Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31150 del 03/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 03/12/2018, (ud. 24/09/2018, dep. 03/12/2018), n.31150

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22375/2014 proposto da:

MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA, (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende giusta delega in

atti;

– ricorrente –

e contro

P.E., rappresentata e difesa dall’Avv. Domenico De

Angelis presso il suo studio in Campobasso alla via F. Attellis n.

11;

– intimata –

avverso la sentenza n. 311/2013 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 27/01/2014, R.G.N. 17/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

P.E., appartenente all’area del personale amministrativo tecnico ed ausiliario della scuola, aveva convenuto in giudizio il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca chiedendo il riconoscimento a fini economici dell’anzianità di servizio, nonchè delle differenze dell’indennità integrativa, maturate alle dipendenze dell’amministrazione locale di provenienza prima del trasferimento nei ruoli del Ministero, disposto ai sensi della L. 3 maggio 1999, n. 124;

il Tribunale di Campobasso aveva accolto la domanda ma la sentenza era stata riformata dal secondo Giudice, il quale, nel rigettare l’appello, aveva posto a fondamento della decisione la norma dettata dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, della quale la Corte Costituzionale aveva escluso l’incostituzionalità (Corte Cost. n. 133 del 2009 e n. 173 del 2008);

detta norma, definita dal legislatore d’interpretazione autentica, aveva chiarito che il personale ATA andava inquadrato nelle qualifiche e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, e che l’eventuale differenza stipendiale andava corrisposta ad personam ed era utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale;

con sentenza n. 20433 del 2011 questa Corte, ricostruiti i termini della vicenda relativa al trasferimento nei ruoli dello Stato del personale ATA degli enti locali, ha richiamato la pronuncia della Corte Europea di Giustizia del 6 settembre 2011 in causa C – 108/10, e, in accoglimento del ricorso del Miur, ha cassato la sentenza di secondo grado, rinviando alla stessa Corte d’Appello di Campobasso in diversa composizione per un nuovo esame, attraverso il quale il Giudice nazionale avrebbe dovuto accertare la sussistenza o meno del denunciato peggioramento retributivo sostanziale subito da P.E. all’atto del trasferimento nei ruoli statali;

il Giudice del merito, in sede di rinvio, ha confermato la pronuncia del Tribunale di Campobasso, e, richiamandosi alle argomentazioni in essa contenute sia quanto alla ricostruzione del dato fattuale sia quanto alla valutazione del dato normativo, ha accolto l’originaria domanda di P.E., ritenendo accertato il denunciato peggioramento;

la cassazione della sentenza è domandata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica sulla base di due motivi. P.E. rimane intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il Ministero ricorrente deduce “Nullità della sentenza per motivazione meramente apparente: violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c.”; che in realtà la Corte territoriale attraverso il rinvio “secco” alla motivazione contenuta nelle pagine da 4 a 8 della sentenza gravata non consente di apprezzare quali siano gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento e, dunque, rende impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento seguito; ciò tanto più rileverebbe nel caso di specie, in quanto la Corte territoriale ha preteso di riscontrare l’aderenza della motivazione resa in prime cure al dato fattuale e normativo con riferimento a una pronuncia del 2003, là dove la sentenza rescindente aveva dato per presupposta la necessità di un nuovo accertamento atteso che la norma controversa era entrata in vigore successivamente alla pronuncia di primo grado; quest’ultima, infatti, lungi dal verificare la sussistenza di un peggioramento retributivo sostanziale, si era pronunciata sulla base di mere questioni di diritto inerenti l’applicazione della disciplina collettiva e normativa al caso del trasferimento;

con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il Ministero contesta “Violazione e/o falsa applicazione della L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8, comma 2, come interpretato dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, anche in combinato disposto con l’art. 384 c.p.c.”; il rinvio per relationem alla sentenza di primo grado, risalente al 2003, non consentirebbe di ritenere adempiuto da parte della Corte d’Appello in sede rescissoria il principio di diritto vincolante contenuto nel provvedimento di rinvio, e consistente nell’accertamento della sussistenza di un eventuale peggioramento retributivo occasionato dal trasferimento della ricorrente;

i motivi, da esaminarsi congiuntamente per connessione sono inammissibili;

entrambi si incentrano sull’asserita illegittimità della sentenza gravata nella parte in cui rinvia alla motivazione della pronuncia di primo grado senza dar conto dell’avvenuto accertamento del peggioramento retributivo; secondo la difesa di parte ricorrente, detto rinvio per relationem renderebbe violato, in fase rescissoria, il vinculum juris contenuto nella sentenza di legittimità resa in sede rescindente;

tuttavia parte ricorrente non trascrive nè produce in ricorso il provvedimento di primo grado su cui fonda le proprie doglianze, nè il ricorso d’appello ove contesta le statuizioni contenute nella sentenza oggetto del rinvio per relationem;

secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, il ricorrente che in sede di legittimità denunci un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto è onerato, a pena d’inammissibilità del ricorso, non solo della specifica indicazione del documento e della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto, ma anche della completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti e dei documenti così da rendere immediatamente apprezzabile dalla Suprema Corte il vizio dedotto (cfr. tra le più recenti Cass. n. 14107 del 2017);

al pari, ove la critica alla sentenza resa in fase rescissoria denunci un asserito difetto della motivazione attuata mediante rinvio “per relationem” alla sentenza di prime cure, essa non si sottrae al rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione;

le Sezioni Unite di questa Corte hanno in proposito affermato che “In tema di ricorso per cassazione, ove la sentenza di appello sia motivata per relationem alla pronuncia di primo grado, al fine di ritenere assolto l’onere ex art. 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo Giudice specificamente condivisa dal Giudice dell’appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il Giudice di secondo grado ha, in realtà eluso i suoi doveri motivazionali” (Sez. Un. n. 7074 del 2017);

la mancata autosufficienza del ricorso incide anche nel caso in esame, là dove non consente di accertare a questa Corte se la Corte d’Appello in sede rescissoria abbia disatteso il vinculum juris ad essa imposto dalla sentenza di legittimità resa in sede di rinvio;

in definitiva, il ricorso è inammissibile; non si provvede alle spese per mancanza di attività difensiva da parte dell’intimata;

si dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, salvo accoglimento dell’istanza di gratuito patrocinio.

Così deciso in Roma, all’Adunanza Camerale, il 24 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2018

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