Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31168 del 03/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 03/12/2018, (ud. 25/10/2018, dep. 03/12/2018), n.31168

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15244/2017 proposto da:

I.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA UGO DE

CAROLIS 31, presso lo studio dell’avvocato VITO SOLA, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ORONZO CAPUTO e

AGNESE GUALTIERI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

V.J. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato IRENE MONTUORI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6664/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 14/12/2016, R.G.N. 3964/2014.

Fatto

CONSIDERATO

che:

La Corte d’Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da I.R. nei confronti della s.r.l. V.J., volte a conseguire il pagamento di differenze retributive spettanti in relazione al rapporto di lavoro intercorso fra le parti dal 16/3/2009 al 13/9/2010, e rigettato la domanda di accertamento della nullità del licenziamento intimatogli in forma orale in violazione della L. n. 108 del 1990, art. 2.

Con riferimento a tale ultima pretesa azionata, la Corte distrettuale argomentava che dal quadro istruttorio delineato in prime cure era emersa l’evidenza che il rapporto di lavoro fra le parti non si era risolto per iniziativa della parte datoriale – la quale aveva invece manifestato l’intento di proseguire nel rapporto con le medesime modalità in precedenza esplicate – bensì del lavoratore.

Avverso tale decisione I.R. interpone ricorso per cassazione sostenuto da due motivi. Resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

RILEVATO

Che:

1.- Il primo motivo prospetta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo all’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè “insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5”.

Venendo in discussione il quomodo della risoluzione di detto rapporto – ossia la questione relativa al fatto che il lavoratore fosse stato licenziato oppure si fosse dimesso – il ricorrente lamenta che il giudice del merito non abbia compiuto una corretta indagine di fatto ai sensi dell’art. 2697 c.c..

disponendo un’illegittima inversione dell’onere probatorio previsto dalla disposizione, e tralasciando di considerare che egli comunque aveva assolto all’onere di provare l’intervenuta estromissione dal rapporto.

Deduce che, in mancanza di prova delle dimissioni, non avendo la datrice di lavoro dimostrato di aver licenziato formalmente il lavoratore a norma di legge, il giudice di merito avrebbe dovuto concludere per l’accoglimento della domanda.

Richiama, quindi, i principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nella fattispecie considerata, il requisito della forma scritta del licenziamento prescritta ex lege a pena di nullità, resta a carico del datore di lavoro, la prova a carico del lavoratore riguardando esclusivamente l’estromissione dal rapporto.

Il ricorrente si duole, da ultimo, che la Corte di merito non abbia correttamente scrutinato il quadro istruttorio delineato in prime cure, omettendo di considerare la circostanza, ritenuta determinante ai fini della decisione, secondo la quale la parte datoriale avrebbe ingiunto al dipendente di andarsene se non avesse accettato il mantenimento delle precedenti condizioni del rapporto, desumibile dalle dichiarazioni testimoniali raccolte.

2. Il motivo presenta innanzitutto profili di inammissibilità attinenti alla tecnica redazionale promiscua, che reca la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge norrchè di vizi di motivazione senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dell’art. 360 c.p.c., comma 1, così dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irredimibile eterogeneità (vedi ex aliis, in motivazione, Cass. 6/5/2016 n. 9228).

Del pari, la mancata riproduzione delle testimonianze poste a fondamento della critica ridonda in termini di inammissibilità della stessa per difetto di specificità, di cui il principio di autosufficienza che governa il ricorso per cassazione è corollario.

3. Il motivo, è altresì, infondato.

In via di premessa, devono rammentarsi gli approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità sulla questione qui delibata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio di impugnazione di un licenziamento, il datore di lavoro, qualora neghi il licenziamento per essersi il rapporto sciolto a seguito delle dimissioni del lavoratore, è tenuto a provare le circostanze di fatto indicative dell’intento recessivo e non può limitarsi ad allegare l’allontanamento del lavoratore dall’azienda, attesa la natura di negozio giuridico unilaterale delle dimissioni, dirette alla rinunzia del posto di lavoro, bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. (cfr. in termini Cass. 22/5/2018 n. 12552, Cass. 3/3/2015 n. 4241 e già Cass. 13/4/2005 n. 7614).

