Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31180 del 28/11/2019

Cassazione civile sez. II, 28/11/2019, (ud. 14/01/2018, dep. 28/11/2019), n.31180

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonio – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5610/2015 R.G. proposto da:

D.V.A., rappresentato e difeso dall’avv. Alberto

Costantini, con domicilio eletto in Roma, Corso d’Italia n. 19;

– ricorrente –

contro

VE.CO. S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t.

M.S., rappresentata e difesa dagli avv. Alessandro Pallottino, con

domicilio in Roma, via Oslavia n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 4685 depositata

l’11 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 gennaio

2019 dal Consigliere Dott. Milena Falaschi.

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– il Tribunale di Viterbo, con sentenza n. 1086 del 30 novembre 2006, rigettava le domande di demolizione delle opere realizzate a distanza inferiore a quella legale, nonchè di risarcimento dei danni, proposte da D.V.A. nei confronti della Ve.Co. s.r.l., accertata l’insussistenza, attraverso la c.t.u. acquisita, delle violazioni in materia di distanze sia in relazione al fabbricato residenziale di nuova costruzione sia con riguardo agli ulteriori immobili non costituenti nuova costruzione;

– sul gravame interposto da D.V.A., la Corte d’appello di Roma, nella resistenza degli appellati, rigettava il gravame e, per l’effetto, confermava la sentenza di primo grado;

– per la cassazione della decisione della Corte d’appello di Roma ricorre D.V.A. sulla base di sei motivi;

– la Società intimata resiste con controricorso;

– in prossimità dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente censura, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2, art. 100 c.p.c. e art. 279 c.p.c., comma 4, per aver errato la Corte di merito a ritenere passata in giudicato la statuizione che affermava l’incompetenza del giudice civile a conoscere della legittimità della concessione edilizia, provvedimento contenuto nell’ordinanza del giudice di primo grado, con la quale aveva rigettato l’istanza di sospensione del giudizio, ex art. 295 c.p.c., proposta dalla Ve.Co. s.r.l.. A detta del ricorrente, infatti, il giudice d’appello non avrebbe potuto accogliere la tesi avversaria sul passaggio in giudicato dell’ordinanza, poichè questione nuova, non dedotta dalla Società neanche in sede di precisazione delle conclusioni. Peraltro, tale ordinanza, sottratta ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze, non sarebbe stata da lui impugnabile per carenza di interesse, avendo il provvedimento rigettato l’istanza della Ve.Co., negando la sospensione del giudizio.

Il motivo è inammissibile.

Premesso che l’interesse ad impugnare va desunto dall’utilità giuridica (e non di mero fatto) che dal possibile accoglimento dell’impugnazione possa derivare alla parte che lo propone, nella specie l’eventuale l’accoglimento di tale motivo di gravame non potrebbe condurre ad alcun effetto giuridico favorevole per il ricorrente.

Invero, qualora, come dedotto dal ricorrente (v. pag. 7 del ricorso), si qualificasse il provvedimento del 2 aprile 2005 quale ordinanza di diniego della sospensione del processo, ai sensi del disposto dell’art. 42 c.p.c., tale decisione non sarebbe stata comunque impugnabile con lo speciale rimedio del regolamento di competenza, essendo ciò escluso dalla formulazione letterale della norma che lo prevede, dalla “ratio” di essa (quella, cioè, di assicurare un controllo immediato sulla legittimità di un provvedimento idoneo ad incidere significativamente sui tempi di definizione del processo) e dall’impossibilità di accedere ad un’interpretazione analogica della norma, dato il suo carattere eccezionale (cfr. da ultimo, Cass. n. 5645 del 2017).

Al contrario, ove si accedesse a un’interpretazione della decisione nel senso di un’implicita statuizione sulla giurisdizione, contraria all’interesse del ricorrente, allora, come chiarito dalle SS.UU. di questa Corte con la decisione n. 9072 del 2003, avrebbe dovuto essere impugnata immediatamente ovvero con riserva.

