Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31194 del 29/12/2017


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Civile Ord. Sez. 1 Num. 31194 Anno 2017
Presidente: GIANCOLA MARIA CRISTINA
Relatore: DE MARZO GIUSEPPE

sul ricorso 27282/2011 proposto da:

C _O t C_ ì,

Unicredit Credit Management Bank s.p.a., nella qualità di mandataria
della Unicredit Leasing s.p.a. (attuale denominazione della Locat s.p.a.
in seguito di fusione di quest’ultima con la Unicredit Global Leasing
s.p.a.), in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in Roma, piazzale Flaminio, n. 9, presso
l’avvocato Carlo Sebastiano Foti, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato Gianfranco Zurlo, giusta procura in calce al
ricorso;
-ricorrente contro
Fallimento Gasparini s.r.l. in liquidazione;

Data pubblicazione: 29/12/2017

- intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di FERMO, depositato il 27/09/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

FATTI DI CAUSA
1. Con decreto depositato il 27 settembre 2011 il Tribunale di Fermo
ha rigettato l’opposizione proposta da Unicredit Credit Management
Bank s.p.a. avverso il decreto del 4 marzo 2011, comunicato il 29
marzo 2011, con il quale il giudice delegato del fallimento della
Gasparini s.r.l. in liquidazione aveva ammesso al passivo, in via
chirografaria, soltanto la somma di euro 41.467,80, oltre interessi di
mora al saggio contrattuale (con esclusione dell’euribor a 3 mesi – 7°/o,
in quanto eccedente il tasso soglia previsto dalla disciplina in tema di
usura) fino alla data del fallimento.
Tale importo rappresenta la differenza tra, da un lato, l’importo di euro
670.637,40, determinato a titolo di equo compenso, ai sensi dell’art.
1526 cod. civ. (e costituente la somma tra la perdita di valore del bene
– euro 536.300,00 – e gli interessi sull’investimento – euro
134.337,40), e, dall’altro, l’ammontare dei canoni versati,
nell’esecuzione del contratto di leasing concluso fra le parti (euro
629.169,60).
2. Il Tribunale ha ritenuto che il contratto in esame dovesse essere
qualificato come leasing traslativo, in quanto: a) il bene che ne
costituiva l’oggetto, alla scadenza naturale del rapporto negoziale,
avrebbe avuto un valore residuo consistente e comunque superiore al
prezzo finale di riscatto (euro 360.000,00, oltre i.v.a.: circostanza non

23/05/2017 dal cons. DE MARZO GIUSEPPE.

contestata, aggiunge il decreto impugnato); b) era stata prevista,
dall’art. 8 del contratto, la possibilità per l’utilizzatore di chiedere una
proroga del rapporto di locazione finanziaria ed era stato imposto, con
l’art. 10 del medesimo contratto, l’obbligo di mantenere l’immobile in
buono stato di efficienza.

norma imperativa, che, in caso di risoluzione del contratto per
inadempimento dell’utilizzatore, consente al concedente di ottenere un
equo compenso, destinato ad includere la remunerazione del
godimento del bene e il deprezzamento derivante dal logoramento per
l’uso, ma non anche il mancato guadagno, al più essendo riconoscibile
il risarcimento del danno, derivante da un deterioramento anomalo del
bene stesso. Pertanto, la penale richiesta dal concedente, parametrata
ai canoni a scadere dalla data della risoluzione, attualizzati, con
detrazione di quanto ricavato dalla vendita del bene, oltre ad essere
manifestamente eccessiva, rappresentava uno strumento finalizzato
ad eludere la norma imperativa dettata dall’art. 1526 cod. civ. e,
peraltro, era disciplinata da una clausola contrattuale (l’art. 17 del
contratto) affetta da insanabile indeterminatezza, quanto ai criteri di
stima del valore del bene, da scomputare dalla somma dei canoni a
scadere.
3. Avverso tale decreto Unicredit Credit Management Bank s.p.a. ha
proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi. La curatela
intimata non ha svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma primo,
n. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 99 e 36-bis I. fall., dell’art.
2 della I. 7 ottobre 1969, n. 742, dell’art. 2697 cod. civ., dell’art. 115
cod. proc. civ., dell’art. 2 Cost.; nonché, ai sensi dell’art. 360, comma

