), debba essere riconosciuto al venditore (nel leasing, concedente) – tenuto a restituire le rate riscosse – il diritto all’equo compenso per l’uso della cosa comprensivo della remunerazione del godimento del bene, del deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e del logoramento per l’uso, oltre al risarcimento del danno, eventualmente derivante da un deterioramento anormale della cosa.

Alle superiori considerazioni, deve aggiungersi che l’argomento sviluppato dalla ricorrente, secondo la quale, la somma per la quale era stata ammessa al passivo (Euro 41.467,80), aggiunta al presunto valore del bene (Euro 663.700,00), determinava un credito di Euro 705.167,80, ossia un importo quasi dimezzato rispetto al solo capitale erogato per l’acquisto del bene (Euro 1.200.000,00), trascura del tutto il fatto che il menzionato valore residuo del bene deve essere maggiorato dell’intero importo per l’equo compenso (ossia, Euro 670.637,40) e che la somma ammessa al passivo deriva dalla differenza fra quest’ultimo importo e i canoni già versati.

4. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1526,1322 e 1382 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere il Tribunale, nonostante l’assenza di qualunque limitazione dell’art. 1526 c.c., circoscritto il risarcimento del danno accordabile al concedente al solo pregiudizio derivante dall’anormale deterioramento della cosa.

Il motivo è infondato, in quanto l’orientamento recepito dal Tribunale di Fermo, coerente con le ricordate decisioni di questa Corte (ad es., Cass. 19287 del 2010), le quali circoscrivono il risarcimento ai danni derivanti dell’anormale deterioramento del bene, non escludono affatto che il concedente abbia diritto, all’interno dell’equo compenso, alla remunerazione per il godimento del bene da parte dell’utilizzatore.

E anche nel caso concreto la determinazione della somma spettante alla ricorrente tiene conto degli interessi sull’investimento iniziale sino alla risoluzione.

Non tiene conto di quelli successivi – e reputa la prevista clausola penale soltanto un modo per aggirare la disciplina inderogabile dettata dall’art. 1526 c.c. – perchè estranei, al di là della generale previsione normativa, all’assetto di interessi voluto dal legislatore, che non attribuisce rilievo alle prospettive di guadagno del concedente, ritenendole compensate con la definitiva attribuzione del bene e con le conseguenti possibilità di utilizzazione economica dello stesso.

5. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1384 e 1526 c.c. (e nel corpo della censura, anche difetto di motivazione).

Le censure che si articolano attorno ai presupposti normativi per la riduzione della penale e insistono nel sottolineare la centralità dell’aspettativa del concedente di ottenere la remunerazione del capitale, sono inammissibili, in quanto non colgono la ratio decidendi del provvedimento impugnato, che non ha operato alcuna riduzione della prevista penale, ma ha solo – legittimamente per quanto sopra osservato – ritenuto che la stessa contrastasse con la disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., in quanto era volta ad attribuire al concedente vantaggi ulteriori rispetto a quelli consentiti.

6. Il sesto motivo, con il quale si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione all’asserito carattere indeterminato della clausola n. 17 del contratto, che disciplina la prevista penale, nonchè il settimo motivo, con il quale si lamenta, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 96,55 e 72-quater, sono inammissibili, in quanto, ancora una volta, traggono il loro fondamento dalla possibilità di conseguire, per effetto della risoluzione del contratto, utilità diverse ed ulteriori da quelle assicurate dalla norma inderogabile dell’art. 1526 c.c. e, in concreto, riconosciute con il provvedimento di ammissione al passivo.

7. In conclusione, il ricorso va rigettato. Nulla per le spese, attesa l’assenza di attività difensiva della parte intimata.

PQM

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 dicembre 2017

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