In ogni caso, la decisione della Corte di appello sul punto non ha pregiudicato l’esito del giudizio, giacchè a tale statuizione non è conseguito automaticamente il rigetto dell’appello proposto, bensì l’esame nel merito della domanda attorea e dunque si tratta di doglianza comunque priva di decisività;

– con il secondo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 2248 del 1865, artt. 1,2 e 4, all. e). A detta del ricorrente, la motivazione della sentenza sarebbe contraddittoria dal momento che accerterebbe la ristrutturazione della costruzione edilizia, pur affermando il difetto di giurisdizione sulla legittimità della concessione edilizia. Inoltre, la decisione della Corte d’appello sarebbe contraria alla legge sul contenzioso amministrativo, che impone al giudice ordinario il dovere di conoscere della legittimità dell’atto amministrativo qualora lesivo di un diritto soggettivo e di disapplicarlo in caso di accertata illegittimità.

Il motivo è privo di pregio.

Come più volte ribadito da questa Corte, le controversie tra proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto questioni relative all’osservanza di norme che prescrivono distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, nè a tal fine rileva l’avvenuto rilascio di concessione edilizia, atteso che il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare l’eventuale illegittimità della concessione edilizia medesima, onde disapplicarla.

La giurisdizione del giudice amministrativo è, invece, al riguardo configurabile allorchè la controversia sia insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta concessione al fine di ottenerne l’annullamento nei confronti della seconda (Cass., Sez. Un., n. 21578 del 2011).

In una controversia tra privati, attinente a diritti soggettivi, il giudice può dunque trovarsi a scrutinare la legittimità di provvedimenti amministrativi, ricorrendo eventualmente al potere di disapplicazione dell’atto, con il divieto di annullarlo, modificarlo o revocarlo, ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, all. E.

Nella specie, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, il giudice di merito ha positivamente accertato il rispetto, da parte della Ve.Co. s.r.l., delle norme edilizie in materia di realizzazione degli edifici, giungendo alla conclusione della insussistenza delle violazioni lamentate dall’originario attore e ciò non risulta affatto illogico con le premesse sopra affermate. Siffatte conclusioni hanno fatto logicamente escludere in radice l’esigenza di provvedere alla disapplicazione dell’atto amministrativo in questione;

– con il terzo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 2248 del 1865, artt. 1,2 e 4, all. e), nonchè la violazione dell’art. 3 del T.U. sull’edilizia. A detta del ricorrente, la Corte di merito avrebbe errato a qualificare la modifica urbanistica effettuata dalla Società una “ristrutturazione”, anzichè una “nuova costruzione”. Invero, anche a voler ritenere operante la più permissiva normativa del 2002, nella specie la costruzione non rispetterebbe le sagome, ossia il perimetro orizzontale e verticale della precedente struttura. In più, si tratterebbe di ruderi abbattuti, come tali escludenti l’ipotesi della ristrutturazione.

Anche la terza censura non può trovare ingresso.

Occorre premettere che le disposizioni in materia edilizia, nell’ipotesi di successione di norme nel tempo, sono di immediata applicazione, essendo poste a tutela dell’interesse generale nel campo urbanistico, prescindendo dall’interesse del privato. Conseguentemente, se, dopo la concessione della licenza edilizia, sopravviene una diversa regolamentazione sulle distanze, le costruzioni devono adeguarsi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione, a nulla rilevando il legittimo rilascio della precedente autorizzazione a costruire (Cass. n. 24206 del 2018).

E’ irrilevante, pertanto, ai fini della normativa applicabile, la data di rilascio della concessione, dovendosi al contrario farsi riferimento alla data di realizzazione della costruzione, data peraltro non chiarita dal ricorrente.

In ogni caso, la Corte di merito ha accertato, a fronte delle risultanze emerse dalla consulenza tecnica di ufficio espletata dall’architetto R., che l’intervento della Società rispettava gli stessi allineamenti e gli stessi distacchi del preesistente fabbricato e che, pertanto, non realizzava una nuova costruzione, ma costituiva ipotesi di una ristrutturazione edilizia (Cass., Sez. Un., n. 21578 del 2011 e Cass., Sez. Un., n. 15041 del 2018).

La nozione di “ristrutturazione edilizia” è fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), che, per quel che qui rileva, ricomprende in essa anche gli interventi “consistenti nella demolizione e ricostruzione” di fabbricati esistenti, purchè la ricostruzione avvenga “con la stessa volumetria e sagoma” dell’edificio demolito.