Da tale qualificazione discendeva l’applicazione dell’art. 1526 cod. civ.,

primo, n. 5, cod. proc. civ., difetto di motivazione congrua e logica su
di un fatto decisivo della controversia.
Rileva la ricorrente che, nell’ambito del giudizio di opposizione dinanzi
al Tribunale di Fermo, la curatela fallimentare si era costituita
tardivamente, con memoria depositata solo in data 6 settembre 2011,

laddove, tenuto conto che il procedimento de quo è assoggettato alla
disciplina della sospensione feriale dei termini, la costituzione, rispetto
all’udienza del 16 settembre 2011, sarebbe dovuta intervenire entro
il 21 luglio 2011, anche per garantire l’integrità del contraddittorio.
Ne discende, secondo la ricorrente, la tardività delle eccezioni svolte
dalla curatela e aventi ad oggetto l’eccessività della penale e la nullità
delle clausole contrattuali di cui agli artt. 17 e 18 nonché
l’inutilizzabilità dei documenti prodotti dalla controparte, con
particolare riguardo: a) alla perizia dell’immobile effettuata per conto
del curatore, alla stregua della quale era stato determinato il valore
residuo del bene; b) alla relazione del dott. Ferrini, quanto alla asserita
usurarietà degli interessi di mora.
In conclusione, il Tribunale avrebbe dovuto fondare la sua decisione
esclusivamente sulla documentazione prodotta dal ricorrente, ossia
sul foglio finanziario, dal quale si poteva desumere il complessivo
importo dell’operazione economica (capitale erogato e remunerazione
dello stesso), necessario per determinare l’eventuale equo compenso
spettante alla società concedente.
Il motivo è infondato.
Occorre premettere che la ricorrente denuncia un error in procedendo.
Ne discende che non è consentito alla parte interessata di formulare,
in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, spettando
alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato o non il denunciato
vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti,
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indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità
dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto. Né il
mancato esame, da parte di quel giudice, di una questione puramente
processuale può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi
quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o

eccezioni di merito (Cass. 10 novembre 2015, n. 22952).
Ciò posto, non è evidentemente in discussione l’operatività della regola
di computo dei termini a ritroso, quando essi cadano nel periodo di
sospensione feriale. Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di
precisare che la sospensione dei termini processuali durante il periodo
feriale, ai sensi della I. n. 742 del 1969, comporta la sottrazione del
medesimo dal relativo computo, sicché, ai fini della costituzione del
convenuto in primo grado, il termine di venti giorni prima dell’udienza
di comparizione fissata nell’atto di citazione, il cui rispetto è necessario
per la proposizione della domanda riconvenzionale, va calcolato, ove
sia indicata un’udienza per una data successiva al compimento del
periodo feriale ma tale che il termine di venti giorni ricada in detto
periodo, mediante un conteggio a ritroso che in detta frazione
temporale incontra una parentesi oltre la quale il conteggio stesso
deve proseguire fino ad esaurimento (Cass. 17 maggio 2010, n.
12044).
Assume, invece, rilievo il significato dell’art. 99, comma settimo, I.
fall., applicabile ratione temporis, a mente del quale la costituzione si
effettua mediante il deposito in cancelleria di una memoria difensiva
contenente, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito
non rilevabili d’ufficio nonché l’indicazione specifica dei mezzi di prova
e dei documenti prodotti.
Come di recente chiarito da questa Corte, con riferimento allo
speculare comma secondo del medesimo art. 99, che si occupa della
5

posizione dell’opponente, quest’ultimo deve, a pena di decadenza,
soltanto indicare specificatamente i documenti, di cui intende
avvalersi, già prodotti nel corso della verifica dello stato passivo
innanzi al giudice delegato, sicché, in difetto della produzione di uno
di essi, il tribunale deve disporne l’acquisizione dal fascicolo d’ufficio
della procedura fallimentare ove esso è custodito (Cass. 18 maggio