Non può sottacersi, tuttavia, che è onere innanzitutto del lavoratore – il quale agisca in giudizio per la dichiarazione dell’illegittimità di un licenziamento – di provare l’esistenza del licenziamento medesimo (Cass. civ., 21/9/2000, n. 12520; nello stesso senso 12/4/2000, n. 4717; 25/2/2000, n. 2162; 25/10/2004, n. 20700), e a questo fine “non può ritenersi sufficiente la prova della cessazione di fatto delle prestazioni lavorative” (vedi Cass. 16/5/2001, n. 6727), giacchè si introdurrebbe, in assenza di una previsione di legge in tal senso, una sorta di esonero del lavoratore dall’onere della prova riguardo alla effettiva esistenza di un licenziamento; ferma restando la necessità della adeguata valutazione della incidenza sostanziale o probatoria di queste circostanze, sotto il profilo dell’integrazione di un licenziamento per fatti concludenti o della prova della sussistenza di un precedente atto risolutivo del datore di lavoro (cfr. Cass. cit. n. 6727/2001).

Ed allora, il giudice di merito, a fronte di contrapposte tesi circa la causa di cessazione del rapporto – in assenza di atti formali di licenziamento o di dimissioni e in presenza di contrapposte tesi circa la causale di detta cessazione – è tenuto ad indagare, sulla base d’elle evidenze istruttorie, il comportamento tenuto dalle parti da cui sia desumibile l’intento consapevole di voler porre fine al rapporto, con accertamento accurato, tenendo conto della circostanza che l’estromissione dal rapporto non può ricondursì tout court alla constatazione della cessazione di fatto dell’attuazione del rapporto, e prestando particolare attenzione al comportamento tenuto dalle parti da cui sia desumibile l’intento consapevole di voler porre fine al rapporto (cfr. Cass. 22/5/2018 n. 12552, Cass. 9/9/2011 n. 18523).

Orbene, a tali principi si è attenuta la Corte di appello che, senza incorrere nella denunciata violazione delle disposizioni in tema di ripartizione dell’onere probatorio, ha analiticamente ricostruito i fatti sulla base delle evidenze istruttorie dalle quali non era emersa una volontà di risolvere il rapporto da parte del datore di lavoro, per contro manifestata chiaramente dal dipendente.

In altre parole, non solo non è stato dimostrato il licenziamento orale del lavoratore, ma al contrario è risultato provato che il rapporto di lavoro si fosse risolto per iniziativa del medesimo ricorrente.

Alla stregua delle superiori argomentazioni, il motivo va pertanto, respinto.

4. Con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione in relazione agli artt. 112 e 437 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. Si stigmatizza l’impugnata sentenza per avere omesso di pronunciarsi sulla domanda di pagamento della indennità di preavviso che, diversamente da quanto argomentato dai giudici del gravame, era stata ritualmente proposta in primo grado, per l’ipotesi di mancato accoglimento della domanda di reintegra.

5. Il motivo è inammissibile.

Non può infatti tralasciarsi di considerare che reca la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, nonchè di vizi di motivazione, senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile al n. 3 o al n. 4 ovvero al n. 5 del comma 1 dell’art. 360, c.p.c., non consentendo una adeguata identificazione del devolutum.

Invero il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione.

La modalità di formulazione della seconda critica, appare irrispettosa del canone della specificità del motivo di impugnazione, non risultando possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, così determinandosi una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v. Cass. n. 7394 del 2010, n. 20355 del 2008, n. 9470 del 2008).

Si è infatti, ritenuta inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile, d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro.

Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del, ricorrente, a fine di decidere successivamente su di esse (in termini, fra le molte, Cass. 23/9/2011 n. 19443 cui acide, in motivazione, Cass. 6/5/2016 n. 9228).

6. In definitiva, le sinora esposte considerazioni inducono al rigetto del ricorso.

Le spese seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, n. 3 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, il comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2018

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