Quello richiamato è il testo dell’art. 3 cit. successivo al D.Lgs. n. 301 del 2002, la sua versione originaria essendo ancora più restrittiva, giacchè rientravano negli interventi di “ristrutturazione edilizia” solo “quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”.

In ogni caso, anche nel testo successivo al 2002, rientrano nella “ristrutturazione edilizia” solo gli interventi di demolizione e ricostruzione che rispettino il vincolo di “volume” e “sagoma”. E’ solo con il D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 30, che il legislatore ha espunto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), il riferimento alla “sagoma”, lasciando in quella norma solo la menzione del vincolo di “volume”, ma si tratta di normativa non rilevante al fine del presente giudizio, giacchè ai sensi del comma 6, la disposizione dell’art. 30 cit. si applica dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, cioè dall’entrata in vigore della L. 9 agosto 2013, n. 98, quindi successivamente all’emanazione del provvedimento e alla realizzazione del fabbricato oggetto del presente giudizio.

D’altra parte, con riferimento al periodo anteriore al D.L. n. 69 del 2013 (o meglio alla sua conversione in legge), il vincolo della “sagoma” al fine di poter ricondurre un intervento edilizio di demolizione e ricostruzione alla “ristrutturazione edilizia” era del tutto cogente anche per il legislatore regionale, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 309 del 23.11.2011, che ha dichiarato illegittima una previsione della legislazione regionale della Lombardia che definiva come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma.

In relazione a siffatti accertamenti, condotti alla stregua delle norme sopra richiamate, il ricorrente si limita a dedurre genericamente che la Ve.Co. non avrebbe rispettato le sagome del preesistente edificio e ad affermare lo stato di ruderi degli edifici preesistenti, senza peraltro indicare specificamente, come sarebbe stato necessario, da quali risultanze e da quali rilievi, tempestivamente svolti in causa, dovrebbe desumersi una diversa conformazione dei luoghi;

– con il quarto motivo è lamentata, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 872 c.c., comma 2, in quanto – a detta del ricorrente – la Corte di merito avrebbe escluso, relativamente alle altezze dei fabbricati situati nella sezione denominata D.D., la violazione in materia di distanze, per avere considerato le norme di edilizia locale poste a tutela di interessi generali e, come tali, non invocabili nella disciplina dei rapporti intersoggettivi.

Il motivo è inammissibile, poichè non coglie la ratio della sentenza impugnata.

La corte di merito ha, infatti, escluso la violazione delle norme sulle altezze dei fabbricati, anche per quanto riguarda quelli situati nella sezione denominata D.D., perchè, come evidenziato dall’ausiliario del giudice, l’arch. R., gli interventi edilizi non comportavano modificazioni negli allineamenti o nei distacchi rispetto all’edificio preesistente, così da non potersi qualificare come “nuova costruzione”. Tale considerazione emerge dall’incipit (“altrettanto dicasi…”) con il quale la Corte di appello, a pag. 6 della sentenza, introduce l’accertamento con riferimento agli interventi svolti nella sezione D.D..

Il ricorrente anche in questo caso si limita a censurare la motivazione della Corte d’appello relativa alla parte interrata del fabbricato, peraltro molto genericamente, deducendo che le altezze del nuovo fabbricato sarebbero più che doppie rispetto a quelle dei fabbricati demoliti, senza nemmeno indicare le parti della consulenza tecnica ritenute erroneamente disattese dal giudice di merito, nè svolgere concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione, così non consentendo al giudice di legittimità (cui non è dato l’esame diretto degli atti se non in presenza di “errores in procedendo”) di effettuare, al fine di pervenire ad una soluzione della controversia differente da quella adottata dal giudice di merito, il controllo della decisività della risultanza non valutata e un’adeguata disamina del dedotto vizio della sentenza impugnata. E’ pur vero che ai fini del rispetto delle norme contenute nei regolamenti edilizi – laddove stabiliscono le distanze tra le costruzioni e di esse dal confine, essendo disciplina volta non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all’ambiente (finalità, quest’ultima, che viene realizzata dalle norme regolamentari stabilendo una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal citato art. 873 c.c.) – ciò che rileva è la distanza in sè delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello del fondi su cui insistono (Cass. n. 19350 del 2005), tuttavia la distanza non rileva se i fondi sono a dislivello, qualora si tratti di distanze fissate dal D.M. n. 1444 del 1968.