2017, n. 12549).
Si è, al riguardo, condivisibilnnente osservato che il tenore della norma
in esame, letta alla luce del principio di non dispersione della prova
ormai acquisita al processo (ribadito da ultimo da Cass. s.u.
10/07/2015, n. 14475), nonché delle recenti novelle legislative in
tema di deposito telematico obbligatorio delle domande e dei
documenti nella verifica dello stato passivo, impone di ritenere che
l’opponente (e identiche considerazioni valgono per il caso, rilevante
nel presente procedimento, del resistente), sia onerato soltanto di
indicare i documenti che abbia già prodotto nel giudizio, vale a dire
sia dei documenti nuovi che intenda allegare per la prima volta al
ricorso in opposizione, sia di quelli già inseriti nel fascicolo della
procedura fallimentare.
In conclusione, deve ritenersi che, una volta inserito nel fascicolo
fallimentare – un tempo mediante il deposito cartaceo e oggi per via
esclusivamente telematica -, il documento di natura probatoria
prodotto dal creditore istante (e lo stesso vale per la documentazione
della curatela fallimentare) entri a fare parte dell’unico fascicolo della
procedura (tenuto all’attualità in modalità informatica) e come tale sia
destinato, in caso di successiva impugnazione dello stato passivo, ad
essere acquisito – com’è proprio di qualsivoglia atto contenuto nel
fascicolo d’ufficio – nella sfera di cognizione del giudice, alla sola

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condizione che esso sia stato espressamente indicato dalla parte
interessata.
Con riferimento, invece, alle eccezioni svolte dalla curatela si osserva
che esse, investendo la validità di clausole contrattuali, anche alla luce
della norma imperativa di cui all’art. 1526 cod. civ., sono rilevabili

dettata dall’art. 99 I. fall.
2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma
primo, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt.
1362 e 1363 cod. civ.; nonché, ai sensi dell’art. 360, comma primo,
n. 5, cod. proc. civ., motivazione illogica, incongruente e incompleta
nonché affetta da evidente contrasto con risultanze testuali ricavabili
dalle prove documentali, in relazione ad un fatto decisivo per la
controversia.
Osserva la ricorrente: a) che il Tribunale di Fermo aveva
erroneamente istituito una corrispondenza automatica tra leasing
traslativo e bene, oggetto del contratto, avente un valore residuo
superiore al prezzo di opzione, mentre avrebbe dovuto tenere conto
anche di altri indici, espressivi delle peculiarità del caso concreto, e,
in particolare, del fatto che, ai sensi dell’art. 5 del contratto, l’insieme
dei canoni di cui si prevedeva il pagamento non solo non copriva la
remunerazione del capitale investito nell’operazione, ma era inferiore
allo stesso capitale erogato per l’acquisto; b) che anche gli altri profili
valorizzati dal decreto impugnato (la possibilità di rinnovazione del
contratto, l’obbligo di mantenere l’immobile in buono stato di
manutenzione) erano criteri secondari, da valutare solo dopo avere
esaminato il rapporto tra il valore complessivo dei canoni e la legittima
aspettativa contrattuale, che deve tener conto della prevista

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d’ufficio e si sottraggono, per quanto sopra detto, alla disciplina

remunerazione del capitale mediante la previsione di interessi
corrispettivi.
La doglianza è infondata.
Tenuto conto che la sentenza dichiarativa del fallimento è del 18
settembre 2010 e che la ricorrente deduce che la Unicredit Leasing si

