Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 31142 del 28/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 28/11/2019, (ud. 10/10/2019, dep. 28/11/2019), n.31142

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18262/2014 proposto da:

RC18 IMPORT – EXPORT G.C. S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEL MASCHERINO 72, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA

PETRILLI, rappresentata e difesa dall’avvocato SALVATORE MADDALENA;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e

quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di Cartolarizzazione

dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE

BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto,

rappresentati difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI, EMANUELE DE

ROSE, LELIO MARITATO, CARLA D’ALOISIO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 99/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 11/02/2014 R.G.N. 178/2011.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza pubblicata in data 11 febbraio 2014, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto da RC 18 Import – Export G.C. Spa volto all’annullamento della cartella esattoriale notificata dall’ESABAN Spa, quale concessionaria del servizio di riscossione, per conto dell’Inps, con la quale era stato richiesto il pagamento della somma di Euro 157.265,80 per omissioni contributive relative agli anni 2002/2003;

2. la Corte di Appello ha condiviso l’assunto del Tribunale secondo il quale le lavoratrici di cui al verbale ispettivo redatto dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Cosenza svolgevano in favore della società attività lavorativa subordinata quali addette alla vendita presso l’esercizio di un centro commerciale, nonostante tra le parti fosse stato stipulato un contratto di associazione in partecipazione;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con 2 motivi, cui ha resistito l’INPS con controricorso; la ricorrente ha anche comunicato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. con il primo motivo di ricorso si denuncia: “violazione dell’art. 416 c.p.c., comma 2 (così nel testo), – violazione dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, articolando tre censure: con la prima si deduce che l’Inps, nel costituirsi nel giudizio di primo grado, non aveva “formalmente prodotto nè il verbale di accertamento nè i verbali di interrogatorio dei lavoratori”, documenti sui quali la Corte di Appello aveva fondato la decisione, per cui risultava violato l’art. 416 c.p.c., comma 3, che impone al convenuto di depositare i documenti contestualmente alla memoria di costituzione; con la seconda critica si eccepisce che l’Inps si era costituito tardivamente nel giudizio di primo grado, decadendo così dal potere di formulare richieste istruttorie, mentre il primo giudice aveva escusso il testimone indotto dall’Istituto, senza rilevare d’ufficio la relativa decadenza; con la terza censura si lamenta la violazione dei principi generali in materia di onere probatorio perchè la Corte “pur in presenza di formali contratti di associazione in partecipazione, ha ritenuto simulati i contratti suddetti”, nonostante fosse “documentalmente dimostrato il titolo giuridico e la ragione in forza della quale le sopraindicate persone erano state trovate intente nell’unità commerciale oggetto dell’ispezione”;

2. il motivo, in tutte le sue articolazioni, non è meritevole di accoglimento;

occorre premettere che la Corte territoriale ha affermato che la documentazione “consistente nel verbale ispettivo e allegati allo stesso” era allegata alla memoria di costituzione in primo grado dell’INPS e che nella medesima l’Istituto aveva richiesto “la prova testimoniale, mediante audizione degli ispettori verbalizzanti” (cfr. pag. 6 sentenza impugnata), mentre parte ricorrente sostiene che alcuna documentazione risulterebbe “formalmente prodotta” in primo grado, ma tale deduzione non è adeguatamente sostenuta dalla indicazione dei contenuti degli atti che attestino il fatto processuale sul quale l’assunto si fonda;

2.1. circa la prima censura – fermo il principio per cui, nel processo del lavoro, l’omessa indicazione dei documenti prodotti nell’atto di costituzione in giudizio e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto determinano decadenza dal diritto di produrli, salvo che si siano formati successivamente alla costituzione in giudizio o la loro produzione sia giustificata dall’evoluzione della vicenda processuale – la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che, nel caso in cui sia chiesta da una parte la produzione di documenti all’udienza di discussione della causa e la controparte non si opponga alla produzione, deve ritenersi che la parte nei cui confronti è chiesta la produzione abbia accettato il provvedimento giudiziale di ammissione (Cass. n. 19810 del 2013; Cass. n. 10102 del 2015; Cass. n. 14820 del 2015, secondo cui, inoltre, il giudice ne può ammettere la produzione, ai sensi dell’art. 421 c.p.c. e, in appello, ai sensi dell’art. 437 c.p.c., in base ad una valutazione discrezionale insindacabile in sede di legittimità, ove ritenga tali mezzi di prova comunque ammissibili, perchè rilevanti e indispensabili ai fini del decidere; Cass. n. 16781 del 2011, secondo cui ove il giudice disponga l’ammissione d’ufficio dei documenti all’udienza di discussione, il silenzio della controparte comporta l’accettazione del provvedimento giudiziale di ammissione);

nella specie parte ricorrente non deduce nè prova di essersi tempestivamente opposta in primo grado all’acquisizione della documentazione avversa, per cui la doglianza in esame è priva di decisività;