A prescindere dal considerare che nel caso di specie nulla di tutto ciò è descritto nel ricorso, la Corte di merito ha tenuto conto della descrizione dei luoghi fatta in perizia, alle pagine 57-60 e della documentazione ivi richiamata (tavola 14 sezione D.D.), laddove la parte interrata del fabbricato risulta posta a quota notevolmente inferiore rispetto al fabbricato del ricorrente, circostanza avvalorata dalla realizzazione di un muro di contenimento alto sedici metri per sostenere la proprietà del D.V.;

– con il quinto motivo viene lamentata, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., in combinato disposto con l’art. 872 c.c., comma 2, per aver la Corte di merito errato nel ritenere non provato il danno e il nesso di causalità. A detta del ricorrente, infatti, la violazione delle norme in tema di distanze comporterebbero un danno in re ipsa, avendo dunque egli provato il mancato rispetto delle altezze e delle volumetrie, non vi sarebbe stato null’altro da provare.

Il motivo non può trovare accoglimento per mancato accertamento del fatto presupposto costituito, per l’appunto, dalla violazione delle distanze.

La corte di merito, inoltre, ha escluso anche la sussistenza di un danno immediato e contestuale dei vicini per violazione delle norme dirette alla tutela di interessi generali urbanistici, non avendo il ricorrente/appellante fornito alcuna prova rigorosa dello stesso, necessaria in quanto dedotta in relazione a disposizioni non integrative delle norme sulle distanze;

– in via subordinata, poi, il ricorrente lamenta l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito nella L. n. 134 del 2012, che, escludendo dal codice di rito il vizio di motivazione come possibile causa di annullamento della sentenza di merito, confliggerebbe con gli art. 24 e 111 Cost., limitando irrazionalmente il diritto di difesa delle parti ed eludendo l’obbligo di motivazione della sentenza da parte del giudice.

La prospettata questione è manifestamente infondata sotto tutti gli evocati profili di censura.

L’intervento novellatore del giudizio di legittimità recato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito nella L. n. 134 del 2012, volto a tutelare la funzione nomofilattica di questa Corte, è ispirato, come già chiarito da questa Corte a Sezioni Unite (sentenza n. 8053/2014), da esigenze di semplificazione, snellimento e deflazione del contenzioso dinnanzi alla Corte di cassazione, proprio in attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost. e art. 6 CEDU e, per l’effetto, di quello della effettività della tutela giurisdizionale.

Come illustrato dal legislatore nella relazione al disegno di legge di conversione, infatti, lo scopo del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, D.L. n. 83, è quello di “migliorare l’efficienza delle impugnazioni sia di merito che di legittimità, che allo stato violano pressochè sistematicamente i tempi di ragionevole durata del processo”.

Ebbene, alla luce di tali esigenze, l’art. 360 c.p.c., n. 5, è stato interpretato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze n. 8053/2014 e 19881/2014, non, come dedotto dal ricorrente, escludendo dal codice di rito il vizio di motivazione come possibile causa di annullamento della sentenza di merito, bensì contemperando il controllo sulla motivazione con una risposta coerente alla riforma: la motivazione quindi continua ad operare quale strumento di controllo dell’operato del giudice di merito, necessario al fine di tutelare l’effettiva applicazione del diritto e a garanzia del diritto di difesa delle parti nel processo, ma deve essere contenuta entro i limiti della violazione di legge e pertanto non sindacabile laddove appaia funzionale a giustificare le ragioni di fatto e di diritto addotte del giudice di merito.

Il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità viene pertanto ricondotto al “minimo costituzionale”, così da operare un corretto bilanciamento tra garanzie costituzionalmente previste (obbligo di motivazione) e ruolo della Corte di cassazione quale giudice di legittimità (in un’ottica di efficienza della funzione giurisdizionale di legittimità).

Pertanto, a seguito della riforma del 2012, scompare il controllo sulla motivazione solo con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della società ricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misure del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 14 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

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