2008, non trova applicazione l’art. 72-quater I. fall.
Tale norma, infatti, opera solo nel caso in cui il contratto di leasing sia
pendente al momento del fallimento dell’utilizzatore, mentre, ove si sia
già anteriormente risolto, occorre distinguere a seconda che si tratti di
leasing finanziario o traslativo, solo per quest’ultimo potendosi
utilizzare, in via analogica, l’art. 1526 cod. civ. (Cass. 9 febbraio 2016,
n. 2538).
Ciò posto, si rileva che, ai fini della qualificazione come

leasing

traslativo di un contratto avente ad oggetto l’utilizzazione di beni atti
a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo
convenuto per l’opzione e dietro canoni che scontano anche una quota
del prezzo, ciò che rileva, indipendentemente dalla circostanza che
concedente sia il produttore del bene ovvero un imprenditore che
l’acquisti per porlo a disposizione dell’utilizzatore, è se il godimento
temporaneo da parte dell’utilizzatore esaurisca la funzione economica
del bene ovvero la durata del contratto sia predeterminata solo in
funzione dell’ulteriore differito trasferimento del bene e della
rateizzazione del prezzo d’acquisto (Cass. 23 maggio 2008, n. 13418).
Siffatto orientamento trae origine dalle indicazioni di Cass., Sez. Un.,
7 gennaio 1993, n. 65), secondo la quale la ricostruzione, nell’uno o
nell’altro senso, dell’intenzione delle parti trasfusa nel regolamento
negoziale è problema da risolvere caso per caso, alla luce delle
concrete peculiarità delle singole fattispecie, e costituisce una quaestio
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era avvalsa della clausola risolutiva espressa in data 20 – 27 novembre

voluntatis la cui soluzione è compito specifico del giudice del merito; il
quale dovrà a tal fine tener conto non solo dell'”indice” innanzi cennato
(confronto tra valore residuo del bene e prezzo di opzione), ma anche
di ogni altro utile elemento emergente alle clausole dei singoli contratti,
potendosi, ad esempio, considerare indizi confermativi dell’intento

previsione della facoltà per l’utilizzatore di chiedere la proroga del
rapporto sul presupposto dell’ulteriore utilizzabilità del bene
medesimo; b) l’obbligo, imposto all’utilizzatore, di riconsegnare il bene
in buono stato di manutenzione e di funzionamento; c) il rapporto tra
durata del contratto e periodo di prevedibile obsolescenza tecnica ed
economica del bene in relazione alla natura ed alle modalità d’uso del
medesimo.
Tali indicazioni non sono affatto smentite dalle decisioni menzionate
dalla ricorrente.
È, infatti, conclusione condivisa quella secondo cui ricorre la figura del
leasing di godimento allorquando l’insieme dei canoni di cui il contratto
prevede il pagamento per l’arco della sua durata è inferiore, in modo
consistente, alla remunerazione del capitale investito nell’operazione
di acquisto e concessione in godimento del bene e lascia non coperta
una non irrilevante parte di questo capitale, il prezzo pattuito per
l’opzione è di corrispondente altezza, è prevista un’alternativa
all’opzione sotto forma di rinnovazione del contratto; mentre, al
contrario, se l’insieme dei canoni che devono essere pagati dal
conduttore remunera interamente il capitale impiegato nell’operazione
e il prezzo di opzione è in rapporto a quell’insieme sostanzialmente
irrilevante, in questo caso, per accertare se si è in presenza di un

leasing traslativo ovvero di un leasing di godimento, occorre porre a
raffronto, non l’insieme dei canoni e il prezzo d’opzione, ma il
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delle parti di privilegiare, ab initio, il trasferimento del bene: a) la

prevedibile valore residuo del bene alla scadenza del contratto e il
prezzo d’opzione, perché se il primo sopravanza in modo non
indifferente il secondo, ciò sta a significare che i canoni hanno incluso
per una parte il corrispettivo del valore d’uso e per un’altra il
corrispettivo del valore d’appartenenza (Cass. 18 novembre 1998, n.