2.2. parimenti, quanto alla seconda censura, parte ricorrente non deduce nè prova di aver eccepito la decadenza del diritto del convenuto di assumere la prova testimoniale richiesta con la memoria di costituzione, poi effettivamente espletata in primo grado; orbene, anche nelle controversie di lavoro, ove non venga tempestivamente eccepita tale decadenza e la controparte non si oppone alla richiesta del mezzo istruttorio, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte, qui condivisa, la parte dimostra di volere rinunciare a far valere detta decadenza, stabilita nell’interesse della parte, con conseguente preclusione del potere di dedurre la nullità ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 3 (Cass. n. 8600 del 1992; Cass. n. 348 del 1987; Cass. n. 6541 del 1986; Cass. n. 6567 del 1982), così come, più in generale, le formalità relative alla deduzione ed all’assunzione della prova testimoniale, in quanto stabilite non per ragioni di ordine pubblico ma per la tutela degli interessi delle parti, danno luogo, per il caso di loro violazione, a nullità relative e, dunque, non rilevabili d’ufficio dal giudice, dovendo essere eccepite tempestivamente (di recente: Cass. n. 24292 del 2016; v. pure Cass. n. 20652 del 2009);

2.3. inammissibile è poi la terza censura con cui si evoca la violazione dell’art. 2697 c.c., che è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece ove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), come nella specie laddove parte ricorrente critica l’apprezzamento operato concordemente dai giudici del merito circa la simulazione dei contratti di associazione in partecipazione, opponendo una diversa valutazione che non può essere svolta in questa sede di legittimità;

3. il secondo motivo denuncia “violazione dell’art. 2553 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, per avere la sentenza impugnata sostenuto che nei contratti di associazione in partecipazione in contesa non era prevista alcuna partecipazione alle perdite nè alcuna ingerenza nella gestione dell’impresa, “indici questi della simulazione rafforzati dal mancato invio del rendiconto alle pretese associate”; si contesta che la mancata partecipazione alle perdite possa determinare la conversione del contratto di associazione in partecipazione in rapporto di lavoro subordinato e, comunque, si eccepisce che l’affermazione della Corte territoriale secondo cui, nella specie, le associate non partecipassero anche alle perdite sarebbe “errata ed insussistente nei fatti”, perchè detti contratti prevedevano “la partecipazione ai guadagni ed alle perdite nella stessa medesima misura”;

4. il motivo non è accoglibile;

4.1. in premessa deve essere ribadito in generale che, nell’ambito delle controversie qualificatorie in cui occorre stabilire se certe prestazioni lavorative siano rese in regime di subordinazione oppure al di fuori del parametro normativo di cui all’art. 2094 c.c., la valutazione delle risultanze processuali che inducono il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nello schema contrattuale del lavoro subordinato o meno costituisce accertamento di fatto, per cui è censurabile in Cassazione, secondo un pluridecennale insegnamento di questa Corte (tra molte, nel corso del tempo, v. Cass. n. 1598 del 1971; Cass. n. 3011 del 1985; Cass. n. 6469 del 1993; Cass. n. 2622 del 2004; Cass. n. 23455 del 2009; Cass. n. 9808 del 2011), solo la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre è insindacabile, se sorretta da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la scelta degli elementi di fatto cui attribuire, da soli o in varia combinazione tra loro, rilevanza qualificatoria (cfr., più di recente, Cass. n. 11646 del 2018 e Cass. n. 13202 del 2019);

in particolare è stato poi precisato che spetta ai giudici del merito la valutazione dei fatti che concretano gli indici sintomatici della subordinazione, al fine di esprimere un giudizio complessivo dei medesimi che sintetizzi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento circa la sussistenza o meno della subordinazione, per cui, rispetto a tale convincimento, chi ricorre in cassazione non può limitarsi ad opporre un diverso convincimento, criticando la sentenza impugnata per avere dato credito a talune circostanze, che si assumono prive di valore significativo, piuttosto che ad altre, ritenute al contrario più rilevanti; infatti, come in tutti i giudizi nei quali la decisione è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi, tutti concorrenti a supportare la prova del fatto principale, il ricorrente non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, plausibile al pari di quella già offerta dai giudici del merito, ma, trattandosi di giudizi di fatto, può sottoporli al sindacato di questa Corte nei limiti consentiti da una prospettazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente (cfr. Cass., n. 11015 del 2016; in conformità Cass. n. 17533 del 2017; Cass. n. 25383 del 2017);

4.2. avuto specifico riguardo al contratto di associazione in partecipazione questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. n. 1692 del 2015) che “la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell’organizzazione aziendale”; si è, altresì, precisato (Cass. n. 1817 del 2013) che “in tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, l’elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione da parte dell’associato, dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (successiva conf. Cass. n. 4219 del 2018);

4.3. ciò posto, il motivo in esame, lungi dall’evidenziare un effettivo error in iudicando in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, si risolve in un diverso apprezzamento dei fatti che hanno dato origine alla controversia quilificatoria, mentre la Corte territoriale ha adeguatamente motivato in relazione al difetto delle caratteristiche essenziali dell’associazione in partecipazione ed alla ricorrenza di significativi elementi sintomatici della subordinazione, sicchè risulta inammissibile in questa sede di legittimità una diversa valutazione dello stesso materiale probatorio (con particolare riguardo ai contatti di associazione in partecipazione, di cui neanche si riporta l’intero contenuto testuale nè si indica dove i medesimi siano reperibili ai fini del giudizio di legittimità), tesa ad accreditare la legittimità della qualificazione attribuita al rapporto dalle stesse parti (circa l’inammissibilità di doglianze che, proprio in tema di associazione in partecipazione, si sostanzino nell’opporre un diverso apprezzamento del materiale istruttorio rispetto a quello operato dai giudici del merito v., da ultimo, Cass. n. 4785 del 2019);

5. conclusivamente il ricorso va respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 6.500,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

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