gennaio 2011, n. 1748.
Tuttavia, in questa cornice normativa ed interpretativa di riferimento,
che non è affatto disattesa dal Tribunale – talché è da escludere, sotto
tale profilo, una violazione di legge -, le critiche della ricorrente non
riescono a dimostrare né una inosservanza delle regole
dell’ermeneutica contrattuale, né un vizio motivazionale, per
l’assorbente ragione che insistono nel sostenere che l’insieme dei
canoni previsti non copriva la remunerazione del capitale e, anzi, era
inferiore allo stesso capitale erogato per l’acquisto, senza considerare
che tutto il quadro finanziario dell’operazione è viziato da una
usurarietà degli interessi previsti dalla clausola n. 5 del contratto che,
ritenuta dal provvedimento iniziale, non ha costituito oggetto di
impugnazione.
A ciò si aggiunga che tutte le valutazioni che, al fine si concentrano sul
rapporto tra prezzo di opzione e valore finale, sono assolutamente
generiche e congetturali, limitandosi la ricorrente ad affermare che, se
il bene si era deprezzato in una certa percentuale dal momento della
conclusione del contratto alla data della stima operata in sede
fallimentare, poteva ritenersi presumibile una ulteriore e proporzionale
riduzione sino alla data di naturale scadenza del contratto, in tale modo
rendendo il divario ravvisato dal Tribunale, tra prezzo dell’opzione e
valore residuo, non “così esorbitante”.

IO

11614). Negli stessi termini si colloca anche l’invocata sentenza 25

Tuttavia, è agevole rilevare che tale riflessione, del tutto sfornita di
base oggettiva – giacché non s’intende il fondamento di un
deprezzamento lineare del bene – comunque non è idonea ad intaccare
la logicità della conclusione dei giudici di merito e del percorso
argomentativo che la sostiene.

n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli art. 1526 cod.
civ., dell’art. 12 delle disp. prel. cod. civ., degli artt. 1322 e 1362 cod.
civ., rilevando che, ferma la inderogabilità della disciplina dettata
dall’art. 1526 cod. civ., il Tribunale non aveva vagliato la congruità
dell’assetto regolamentare, alla luce della

ratio

di quest’ultima

previsione, che comunque intende assicurare al concedente il
corrispettivo globale dell’operazione finanziaria, ossia il capitale e l’utile
programmato.
La censura è infondata, giacché, ancora una volta, tutte le valutazioni
espresse dalla ricorrente, eludendo il tema della usurarietà degli
interessi pattuiti, insistono in un utile atteso, al quale non aveva
diritto.
È in questa prospettiva che va ribadito che, al leasing traslativo si
applica la disciplina di carattere inderogabile di cui all’art. 1526 cod.
civ. in tema di vendita con riserva della proprietà, la quale comporta,
in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, la
restituzione dei canoni già corrisposti e il riconoscimento di un equo
compenso in ragione dell’utilizzo dei beni, tale da remunerare il solo
godimento e non ricomprendere anche la quota destinata al
trasferimento finale di essi; ne consegue che il concedente,
mantenendo la proprietà del bene ed acquisendo i canoni maturati fino
al momento della risoluzione, non può conseguire un indebito

11

3. Con il terzo motivo, si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma primo,

vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo
valore del bene (Cass. 27 settembre 2011, n. 19732).
Nello stesso senso, si veda anche Cass. 10 settembre 2010, n. 19287,
secondo cui l’art. 1526 cod. civ., applicabile alla fattispecie negoziale

avvenga per l’inadempimento del compratore (nel

leasing,

utilizzatore), debba essere riconosciuto al venditore (nel

leasing,

concedente) – tenuto a restituire le rate riscosse – il diritto all’equo
compenso per l’uso della cosa comprensivo della remunerazione del
godimento del bene, del deprezzamento conseguente alla sua
incommerciabilità come nuovo e del logoramento per l’uso, oltre al
risarcimento del danno, eventualmente derivante da un
deterioramento anormale della cosa.
Alle superiori considerazioni, deve aggiungersi che l’argomento
sviluppato dalla ricorrente, secondo la quale, la somma per la quale
era stata ammessa al passivo (euro 41.467,80), aggiunta al presunto
valore del bene (euro 663.700,00), determinava un credito di euro
705.167,80, ossia un importo quasi dimezzato rispetto al solo capitale
erogato per l’acquisto del bene (euro. 1.200.000,00), trascura del
tutto il fatto che il menzionato valore residuo del bene deve essere
maggiorato dell’intero importo per l’equo compenso (ossia, euro
670.637,40) e che la somma ammessa al passivo deriva dalla
differenza fra quest’ultimo importo e i canoni già versati.
4. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma
primo, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt.
1526, 1322, 1382 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per
il giudizio, per avere il Tribunale, nonostante l’assenza di qualunque
limitazione dell’art. 1526 cod. civ., circoscritto il risarcimento del
12

del leasing traslativo, prevede che nel caso in cui la risoluzione

danno accordabile al concedente al solo pregiudizio derivante
dall’anormale deterioramento della cosa.
Il motivo è infondato, in quanto l’orientamento recepito dal Tribunale
di Fermo, coerente con le ricordate decisioni di questa Corte (ad es.,
Cass. 19287 del 2010), le quali circoscrivono il risarcimento ai danni

affatto che il concedente abbia diritto, all’interno dell’equo compenso,
alla remunerazione per il godimento del bene da parte dell’utilizzatore.
E anche nel caso concreto la determinazione della somma spettante
alla ricorrente tiene conto degli interessi sull’investimento iniziale sino
alla risoluzione.
Non tiene conto di quelli successivi – e reputa la prevista clausola
penale soltanto un modo per aggirare la disciplina inderogabile dettata
dall’art. 1526 cod. civ. – perché estranei, al di là della generale
previsione normativa, all’assetto di interessi voluto dal legislatore, che
non attribuisce rilievo alle prospettive di guadagno del concedente,
ritenendole compensate con la definitiva attribuzione del bene e con
le conseguenti possibilità di utilizzazione economica dello stesso.
5. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma primo,
n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1384 e
1526 cod. civ. (e nel corpo della censura, anche difetto di
motivazione).
Le censure che si articolano attorno ai presupposti normativi per la
riduzione della penale e insistono nel sottolineare la centralità
dell’aspettativa del concedente di ottenere la remunerazione del
capitale, sono inammissibili, in quanto non colgono la ratio decidendi
del provvedimento impugnato, che non ha operato alcuna riduzione
della prevista penale, ma ha solo – legittimamente per quanto sopra
osservato – ritenuto che la stessa contrastasse con la disciplina
13

derivanti dell’anormale deterioramento del bene, non escludono

dettata dall’art. 1526 cod. civ., in quanto era volta ad attribuire al
concedente vantaggi ulteriori rispetto a quelli consentiti.
6. Il sesto motivo, con il quale si lamenta, ai sensi dell’art. 360,
comma primo, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione
degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. in relazione all’asserito carattere

prevista penale, nonché il settimo motivo, con il quale si lamenta,
sempre ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione degli artt. 96, 55 e 72-quater I. fall.,
sono inammissibili, in quanto, ancora una volta, traggono il loro
fondamento dalla possibilità di conseguire, per effetto della risoluzione
del contratto, utilità diverse ed ulteriori da quelle assicurate dalla
norma inderogabile dell’art. 1526 cod. civ. e, in concreto, riconosciute
con il provvedimento di ammissione al passivo.
7. In conclusione, il ricorso va rigettato. Nulla per le spese, attesa
l’assenza di attività difensiva della parte intimata.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Cosi deciso in Roma il 23 maggio 2017
Il Presidente
11 Funzi-onarìo Gi’udiz
Dott.ssci Fabrizia RAR

e

Maria Cristina Giancola

indeterminato della clausola n. 17 del contratto, che disciplina la

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